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Relationes bibliographicae: Note a proposito di un libro intorno alla "dialettica istituzionale" tra patriarcato latino di Gerusalemme e custodia di Terra santa (1847-1872)

 
 
 
Foto Buffon Giuseppe , Relationes bibliographicae: Note a proposito di un libro intorno alla "dialettica istituzionale" tra patriarcato latino di Gerusalemme e custodia di Terra santa (1847-1872), in Antonianum, 82/3 (2007) p. 559-571 .

L’ottica delle “controversie giurisdizionali”, scelta da Paolo Pieraccini per la trattazione di uno dei temi più delicati della storia della presenza cattolica in Medio Oriente, ci offre un panorama inedito delle ragioni perseguite per la ricostituzione del patriarcato latino, considerato in precedenza sotto il profilo politico-diplomatico (Aubert, Martina, Frazee, Malo) ed ecclesiastico-interconfessionale (Hajjar, Valogne, Patelos, Colin, Colby, Odeh, Médebielle, Sayegh). Lo studioso, che si è formato proprio grazie ad indagini intorno a tematiche relative a questioni di politica religiosa mediorientale[1], si avvale qui di una copiosa documentazione, proveniente da archivi ecclesiastici e diplomatici. I fondi documentali più ampiamente sfruttati risultano quelli dell’archivio della congregazione di Propaganda Fide o Evangelizzazione dei popoli, che imprimono al lavoro un taglio particolare, conferendo maggiore rilevanza agli organismi centrali. I materiali rinvenuti negli archivi francescani e in quello del patriarcato si dimostrano, invece, complementi utili a definire meglio il punto di vista locale. Le fonti reperite negli archivi del ministero degli esteri francese (Parigi e Nantes) non solo consentono uno sguardo alternativo rispetto a quello della custodia, ma soprattutto offrono abbondanti informazioni sulla vicenda di alcuni santuari (Emmaus-Qubeibeh, Ein-Karem, S. Anna, Abu Gosh). Non va, infine, dimenticato l’apporto ottenuto dall’indagine degli archivi del ministero degli esteri spagnolo, specialmente per gli indispensabili approfondimenti circa la questione finanziaria.

Lo svolgimento della ricerca, che segue una scansione cronologica, si articola in dodici capitoli. Nei primi due l’autore propone una panoramica storico istituzionale intorno all’origine del patriarcato latino (1899) e della custodia (1342), proseguendo con l’analisi dell’evoluzione della dimensione canonica e apostolico-assitenziale assunta dalla missione francescana, fino alle soglie del ristabilimento del patriarcato stesso (1847). Nel terzo e quarto capitolo, che rivestono ancora un carattere introduttivo, vengono documentate invece le ‘ragioni strutturali’, che condussero alla decisione presa dall’organo pontificio a sostegno della ricostituzione del patriarcato. Esse possono essere così definite:  la ‘presunta’ crisi disciplinare ed economica della custodia e l’attuazione del programma ecclesiale di Propaganda fide, che prevedeva il passaggio ‘dalle missioni alla chiesa locale’. Alla presentazione delle ‘cause congiunturali’ invece è dedicato il quarto capitolo, con il quale l’autore sembra voler sottolineare i limiti dell’iniziativa pontificia: la scarsa ponderazione delle reazioni francescane, l’eccessiva approssimazione della normativa intorno ai rapporti tra patriarcato e custodia (Nulla celebrior, 23 luglio 1847 – Sanctissimus Dominus, 10 dicembre 1847), e infine l’errore commesso nella scelta della persona, con mons. Giuseppe Valerga, condizionato da un carattere inflessibile, impaziente e irascibile.

I due successivi capitoli (VI-VII), costitutivi del nucleo portante del lavoro, riguardano proprio le ‘controversie giurisdizionali’ sorte per questioni di rappresentanza, o simboliche, come ama definirle l’autore, e soprattutto economiche, che spingeranno la Sede apostolica a ridefinire meglio le norme sui rapporti tra nuova e vecchia istituzione mediante l’emanazione del decreto apostolico Licet ex eo tempore (9 settembre 1851). La centralità della questione finanziaria emerge  con ancor maggiore evidenza nei capitoli VIII e IX, dedicati quasi esclusivamente al tema economico, argomento di cui si occupa anche il capitolo XI, sui santuari, il quale sembra costituire di essi quasi un’appendice. Al centro di questa diatriba sulla amministrazione della cassa di Terra santa, che si estende per oltre un terzo dell’opera, il capitolo X, con la disamina della interessante visita condotta da mons. Spaccapietra, ripropone la questione delle difficoltà dovute al carattere del Valerga, che la Sede pontificia non sembra però voler affatto valutare, nonostante le perorazioni del suo visitatore. L’ultimo capitolo (XII), che parrebbe fungere da conclusione, viene consacrato di fatto alla vicenda relativa alla composizione dei conflitti, frutto inequivocabile di un cambiamento operato dai francescani sul piano e del personale di governo e della linea politica.

La cosiddetta ‘crisi della custodia’ pare essere determinata non tanto dalla semplice controversia tra italiani e spagnoli, quanto piuttosto dalla disfunzione per così dire istituzionale, dai mutamenti avvenuti sul piano internazionale tra le fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX e, in particolare, dalla degenerazione del sistema del patronato spagnolo, che ebbe conseguenze gravissime per tutto l’Ordine francescano, costretto ad assoggettarsi ad una scissione istituzionale (Inter graviores, 15 maggio 1804), che si sarebbe protratta oltre le soglie del XX secolo. Il peso delle ingerenze del governo iberico nel sistema di finanziamento della custodia, col tempo si fece più gravoso, soprattutto a partire dalla metà del XVIII secolo, quando  Filippo V, per esigenze belliche, si appropriò dei 5 milioni di ducati che gli Angioini avevano depositato a beneficio della custodia e, in particolare, quando Carlo III di Borbone, in opposizione agli statuti benedettini (In supremo militantis Ecclesiae, 7 gennaio 1746) che tentarono di derimere la questione nazionalista, con la Real cedula (1772), rivendicò i diritti di patronato sulla custodia. L’impotenza dell’Ordine e della Sede apostolica, di fronte ai provvedimenti spagnoli, determinarono una situazione economicamente precaria per la custodia, la quale si trovò ulteriormente penalizzata dopo l’emanazione del breve Exponi nobis (1794), con il quale veniva assegnato alla Spagna un potere assoluto sullo stato finanziario di Terra santa.

Anche le relazioni compilate dai custodi Bonavantura da Nola (1805) e Tomaso da Montasola (1825), analizzate nel capitolo terzo dell’opera, allo scopo di dimostrare la crisi ‘disciplinare dell’organismo francescano, vennero redatte, in realtà, con l’intento di perorare presso la Sede pontificia un intervento che risolvesse la crisi economica, aggravata dalle conseguenze  della rivoluzione spagnola (1820), che aveva bloccato del tutto l’invio di offerte destinate ai Luoghi santi. Il carattere economico-finanziario della documentazione si riscontra anche dall’utilizzo che di essa si fa successivamente, nelle controversie per le proprietà spagnole scoppiate nella seconda decade del XIX secolo[2]. La crisi economica era però destinata a mantenersi inalterata, se non a peggiorare, per la ragione che la Sede apostolica, intimorita da eventuali ritorsioni, non osava intervenire presso il governo spagnolo. Le varie assemblee generali promosse da Propaganda (1826-30) a tale riguardo risultarono inefficaci per la medesima causa politica.

Le carenze dei francescani di Terra santa, specialmente quelle disciplinari, vennero invece messe in luce dalla ponenza De Gregorio (1830), che in buona parte si basava però sulle informazioni desunte dalla relazione del cappuccino Angelico da Loreto, il quale, temedo di venire accusato per mancanza di obiettività, aveva indicato come fonte neutrale un testimone di sua fiducia, del quale tuttavia non si conosce che una breve missiva, pregna di elogi intorno all’efficacia apostolica dei cappuccini. La fonte principale della ponenza Mattei (1836) invece, si può identificare nel rapporto steso da mons. Jean Baptist Auvergne, vicario apostolico di Aleppo, che si era soffermato sulle carenze disciplinari e sulla infruttuosità apostolica, motivata dalla imperizia nell’uso della lingua araba. L’obiettività dei giudizi espressi dal prelato, che l’autore ritiene di potere fondare sul fatto di considerarlo erroneamente iscritto all’Ordine dei frati minori, vacilla quando si appura che l’Auvergne risulta iscritto alla congregazione dei Missionnaires de France di p. Rauzan[3]. L’analisi dell’operato di Propaganda, corrispettivo a questo periodo, rivela in effetti la difficoltà del dicastero a reperire visitatori idonei per le missioni mediorientali; quando, infine, ritiene di poter inviare mons. Perpetuo Guasco, vicario apostolico d’Egitto - che è pur sempre un francescano, anche se in dissidio con i suoi confratelli per motivi d’ufficio – le notizie che vengono fatte pervenire alla sua sede, trattano esclusivamente dei disagi di carattere economico. Di fronte a questi dati, come non porsi allora la questione intorno al sistema di raccolta di informazioni adottato dalla congregazione di Propaganda, ai criteri perseguiti per la scelta degli informatori e per la valutazione dei giudizi da essi riferiti? La risposta della sede apostolica alle ripetute richieste di intervento nei confronti dell’amministrazione economica, inoltrate dalla custodia, giunse solamente nel 1846 (ormai alle soglie del ristabilimento del patriarcato), con la Romani pontifices, che stabiliva l’unicità della cassa e la facoltà per il custode di avvalersene, onde finanziare la fondazione di scuole presso ogni convento.

La ragione di natura ecclesiale per il ripristino del patriarcato, ossia la necessità di operare un passaggio dalle missioni alla chiesa locale, viene presentata come l’attuazione di un progetto antico, che affonda le sue radici nell’ideale stesso, il quale aveva ispirato l’istituzione di Propaganda fide. Il tentativo di infrangere il monopolio francescano in Oriente aveva trovato il suo primo impulso con l’invio di cappuccini e gesuiti, i quali, come cappellani dei diplomatici francesi, avevano cercato addirittura di introdursi a Gerusalemme, per sostituire la custodia nella cura dei Luoghi santi. L’obiettivo non fu raggiunto, grazie all’intervento della Spagna, che convinse la stessa Sede apostolica a non cedere alla strumentalizzazione della politica francese. Verso la metà del XVII secolo, cominciarono a maturare anche i primi sforzi volti ad istituire la gerarchia ecclesiastica, tramite la scelta di mons. Giovanni Battista Dovara (1644), nominato vescovo di Aleppo, sede mai da lui raggiunta, e di Arnuld Bossu (1761), che rimase in carica per soli tre anni.

Dopo la rivoluzione francese, che mise fine alle velleità di cappuccini e gesuiti tendenti ad insidiare la giurisdizione della custodia – al loro posto subentrarono lazzaristi e cappuccini italiani -, con la nomina di mons. Luigi Gandolfi venne ricostituito il vicariato apostolico di Aleppo (1817) munito della piena giurisdizione su tutti i missionari, ad  eccezione dei francescani. A nulla valsero le proteste del titolare stesso, Gandolfi, contro queste misure, che paralizzavano la sua azione pastorale di fronte alle minacce della Spagna, la quale continuò a sostenere gli interessi della custodia anche nel corso di altri anni, quando cioè il card. De Gregorio (1820) si impegnò inutilmente per riproporre la medesima questione ai cardinali di Propaganda. Soltanto nel 1841 fu possibile far rientrare nel regime ordinario i francescani del vicariato apostolico di Aleppo. Nel frattempo, però, grazie e alla politica missionaria di Gregorio XVI,  e alle riforme liberali introdotte da Mahamed Ali, e alle pressanti richieste avanzate da mons. Auvergne, nel 1839 era stato costituito anche il vicariato apostolico d’Egitto e ideato il primo progetto di vicariato apostolico per Gerusalemme.

Nel nuovo clima politico mediorientale, instaurato grazie alle Tanzimat (riforme ottomane), con le delegazioni diplomatiche europee in procinto di insediarsi a Gerusalemme, sotto la pressione di una incipiente missione russa e dell’attivismo dei protestasti, il 28 febbraio 1842  propaganda fide per la prima volta in modo approfondito il tema del ristabilimento della gerarchia ecclesiastica a Gerusalemme. Il prefetto in persona, card. Filippo Fransoni, nel ruolo di ponente, sottolineava i vantaggi prevenienti dall’affidare una missione alla responsabilità di un vescovo, sia dal punto di vista pastorale sia da quello dottrinale. Interessante appare, a tale riguardo, l’osservazione di un consultore di Propaganda, mons. Albert-Jules Brimont, che rilevava la mancanza di interesse a riguardo della ‘rappresentanza’, nella nomina di un vescovo in sostituzione del custode, in quanto il superiore delle missione francescana godeva già di notevole prestigio, sia presso le autorità religiose di altre confessioni, sia presso i  poteri politici ottomani. L’unico modo valido per rendere più efficiente la presenza missionaria, ad avviso del prelato, sarebbe stato quello di provvederla di altro personale e soprattutto di maggiori risorse economiche. Il profitto sul piano pastorale e la ‘rappresentanza’ risultavano dunque i temi maggiormente dibattuti presso Propaganda fide durante le discussioni intorno alla funzione di un vescovo nella veste di responsabile della missione a Gerusalemme.

Se Hajjar[4], con l’esame della documentazione proveniente dagli archivi diplomatici francesi, aveva illustrato le ragioni anti protestanti della scelta pontificia, avallando sia il motivo della rappresentanza, da contrapporre all’episcopato anglo prussiano, sia quello dell’efficacia, per reagire all’attivismo riformato, Piaraccini, con l’esame del voto di mons. Corboli Bussi (1844 ca), ci offre la possibilità di allargare il quadro delle conoscenze nei confronti di temi a carattere ecclesiologico. L’insediamento della gerarchia ordinaria risulterebbe giustificato, secondo il prelato, per il fatto che i religiosi dimostravano la loro abilità soprattutto nella conquista di nuovi popoli alla fede e non altrettanto nella conservazione della stessa, assicurandole stabilità e continuità. Solamente un vescovo avrebbe potuto sviluppare maggiore cura nei confronti della realtà locale, favorendo elementi nazionali e formando così un clero indigeno “potente in virtù e dottrina”. I francescani, egli riteneva, avrebbero potuto continuare a gestire la custodia dei Luoghi santi, con compiti di rappresentanza, mentre al vescovo, auspicabilmente un francescano, non sarebbe stato opportuno assegnare il titolo di patriarca. La nuova istituzione non avrebbe dovuto pesare finanziariamente sull’economia della custodia, che già doveva versare 500 scudi al vicario apostolico d’Egitto e scarseggiava di risorse, per il fatto che molti paesi d’Europa avevano bloccato il ministero della questua. Anche il Pieraccini sembra favorire le proposte del Corboli Bussi che, se accolte, avrebbero potuto evitare tanti conflitti giurisdizionali. Si può ricordare a tale proposito la soluzione apportata, con ottimi risultati, nella missione cinese, dove la sede apostolica aveva unificato in un’unica persona la figura del superiore religioso e quella di responsabile della missione, ovvero nel  vicario apostolico.

L’avvento al trono pontificio di Pio IX, che alle ragioni pastorali, ecclesiologiche e di rappresentanza aggiunse quelle derivanti dalla sua politica ottomana, mirante a stabilire rapporti diretti con la Porta, risultò determinante per la decisione finale a sostegno del ristabilimento del patriarcato. La ponenza del card. Acton, presentata nella congregazione generale del 25 gennaio 1847, allo scopo di chiarire le modalità per una più efficace attuazione della scelta pontificia, sembra infatti mettere in luce maggiormente le caratteristiche politico diplomatiche e di rappresentanza della nuova istituzione, alla quale venne assegnata proprio in questa sede la qualifica di patriarcato. La presenza di un patriarca nella sede gerosolimitana, oltre che rispondere alle esigenze di tipo pastorale, con la creazione di un clero locale, avrebbe garantito secondo l’Acton il prestigio della chiesa cattolica di fronte alle altre confessioni e alle rappresentanze diplomatiche delle nazioni europee. Nell’udienza del 16 maggio, l’Acton precisava ancora che  il titolo stesso di Patriarca risultava necessario ad un “rappresentante della Santa Sede in Costantinopoli”, ad un “nunzio  rappresentante della S. Sede”, presso il quale si sarebbero recati i “patriarchi orientali” per trattare i loro affari. Il pontefice non avrebbe esitato ad approvare le decisioni dei cardinali presentate dall’Acton, ritenendole del tutto consone alla politica della Sede apostolica nei confronti dell’impero Ottomano. “Da questo momento - come afferma il Pieraccini – i cardinali procedettero speditamente verso la soluzione dei restanti quesiti, in particolare quelli sulla determinazione dei rapporti tra il patriarca e i francescani” (200), dimostrando una certa superficialità nell’assunzione di quei provvedimenti atti ad evitare molti successivi conflitti. La missione diplomatica che stava tanto a cuore al pontefice, contrariamente a quanto ritiene Giacomo Martina, si rivelò assolutamente fallimentare, come ampiamente documentato nella lunga nota alle pagine 212-213. Non era stato forse ingenuo sperare in un successo, alle soglie della guerra di Crimea, con l’impero ottomano preda delle potenze europee e della Russia in modo particolare? La politica orientale della Sede pontificia e di Pio IX in particolare si rivelò altrettanto fallimentare anche in seguito (1862), quando venne respinto il suo intervento nella questione della riparazione della cupola del Santo Sepolcro. 

In riferimento al primo periodo trascorso a Gerusalemme dal neo patriarca, mons. Giuseppe Valerga, l’autore attribuisce una certa importanza alle due relazioni compilate dal medesimo, nel mese di maggio del 1848 e in aprile del 1850, considerandole addirittura una “preziosa istantanea dello stato della diocesi”. Alla luce di altri giudizi sulla missione gerosolimitana, almeno di quelli dei due visitatori proposti nel seguito della ricerca, esse paiono non delle mere descrizioni della realtà quanto piuttosto strumenti di una strategia, messa in atto nel tentativo di creare un varco, uno spazio di manovra, nel panorama complesso della missione mediorientale. Solo grazie a questa prospettiva è possibile individuare nelle relazioni del Valerga gli elementi posti alla base della nuova figura giuridica del patriarcato, che vanno ben oltre la dimensione pastorale diocesana, giungendo a toccare diversi aspetti attinenti al piano politico diplomatico e al necessario supporto economico. La critica del patriarca si rivolge non solo alla condizione delle scuole, con classi numerose e pochi maestri, ma si concentrava maggiormente sul sistema assistenziale che, a suo giudizio, avrebbe indotto ad una ‘fede interessata’. I francescani, infatti, a quanti abbracciavano la fede cattolica fornivano alloggi e li sollevavano dalle tasse, salvo poi a vederseli sfuggire di mano quando, ad esempio, i Russi offrivano loro migliori vantaggi.

Anche il sistema della distribuzione di aiuti ai poveri, a parere del patriarca, risultava avvalersi di una struttura clientelare, che faceva appello al dispotismo dei capi gruppo. Egli riteneva di poter moralizzare la popolazione col mutare il sistema adottato dai francescani tramite la creazione di un clero indigeno, proveniente cioè dall’ambito stesso di quella popolazione candidata alla fede e soprattutto alla morale cristiana. Il prelato accusava infatti i francescani di avere ceduto eccessivamente ad usi locali, niente affatto in linea con le esigenze evangeliche. Il Valerga, mentre era costretto a riconoscere l’ascendente dei francescani sulla popolazione, che li riconosceva come sue guide, dimostrava indirettamente di rivendicare per sé la loro posizione. Gli stessi patriarchi orientali, infatti, ai quali egli intendeva presentarsi come interlocutore pontificio, godevano di un certo prestigio, perché, essendo responsabili del sistema assistenziale, si proponevano alla popolazione quali sovvenzionatori dei suoi bisogni materiali.

L’aspetto economico, quale necessario supporto alle esigenze della rappresentanza, viene sottolineato soprattutto nella seconda relazione del Valerga, nella quale i francescani vengono accusati di attribuirsi una “dignità reale”, una posizione quindi che la regola di S. Francesco non avrebbe consentito loro di assumere. Il codice normativo minoritico non avrebbe permesso loro nemmeno di gestire autonomamente l’amministrazione economica. Il patriarca sosteneva insomma la necessità di ridurre la custodia a semplice provincia, come si verificava nel territorio europeo, quasi che egli, esautorato del controllo sull’economia, si ritenesse costretto a condurre un “esistenza senza potere”, vale a dire senza considerazione, senza influenza e senza dignità. D’altronde, mentre nella prima ponenza Altieri (1848), seguita alla prima relazione del patriarca, non si era attributo un peso eccessivo alla questione, soffermandosi piuttosto sulle connotazioni pastorali e rappresentative (investitura del cavalieri, assegnazione della bandiera, uso del sigillo), nella seconda ponenza Altieri (1850), con la proposta di una soluzione a problemi pastorali, si riconosce al contrario un ruolo particolare alla questione economica, tanto da pervenire alla decisione di rinviarne la trattazione, dopo aver chiesto ai contendenti la presentazione di un proprio progetto.

Anche i francescani, d’altra parte, irritati inizialmente a motivo delle questioni attinenti alla rappresentanza, o simboliche, come le definisce l’autore (pontificali, protocollo liturgico), infine si sentono lesi, soprattutto a causa di questioni attinenti all’amministrazione dei beni temporali. L’economia, per ragioni di rappresentatività, oltre che di pastoralità, si impone dunque come la base e la ragione primaria degli scontri giurisdizionali durante la dialettica tra nuova e vecchia realtà, tanto che all’autore stesso sembra opportuno concedere a tali problematiche ben due capitoli della sua ricerca, senza contare che un terzo capitolo, quello sui santuari, potrebbe considerarsi quasi una loro appendice.

I conflitti intorno all’amministrazione finanziaria sembrano prendere quota in particolare successivamente al decreto Licet (1851), in quanto esso, mentre veniva emesso per regolamentare i rapporti tra le due istituzioni, stabiliva di affidare interamente al patriarca il controllo dell’amministrazione economica. Le altre normative stabilite dal decreto – ruolo dei missionari nel governo della custodia, controllo patriarcale sui trasferimenti dei parroci e sulle pubblicazioni della tipografia, diritto di visita, direzione delle scuole –, riguardanti quasi esclusivamente tematiche di natura pastorale, indicano chiaramente come le questioni relative ad essa fossero ormai in via di soluzione, dimostrando chiusa la fase dialettica concernente la funzione circoscritta al ruolo di vescovo diocesano.

I francescani, in seguito ai provvedimenti adottati circa l’amministrazione,  richiamarono l’attenzione sulla ‘filosofia mendicante’ relativa alla raccolta delle collette che, essendo volontaria, non poteva essere quantificata sulla base di un preventivo. Essi si astennero perciò durante alcuni anni dal consegnare i bilanci preventivi. Il patriarca, dal canto suo, criticava la contabilità a lui sottoposta dalla custodia, accusando i frati della mancata registrazione della condotta dei commissariati, dell’eccessivo numero di personale (visitanti, addetti alla liturgia nei santuari), dell’impiego di denaro per salariati e maestri, degli indebiti emolumenti ai turchi, di ridondanti elemosine ai poveri, per criticare  infine addirittura i consumi quotidiani degli stessi religiosi (abbigliamento, vitto, sanità, manutenzione degli edifici, sistema assistenziale). Il medesimo prelato ingiungeva poi, a suo appannaggio, di inserire tra le spese un capitolo relativo agli affari della nazione latina presso il governatore turco, confermando così la sua propensione di investirsi di ruoli di rappresentanza politica.

Nel 1852, la custodia si decise finalmente ad adeguarsi alle richieste di Propaganda, stilando un preventivo spese con l’esplicitazione degli esiti delle condotte dei commissariati. Ciononostante, il patriarca persisteva nel denigrare i francescani, accusandoli di alterazione dei dati, col presentare una finta crisi economica, così che risultasse inferiore la quota a lui riservata. Tale sospetto veniva condiviso anche da Propaganda, la quale, con due lettere del suo prefetto, richiamava i frati denunciando il loro rifiuto verso la nuova organizzazione, per la manomissione dei preventivi e per l’appello rivolto direttamente a corti europee in vista di sovvenzioni, sfuggendo in tal modo al controllo dell’autorità ecclesiastica locale. Nella diatriba intervenne nel frattempo la Spagna, la quale, temendo l’interferenza della Francia nelle misure assunte dal Propaganda a danno della custodia, ritenne di dovere inviare a Gerusalemme un proprio rappresentante (1853), con il compito di amministrare i proventi raccolti nel suo paese e destinati alla Terra santa, distribuendoli solamente a quei conventi ove alloggiassero religiosi spagnoli. Piovvero intanto sulla custodia nuove critiche, con l’accusa di tramare per la nazionalizzazione delle collette. Propaganda, nel tentativo di stemperare il conflitto, l’11 marzo 1854 indisse alla custodia l’obbligo di conferire al patriarca almeno un assegno provvisorio pari ad 1/5 delle entrate, cosa che suscitò le rimostranze del patriarca contro la congregazione stessa, accusandola di scarsa fermezza.

Un giudizio discretamente neutrale su tutta la situazione si può cogliere forse nelle relazioni inviate, nel 1855 e nel 1859, dai due visitatori in Terra Santa, alla medesima congregazione di Propaganda; esse si rivelano entrambe sfavorevoli all’operato del patriarca. Il primo visitatore, fr. Alfonso da Rumilly, procuratore generale dei cappuccini, rifiutò di credere all'impianto accusatorio del patriarca – che si era avvalso di informazioni poco affidabili tramite un religioso spagnolo, fra Giuseppe Salvat – approvando affatto l’amministrazione custodiale, i suoi metodi missionari e la cura prestata ai santuari, stimmatizzando per contro la tendenza del patriarca a circondarsi di sfarzo mondano, motivo di scandalo per i fedeli.

Se riguardo alla testimonianza di fr. Alfonso, seguendo le indicazioni del Pieraccini, è permesso avanzare qualche riserva, nulla sembra potersi obiettare alle affermazioni del secondo visitatore, mons. Vincenzo Spaccapietra, con il quale pare consenziente l’autore medesimo. Questi, dichiaratosi inizialmente diffidente verso i francescani e sostenitore del patriarca, concludeva la visita esprimendosi in maniera del tutto contraria e sottolineava: il palese disprezzo del patriarca nei confronti dei frati; l’ottimo inserimento di costoro nel territorio; l’inutilità del seminario patriarcale (che avrebbe fomentato il nazionalismo e l’avversione contro i religiosi) e la validità della scuola francescana di arti e mestieri; l’inconsistente progresso delle missioni condotte dal patriarcato, e rilevando infine come le note controversie fossero dovute non tanto alle strutture quanto alle persone. Spaccapietra suggeriva quindi di impedire ogni ingerenza del patriarca nella amministrazione della cassa di Terra santa, nonché di chiudere il seminario, e di ricorrere a sacerdoti religiosi, piuttosto che ad un fantomatico clero secolare. Egli tuttavia, sospettando che il Valerga accettasse i suoi rilievi, propose una promozione del medesimo, onde agevolare il suo trasferimento.  In riscontro a questa relazione, Propaganda deliberò le seguenti soluzioni:  la cessione da parte dei francescani non più del quinto delle risorse disponibili, ma di una quota fissa al patriarca (7.000 scudi);  l’esclusione del patriarca dalla presidenza della cassa; l’invio annuale a Propaganda del resoconto amministrativo.

Prima e durante la visita di mons. Spaccapietra, si mantenne vivace la controversia intorno ai santuari. I francescani, approfittando delle riforme del governo ottomano, che permettevano il restauro di chiese e monumenti (1856), e pressati dalla concorrenza degli ortodossi finanziati dalla potenza russa (1858), iniziarono una campagna di lavori in diversi luoghi santi, disponendo alcuni di essi alla celebrazione del culto (Visitazione, Tabor, Flagellazione, S. Giovanni in Mantana, Getsemani, Grotta del Latte e Bottega di S. Giuseppe). Il patriarca interpretò tali iniziative come  un ennesimo affronto alla sua autorità, un dispositivo per sottrarre soldi alla cassa, riducendo di conseguenza l’ammonto della sua quota. Egli inoltre accusava i francescani di sbandierare, di fronte alla Propaganda, lo ‘spauracchio scismatico’, al fine di sostenere la necessità e l’urgenza di impegnare certo capitale nel restauro dei Luoghi Santi. Nell’ambito di tali controversie nascevano anche le dispute sulla storicità dei santuari e sulla autorità competente a dichiararne l’autenticità.

La congregazione di Propaganda, come era già accaduto per altri contrasti, si dimostrò partitaria di una politica dilatoria, temporeggiando assai prima di assumere decisioni definitive. E’ emblematica a tale riguardo la giustificazione fornita dal mons. Annibale Capalti, segretario della medesima congregazione. Egli non faceva mistero delle difficoltà effettivamente incontrate dal dicastero, allo scopo di “ristabilire effettivamente l’ordinaria autorità episcopale a Gerusalemme”, mantenendo nel contempo “la benemerita Custodia”. Il prelato si diceva però persuaso che le difficoltà incontrate nell’attuazione dei provvedimenti si dovessero attribuire alla “umanità da ambe le parti”. Il medesimo riconosceva tuttavia che Propaganda fide aveva cercato spesso di “perdere tempo, affine di decidere come meglio potesse ottenersi il bramato intento di mantenere […] quanto poteva conciliarsi con le presenti circostanze”. In che termini effettivamente si trattasse di una strategia di politica decisione e in quali di un mero tentativo di giustificare la lentezza del macchinoso organismo burocratico, è difficile da stabilire, come difficoltoso risulta determinare la misura della responsabilità da attribuire alla curia pontificia nella gestione, attuata o mancata, delle suddette lunghe ed estenuanti alterchi giurisdizionali.

La pacificazione tra le parti sembra giungere, almeno secondo l’autore, in conseguenza dei mutamenti sopravvenuti nel personale al vertice dell’organismo francescano, ossia con la elezione di un nuovo ministro generale (1862) e la designazione di un nuovo custode (1863). Si poteva forse tener conto anche del fatto che, nel 1861, il patriarca era stato esonerato dalla presidenza dell’amministrazione finanziaria e che l’economia della custodia, se nel 1872 era giunta a pareggiare i conti, stesse lentamente beneficiando di maggiori introiti[5]. La politica di pacificazione del nuovo custode - che osava affermare: “la pace e l’unione sono la mia divisa”  - poté comunque trovare attuazione non senza una sorta di ‘sacrificio istituzionale’ imposto alla custodia, con notevoli ricadute sull’assetto interno del corpo religioso. Il definitorio venne infatti esautorato dei suoi poteri deliberativi a vantaggio dell’autonomia decisionale del custode, al quale erano state concesse eccezionalmente facoltà  da visitatore apostolico; questi, in realtà, dopo soli tre anni dall’assunzione dell’incarico (1866), si vide costretto a presentare le dimissioni a “causa di opposizioni interne” alla custodia. Il patriarca, da parte sua, vedendo l’atteggiamento conciliante e dimesso del nuovo custode, che si era recato a piedi alle celebrazioni dell’epifania nella basilica di Betlemme, cambiò totalmente atteggiamento, professando, inaspettatamente, piena soddisfazione per i suoi rapporti con i francescani e per l’attività che essi svolgevano a beneficio della diocesi. 

Viene allora da chiedersi: le lunghe ed estenuati controversie giurisdizionali potevano essere l’esito soltanto della intromissione di “umanità da ambo le parti”, come aveva affermato mons. Capalti? Si trattava solamente di una incapacità di governo da parte degli organi centrali, come sembra sostenere Margiotta Broglio, nell’introduzione al volume in esame? Non si trattava forse anche di certa serpeggiante ambiguità a livello dottrinale, ad incertezze nel concepire l’identità della nuova istituzione, in riferimento al locale contesto religioso, ecclesiale, politico, economico e culturale? Non è forse eccessivamente limitato affidare le conclusioni ad un bilancio statistico sugli effetti della pastorale missionaria? Non sarebbe stato preferibile chiedersi se e quanto una tale operazione abbia davvero contribuito ad un guadagno sociale, politico, culturale, organizzativo, istituzionale, religioso ed ecclesiale dell’area mediorientale?


 

 



 
 
 
 
 
 
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