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Nota bibliografica: Francesco Alfieri, La presenza di Duns Scoto nel pensiero di Edith Stein. La questione dell’individualitā,

 
 
 
Foto Serafini Marcella , Nota bibliografica: Francesco Alfieri, La presenza di Duns Scoto nel pensiero di Edith Stein. La questione dell’individualitā,, in Antonianum, 87/2 (2012) p. 381-390 .

Lo studio in esame si inserisce in un percorso di ricerca sulla filosofia di Edith Stein promosso nel contesto italiano per iniziativa di Angela Ales Bello – fondatrice del Centro Italiano di Ricerche Fenomenologiche con sede a Roma – che, a partire dagli anni ’70, ha intrapreso l’edizione critica delle opere di Edith Stein, favorendo ed incoraggiando studi ed approfondimenti. Tra le varie iniziative che tale interesse ha suscitato merita di essere segnalato, in particolare, il volume Fenomenologia dell’essere umano. Lineamenti di una filosofia al femminile (Città Nuova, Roma 1992), che presenta alcune figure femminili esponenti della corrente fenomenologica (Hedwig Conrad-Martius, Edith Stein, Gerda Walther). Il volume di Alfieri, realizzato quale tesi per il conseguimento del Dottorato di ricerca in Filosofia presso la Pontificia Università Lateranense, è in continuità con tale itinerario di ricerca. La tematica, affascinante e significativa, trova la sua genesi in un particolare interesse per gli argomenti legati all’antropologia filosofica che Edith Stein condivideva con il contesto culturale del suo tempo e che ha affrontato, nel corso del suo complesso e articolato itinerario esistenziale ed intellettuale, tentando di integrare la Fenomenologia di Husserl con intuizioni e tematiche proprie dell’orientamento aristotelico-tomista e di altri indirizzi della filosofia medievale. L’obiettivo che la ricerca si propone è il tentativo di individuare la relazione ed il particolare ruolo delle varie fonti di riferimento che la Stein ha saputo attingere e fondere in unità, tentando così di colmare – come l’Autore dichiara nell’Introduzione – “una evidente lacuna” presente negli studi finora realizzati, fatta eccezione per pochissimi lavori, tra i quali un saggio della stessa Ales Bello ed un articolo di Francesco Bottin1.

Nell’ambito della ricostruzione storiografica, la problematica dell’individualità2 è stata generalmente considerata dagli interpreti e commentatori della Stein in continuità con Aristotele e Tommaso d’Aquino; effettivamente, nei testi non mancano riferimenti, se non interi capitoli, in cui è evidente il confronto con la prospettiva aristotelico-tomista. Occorre però precisare che i contatti della Stein con questi due grandi autori del passato sono per lo più mediati da una produzione letteraria secondaria, fatta eccezione per quelli diretti con il De Veritate di S.Tommaso e con alcune opere di Aristotele, tra cui la Metafisica.

Oltre a ciò, non è stato ancora adeguatamente messo in evidenza che, accanto ai rapporti con la tradizione di pensiero aristotelico-tomista, sono altrettanto intensi e proficui i contatti che la Stein ha voluto stabilire con Duns Scoto, sebbene, anche in questo caso, l’accesso alle fonti originali e primarie non appaia sempre realizzato (cf. p. 13). La ricerca di Alfieri nasce proprio dall’esigenza di approfondire tale aspetto e si propone di rintracciare nelle opere steiniane quelle che l’Autore stesso chiama “congiunture scotiste”. Particolare e privilegiato punto di riferimento è il capitolo VIII di Endliches und ewiges Sein, punto di arrivo di una serie di riflessioni disseminate nel corso di varie opere, a partire dalla Dissertazione di dottorato sull’empatia, primo scritto della Stein.

Le tesi contenute in Endliches und ewiges Sein, dove si trovano tre riferimenti espliciti a Duns Scoto (cf. p. 34-36), hanno costituito per Alfieri il punto di partenza per un percorso di ricostruzione delle influenze scotiste3, realizzato a ritroso, che ha messo in evidenza come la Stein sia stata naturalmente condotta, attraverso l’approfondimento delle analisi fenomenologiche, ad un confronto sempre più serrato con la speculazione del Dottor Sottile.

Le tematiche scotiste, ovviamente, non vengono accettate in modo meccanico: è per questo motivo che Alfieri parla di “convergenze verso le dottrine scotiste”, intendendo che la Stein avrebbe saputo «interpretare in maniera del tutto originale il metodo fenomenologico, calandolo nelle tematiche della metafisica medievale, sapendo trarre dall’una e dall’altra tradizione quegli spunti, conoscenze e risultati teorici tali da consentirle di ottenere, nell’ambito della tradizione fenomenologica, una trattazione della tematica dell’individuazione di assoluta originalità» (p. 13-14). Questa originalità costituisce un punto di riferimento per le tematiche antropologiche nel panorama filosofico del ‘900.

La ricerca di Alfieri mette in evidenza anche un tratto specifico della produzione steiniana, ovvero la caratteristica di essere un ‘lavoro comunitario’, in quanto ogni sezione delle sue opere è intessuta di confronti e riferimenti ad altri autori, nello spirito proprio della metodologia di ricerca tipica della Fenomenologia husserliana. Il metodo appreso alla scuola di Husserl, infatti, escludeva le forme del ‘puro soliloquio’; lo stesso Husserl invitava i propri allievi alla collaborazione nella ricerca della verità, facendo convergere i vari filoni di ricerca verso un unico obiettivo.

È proprio all’interno di questa comunità di allievi, il celebre Circolo di Gottinga, che si era diffuso, all’inizio del Novecento, un certo interesse per alcune opere di Scoto (dichiarate spurie nella odierna edizione critica). Heidegger per esempio aveva scritto nel 1916 Die Kategorie und Bedeutungslehre des Duns Scotus; la stessa Edith Stein, insieme con Edwig Conrad-Martius, aveva intrapreso nel 1921 la traduzione in tedesco di un saggio di Koyré, dall’originale francese Essai sur l’idée de Dieu et les preuves de son existence chez Descartes. In tale occasione, la Stein aveva rinvenuto alcune Quaestiones, che avrebbe ripreso in Endliches und ewiges Sein, di uno scritto per lungo tempo attribuito a Duns Scoto, dal titolo Quaestiones disputatae de rerum principio. In realtà, l’analisi storico-critica dei codici che costituiscono tale scritto, evidenzia – come Alfieri analiticamente riporta (cf. p. 40-77) – che l’Autore indiscusso di tali Quaestiones non è Duns Scoto, ma il francescano Vitalis de Furno; tale puntualizzazione fondamentale sfuggiva alla Stein, perché proprio in quegli anni si stava intraprendendo uno studio sistematico degli scritti scotiani. Vitalis de Furno, pertanto, risulta essere la fonte effettiva delle dottrine pseudo-scotiste non solo della inconsapevole Stein, ma anche degli altri discepoli di Husserl. L’equivoco si comprende a partire da una nota del cap. VII di Endliches und ewiges Sein4: in tale contesto la Stein afferma, appoggiandosi all’autorità di p. Ephrem Longpré, che le Quaestiones disputatae de rerum principio – da lei utilizzate – sono da annoverare tra gli scritti autentici del Dottor Sottile. In realtà, p. Longpré si riferiva – ed è quanto emerge anche dalla consultazione diretta del materiale adoperato dalla Stein – al Tractatus De primo rerum omnium principio”, uno scritto completamente diverso, che però – ed è questo particolare che quasi sicuramente potrebbe aver sviato la Stein – si trovava pubblicato nello stesso volume. Tale ipotesi è confermata dal fatto che anche M. Müller nel 1941, affrontando l’edizione critica del Tractatus, si sarebbe avvalso del lavoro di Longpré per dichiarare l’opera autentica.

Un ulteriore interrogativo che percorre il lavoro di Alfieri riguarda le origini dell’interesse per la filosofia medievale nutrito dalla Stein. Tale interesse viene generalmente fatto risalire intorno al 1929, con la pubblicazione della traduzione del De Veritate di Tommaso, mentre la ricerca di Alfieri mette in evidenza che esso è anteriore e risale al 1921. Dall’epistolario infatti, in particolare dalle lettere indirizzate all’amica Conrad-Martius, si evince che l’interesse – da cui le ‘convergenze’ – per le tematiche scotiste si concretizzò nella Stein addirittura qualche anno prima rispetto a quello per la filosofia di Tommaso d’Aquino (cf. p. 27-33).

Poste tali premesse nel primo capitolo, il secondo prosegue con un’analisi degli scritti del Dottor Sottile in merito alla problematica del principio di individuazione, premettendo un’introduzione sul significato della disputa nel contesto storico entro il quale Scoto ha elaborato la propria soluzione. L’analisi filologica, necessaria per chiarire il pensiero di Scoto e preliminare per impostare il discorso sulle ‘convergenze’ steiniane verso i temi scotisti, è stata condotta prendendo come punto di riferimento alcuni testi dell’Ordinatio (e, parallelamente, della Lectura) e delle Questiones super libros Metaphysicorum (in particolare la q. XIII). La difficoltà più evidente incontrata nello studio di Scoto, osserva Alfieri, è legata all’enorme stratificazione terminologica, sintomo di una oscillazione dell’Autore francescano rispetto ai termini chiave; è proprio a motivo di tale oscillazione che i discepoli, per limitare le deviazioni interpretative, avrebbero ‘assolutizzato’ il termine specifico haecceitas, che nei testi del Dottor Sottile ricorre solo due volte (cf. p. 90 n. 121-122).

Nell’analisi delle opere di Scoto, Alfieri è partito dalle quaestiones 1-6 del II libro dell’Ordinatio e ha seguito il procedimento argomentativo dello stesso Dottor sottile che, per affrontare la tematica, parte dall’esame e dalla confutazione delle tesi avversarie. In un secondo momento, Alfieri prende in considerazione le varianti contenute nella Lectura. Dai testi emerge che per Scoto il principio di individuazione deve essere una “entità positiva” (p. 113), intrinseca alla struttura metafisica dell’ente, che non si aggiunge alla natura specifica né può essere dedotta da proprietà accidentali, quali la quantità, la materia o il composto di materia e forma; ha invece il proprio fondamento in ciò che Scoto stesso chiama ultima realitas entis, cioè “la realtà finale della forma che rende perfetta la forma stessa” (p. 115): «La natura comune e la differenza individuale devono essere concepite mediante una distinzione formale presente non tra res, ma tra diverse perfezioni della stessa forma – da Scoto definite realitates o formalitates (…) Riconoscere l’intimo legame tra la natura comune e la differenza individuale equivale non solo a ridurre le loro differenze, ma concorre a riabilitare l’individuo a essere, non più subordinato alla natura comune, l’ultima e la più alta perfezione dell’essere creaturale» (ibidem). La quaestio XIII, pur avendo profonde affinità con l’Ordinatio, utilizza una terminologia diversa: Scoto fa ricorso infatti all’espressione forma individualis (p. 117) che, riecheggiando posizioni aristoteliche, «sembra costituire una regressione concettuale rispetto all’originalità assoluta dell’Ordinatio» (p. 220). Ciò potrebbe costituire una conferma del fatto che l’Ordinatio è cronologicamente posteriore, in quanto le Quaestiones super Libros Metaphysicorum – come in genere tutti gli scritti filosofici del Dottor sottile – apparterrebbero alle opere giovanili, come osservato dalla Commissione Scotistica di Roma. Alfieri stesso commenta in proposito: «Ciò che ho posto in evidenza è come Scoto abbia modificato gradualmente la sua concezione sull’individuazione, partendo sì dal concetto di “forma individualis”, ma evolvendo la sua meditazione verso il concetto, assolutamente nuovo, di “ultima realitas entis”» (p. 220).

Il terzo capitolo, l’ultimo, presenta una rassegna analitica ed approfondita degli scritti di Edith Stein intorno alla tematica dell’individuazione, che Alfieri ricostruisce seguendo l’itinerario intellettuale e formativo della Filosofa e mettendo in evidenza l’originalità della sua prospettiva. Punto di partenza di questo percorso è la dissertazione sull’empatia: la Stein vi pone la questione su “che cosa si intenda per individualità” quando si asserisce che «questo Io è “se stesso” e non un altro» (p. 132). A partire da tale interrogativo, la Stein ha condotto un lavoro di indagine ed approfondimento, per individuare il fondamento dell’unità dell’io, considerando la sua “Ipseità”, l’esperienza vissuta e la relazione con gli altri attraverso cui nel processo empatico, mediante il ‘sentire’ (fühlen), si fa esperienza della propria singolarità intangibile. Afferrando il vissuto altrui, infatti, si dischiude non soltanto l’alterità del Tu, ma anche «l’originarietà della mia singolarità, che nel ‘vivere’ il vissuto altrui, fondamentalmente “vive se stessa” come “Io” nella sua totalità» (p. 133). La riflessione sull’empatia ha condotto a un primo risultato: «Sulla scorta di Scoto, la Stein considera l’individualità o singolarità, ovvero quanto contraddistingue la personalità in quanto tale, come non del tutto conoscibile» (p. 220-221). Della singolarità della persona si può avere solo una “accessibilità intuitiva” attraverso quel particolare tipo di percezione che è la “percezione spirituale del fühlen” (p. 221). La persona può essere solo ‘sentita’ spiritualmente nella sua singolarità e nella sua “insopprimibile solitudine” (p. 139), nella sua “impronta tipica”, ma non se ne può avere una conoscenza discorsiva; tuttavia, proprio nell’unicità dell’ultima solitudo trovano fondamento l’apertura alla vita comunitaria e la solidarietà verso gli altri.

Successivamente, a partire dall’opera Psicologia e scienze dello spirito, la Stein indica il fondamento di tale individualità ed il ‘luogo’ proprio della persona con l’espressione “nucleo personale”, inteso come qualcosa di “individuale, di indissolubile, di innominabile”. Nell’ultima parte di questa opera è possibile rinvenire un parallelismo tra il concetto scotiano di ultima solitudo e ciò che la Stein definisce “insopprimibile solitudine”. La filosofa afferma infatti che l’individuazione si situa al di là di ogni possibile determinazione psichica oltre che materiale, tanto che i tratti costitutivi di questo nucleo – immutabilità, consistenza e proprietà permanente – impongono allo sviluppo della persona un certo andamento: non è lo sviluppo della persona a foggiare il nucleo, ma è quest’ultimo a determinare ogni evoluzione psichica e/o materiale dello stesso.

Ogni determinazione quantitativa non può influenzare alcun elemento qualitativo che caratterizza il nucleo della persona, elemento che trascende ogni riferimento spazio-temporale. L’ultima solitudo è vista dalla Stein come uno “stare in sé”, a contatto con la profondità del proprio io; solo vivendo in tale ineffabile profondità, fondamento di ogni atto personale, la persona può ritrovarsi nel mondo (cf. p. 136-140). L’ultima solitudo, a giudizio della Stein, benché costituisca un tratto unico ed incomunicabile che riguarda la persona in quanto tale, non va comunque intesa come un carattere universale o universalizzabile.

La sua modalità di aderenza alla persona umana è dettata da un particolare stimmung che non può che essere individuale: «La presenza di questa tonalità emotiva, capace di infondere ad ogni essere umano la possibilità di sentire la propria profondità come unica, rende impossibile ogni discorso su una universalizzazione dell’“ultima solitudo”» (p. 222). Qui le istanze metafisiche che la Stein aveva tratto dalla filosofia medievale vengono ad incrociarsi con le analisi ed i risultati ottenuti su basi descrittivo-fenomenologiche (p. 186).

Nella Struttura della persona umana la Stein, dopo aver affermato che una filosofia è radicale se è capace di spingersi fino alle ultime strutture fondamentali dell’essere umano, esclude definitivamente la possibilità di un principio estrinseco per la determinazione della persona e identifica il fondamento dell’individuazione nella ‘forma vuota’ unitamente al suo ‘riempimento qualitativo’ (cf. p. 222). Sono questi i termini chiave che l’Autrice introduce per indicare i momenti costitutivi dell’essere singolo (Einzelsein) nella duplice accezione di sostrato determinato (forma vuota) – quale impalcatura formale ontologica – e di pienezza dell’essere (riempimento). Quest’ultima «rende l’individuo non solo un portatore statico delle caratteristiche della specie, ma un “che di singolare”, dal momento che il riempimento qualitativo conferisce una singolarità “propria” rispetto alle altre singolarità della specie» (p. 181).

In Potenz und Akt la Stein, sulla scia dell’ontologia formale e materiale di Husserl, riesce a calare questa dottrina all’interno delle categorie medievali, soprattutto tomiste ed aristoteliche, per rafforzare un concetto di individuazione, nella sua unicità, che si radica nel concetto di ‘nucleo’ (kern) personale. Tale ‘nucleo’ o ‘centro’ della personalità è la fonte da cui l’individuo trae il vivere originario e in cui hanno origine i vissuti che appartengono alla vita affettiva; pertanto questi, provenendo dal profondo dell’anima, portano l’impronta della sua singolarità. Il ‘nucleo’ della persona conferisce unità ed armonia a tutte le azioni, si esprime esteriormente nel carattere e costituisce il ‘luogo originario’ del ‘vivere’ (cf. p. 175-176. 178). Il risultato fondamentale di tale analisi consiste, stando ad Alfieri, nel fatto che «la Stein, in quest’opera, non accetta alcuna determinazione del principio di individuazione che possa, tomisticamente, risalire a condizioni quantitative della materia (la materia signata quantitate, come materia formata)» (p. 223).

Nel cap. VIII di Endliches und ewiges Sein appare in modo ancora più chiaro che la materia signata quantitate (di tradizione tomista) non può essere fondamento dell’individualità, perché rimane al livello di un generico rapporto materia-forma che non dice nulla sulla cosa o persona singola. Il principio di individuazione, piuttosto, sostiene la Stein, è “una qualità positiva dell’ente”, una perfezione intrinseca che si attualizza e si rende visibile in modo del tutto particolare ed unico per l’essere umano: il proprium della personalità si raggiunge quale concretizzazione di una indipendenza e si può valutare solo in quanto “pienezza qualitativa”, profondità ed ultima solitudo (p. 224).

La “qualità positiva” consiste nella natura individuale (l’essere “ciò”), ma non va considerata come una seconda natura accanto alla natura comune (specie), bensì come il darsi della natura comune “nella” natura singola (l’essere ‘Socrate’, ad esempio, non aggiunge nulla all’uomo, ma contiene l’essere uomo).

L’originalità della Stein consiste nell’utilizzo dell’espressione ‘forma vuota’ per indicare una accezione formale intrinseca; tale scelta eviterebbe l’equivoco che il principium individuationis venga pensato come qualcosa che si aggiunge all’essere dall’esterno e determina gli enti in modo universale. In tale risultato la Stein si ricollega esplicitamente a Duns Scoto, come dichiara nel cap. VIII di Endliches und ewiges Sein: «Se intendo bene, anche Duns Scoto fa così: egli considera come principium individuationis una qualità positiva dell’ente, che separa la forma essenziale individuale da quella universale»5 (p. 211). Anche se non riporta l’espressione scotista ultima realitas entis per indicare tale ‘qualità positiva dell’ente’, nell’opera Potenz und Akt utilizza il termine haecceitas per designare l’individualità dell’Einzelsein (cf. p. 211-212). La ‘natura individuale’ di cui parla la Stein ricorda perciò l’entitas positiva di Scoto, in quanto mette in evidenza che la singolarità non è un prodotto della materia, né della forma o del sinolo materia-forma, bensì «qualcosa che in quanto realtà si distingue formalmente dalla natura comune e ha la funzione di contrarla, rendendola così individualmente esistente» (p. 212).

Inserendosi in un dibattito – la problematica sull’individuo – la cui origine risale a Platone, Edith Stein offre così il proprio contributo; la sua proposta viene considerata da Alfieri come “una teoria del tutto originale”, in quanto riesce ad accostare “la tradizione scolastica alla filosofia fenomenologica” (p. 213). Tale soluzione, mentre nella struttura metafisica si avvicina alla dottrina sull’essere di Duns Scoto, ha comunque la sua chiave interpretativa nella nozione husserliana di “costituzione”: quando la coscienza si dirige verso qualcosa, essa intende o costituisce ciò a cui è diretta come un qualche tipo di cosa; la percezione della singolarità è assunta come “un tipo particolare di cosa” che emerge nei suoi tratti singolari. In conseguenza di ciò l’Autrice, ricollegandosi alla tradizione medievale, «accoglie la sfida di fondare, sulla base di una solida struttura metafisica, una nuova ontologia della persona in grado di cogliere il ‘pieno’ significato del suo essere e, attraverso essa, trova la ‘via’ per raggiungere il fondamento dell’Essere eterno» (p. 213).

Considerando la rilettura che la Stein fa delle fonti medievali, si ha tuttavia l’impressione di uno “slittamento” tra il piano della riflessione sull’individuo e quello della riflessione sulla persona (due livelli chiaramente distinti nei filosofi medievali). Tale oscillazione – che comunque non deve stupire, dal momento che la Stein non ha avuto una formazione specifica da medievista – comporta alcune conseguenze nella valutazione degli autori medievali stessi: nel momento infatti in cui accoglie e fa proprio, come espressione della singolarità dell’essere umano, il concetto di ultima solitudo – da Scoto riferito alla persona – lo mette in relazione con la trattazione offerta da Tommaso sul fondamento dell’individuo – evidenziandone i limiti – non tenendo conto della riflessione tommasiana sulla irriducibilità (incommunicabilitas) della persona in relazione all’‘atto di essere’. In realtà, Tommaso stesso aveva individuato il fondamento della ‘persona’ nell’atto creativo diretto di Dio (partecipazione all’actus essendi), riconoscendo l’inadeguatezza della materia signata quantitate6.

Al di là di queste osservazioni, emergono comunque in modo evidente e significativo l’acutezza, la sensibilità e la delicatezza – tipicamente femminile – con cui Edith Stein si accosta alla ‘singolarità’, unica e preziosa, intangibile per natura, che non si può esprimere con proprietà generiche, né classificare entro schemi: «Essere persona significa per la Stein sentirsi calati in una profondità incommensurabile, in un’ultima solitudo, elementi qualitativi che non possono essere trattati alla stregua di invarianti universali suscettibili di una qualche formalizzazione » (p. 225). Per tale motivo il principium individuationis si situa per la Stein al di là di ogni condizione quantitativa e formale. Particolarmente belle e suggestive le pagine dove parla della “percezione spirituale del fühlen” – quale “tonalità emotiva” e “stato d’animo interiore” – attraverso cui l’individuo, come per una “spinta interiore”, «si sottrae ad ogni condizionamento esteriore del semplice vivere e si innalza in quell’interiore singolarità del proprio essere, nel cui interno si muove liberamente» (p. 201). Questa “interiorità” costituisce l’elemento proprio e caratterizzante dell’individuo; solo quando l’individuo si immerge in questa ‘regione dell’essere’ «coglie con il proprio sguardo interiore il pieno suo “essere se stesso” e, allo stesso tempo, afferrato alla propria singolarità, distingue la sua propria qualità d’essere da quella di altri individui fuori di sé» (p. 201). In tale sguardo interiore percepisce che il suo “essere se stesso” proviene da una “sorgente ultima”, nella quale “vive ancorato a se stesso ed in perfetta solitudine”. Per tale motivo, quanto più l’individuo vive in profondità, tanto più si manifesta il suo “nucleo essenziale e irriducibile, che rappresenta il fondamento di qualsiasi attualizzazione” (p. 202). Nel sentire (fühlen) se stesso, dunque, l’individuo ha accesso alla pienezza qualitativa dell’essere.

Un’ultima annotazione, più generale ma non meno importante: la problematica approfondita da Alfieri in questo volume si inserisce all’interno dell’attuale dibattito antropologico, in particolare alle problematiche legate al tentativo di una ‘naturalizzazione’ della personalità, che viene ricondotta a puro determinismo psichico, biologico ed ambientale. Il contributo della Stein mostra come i caratteri di ultima solitudo e di “nucleo personale”, immutabile e intangibile (che rendono l’individualità personale al di là di ogni elemento materiale e formale) impediscono di ridurre l’aspetto specifico di ogni persona a qualsiasi categoria mondana, sociologica o scientifica. Tale discorso, rileva Alfieri, si inserisce anche nel dibattito sulla naturalizzazione della Fenomenologia, mostrandone l’impossibilità e l’insostenibilità, dal momento che la dimensione quantitativa, attraverso cui la scienza considera la natura, non ne esaurisce la comprensione.

Tra i pregi della pubblicazione va infine segnalato, oltre all’importanza della problematica affrontata e all’originalità del confronto posto in atto – significativo dal punto di vista storico e teoretico – il ricco impianto bibliografico; la bibliografia consultata comprende codici manoscritti, studi sulle fonti di riferimento, sui vari esponenti della corrente fenomenologica, su Vitalis de Furno e sul principium individuationis in Duns Scoto, nonché una ricca, accurata ed approfondita bibliografia su Edith Stein.



 
 
 
 
 
 
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