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Recensione: Jacob Neusner, Ebrei e Cristiani. Il Mito di una Tradizione Comune

 
 
 
Foto Coniglio Alessandro , Recensione: Jacob Neusner, Ebrei e Cristiani. Il Mito di una Tradizione Comune, in Antonianum, 85/2 (2010) p. 324-331 .

Da qualche mese e stata resa disponibile in traduzione italiana la pregevole opera del prof. Jacob Neusner, Ebrei e Cristiani. Il Mito di una Tradizione Comune (Originale inglese: Jews and Christians. The Myth of a Common Tradition, 1991). Il celebre studioso di ebraismo era già noto anche al pubblico dei non specialisti per il suo Un Rabbino parla con Gesu (Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2007. Originale inglese: A Rabbi talks with Jesus, 2000), citato da Joseph Ratzinger-Benedetto XVI nel suo Gesu di Nazarteh (Rizzoli, Milano 2007).

Il libro del prof. Neusner e la collezione di precedenti interventi, tenuti dall’A. in tempi e circostanze anche molto diverse (cosa che a volte appesantisce la lettura perche favorisce le ripetizioni), e come tale non si presenta come un contributo scientifico, ma come un testo divulgativo. La sua tesi è programmaticamente annunciata dal titolo: dimostrare che giudaismo e cristianesimo siano due sistemi religiosi alternativi e non comunicanti. Come l’A. ama ripetere (6 volte nel solo cap. I!): “Gente diversa che parla di cose diverse a gente diversa”.

Il Neusner segue un percorso di analisi storica e teologica per dimostrare questa tesi. Il cap. I analizza il giudaismo (o meglio “il gruppo dei giudaismi”, come si esprime l’A. a pag. 13) del I secolo per cogliere in esso le diverse tendenze che si concretizzeranno in quello che noi conosciamo come giudaismo rabbinico da una parte e come cristianesimo dall’altra. Dalle tre figure dei sacerdoti, degli scribi e degli zeloti, egli vede emergere tre diversi modi dell’esistenza di Israele, coesistenti proprio a motivo della loro diversità.

Il sacerdote distingue tutto in base alla purità che emana dal Tempio, lo scriba segue una sapienza universalistica fondata sulla Torah e interessata al quotidiano, lo zelota attende invece la salvezza di Israele nell’avvento del Messia. Con la crisi del 70 d. C. e la distruzione del Tempio, emersero due soli gruppi, che pero reinterpretarono gli antichi simboli in funzione delle differenti comunità che si andavano costituendo: mentre i cristiani ritennero che la salvezza del mondo fosse stata data in Gesù Cristo, sacrificio perfetto, maestro, profeta e Re-Messia, i saggi si preoccuparono della santificazione di Israele nell’obbedienza alla Torah. Come si vede i sistemi sono alternativi: salvezza del mondo per i cristiani, santificazione di Israele per i rabbini, pretesa di “conoscere il segreto della storia, il tempo della salvezza e la strada verso la redenzione” per i cristiani, e “approccio alla vita essenzialmente metastorico” e “forte orientamento verso l’interno” (pag. 24) per il giudaismo rabbinico. Le categorie precedenti non erano state modificate, ma completamente reinterpretate in funzione delle due nuove tradizioni religiose che andavano emergendo e che sempre più andavano distanziandosi, anche perché ciascuna interpretava il comune patrimonio scritturistico alla luce dei nuovi apporti (Nuovo Testamento per i cristiani e Torah orale per gli ebrei).

Il cap. II cerca di comprendere come vada percepito il rapporto di cristianesimo ed ebraismo nel I secolo. Il prof. Neusner critica una certa ermeneutica protestante, secondo la quale il cristianesimo, invece che essere visto nella sua unicità e assolutezza, e colto “come una riforma storica, una continuazione dell’ebraismo nei termini dell’ebraismo” (pag. 32), una correzione delle storture che attanagliavano l’ebraismo del I secolo: questo infatti comporterebbe che i cristiani diventino “non il vero Israele attraverso la fede in Gesù Cristo (come sostiene Paolo), ma semplicemente un Israele per difetto, cioè per difetto del vecchio Israele” (pag. 33). A questa posizione errata di parte cristiana si e aggiunta, secondo il nostro A., una ulteriore lettura errata, ma di parte ebraica: quella secondo la quale “ci fu, c’è e potrà esserci per sempre un unico ebraismo, quello ortodosso” (pag. 36), così come si è espresso negli scritti (Mishnah, Talmud, Midrashim) che formano la Torah orale. Cosi si sono proiettate sulla comprensione del nascente cristianesimo idee che si ritrovano anche sette secoli piu tardi nel Talmud babilonese, trascurando la ricchezza dei “diversi ebraismi”, dei “vari ebraismi” (pag. 41) esistenti nel I secolo. Tra questi, sembra dire il Nostro, c’era anche il cristianesimo, che però “e tale perchè costituisce un sistema religioso autonomo, assoluto, unico e che si regge da solo all’interno della struttura delle scritture e del mondo religioso ebraico” (pag. 44). Per cui di nuovo la conclusione si impone: “ebraismo e cristianesimo sono religioni del tutto diverse, non differenti versioni di un’unica religione... gente diversa che parla di cose diverse a gente diversa” (pag. 44).

Con il IV secolo la prospettiva sembra cambiare. L’A. analizza (capp. III e IV) infatti tre problemi che si posero in quel tempo tanto ai pensatori cristiani, quanto ai saggi di Israele: il tema della storia e del suo significato, il tema del Messia e il tema dell’identità di Israele. Per una volta finalmente troviamo “gente che discuteva delle stesse cose, portando avanti la medesima logica, facendo appello essenzialmente agli stessi fatti” (pag. 48). Ma questo non deve trarci in inganno: le conclusioni furono, ovviamente, diametralmente opposte. I temi si imposero nel IV secolo di fronte al trionfo del cristianesimo (conversione di Costantino e editto di Teodosio). Così lo storico della Chiesa Eusebio rilesse la storia del mondo per dimostrare che tutto tendeva a quel trionfo, che dimostrava la verità della religione cristiana; gli ebrei invece rilessero il Genesi (e composero il Genesi Rabbah) per comprendere il senso della storia nella direzione di un avvicendarsi di regni, di cui l’Impero romano, divenuto cristiano, era il penultimo, a cui sarebbe seguito il trionfo di Israele. Il tema messianico poi non poteva essere eluso in un tempo in cui i cristiani (e in Nostro analizza il pensiero di Giovanni Crisostomo4) dimostravano che Gesù e il Cristo sulla base dell’adempimento delle sue predizioni di distruzione del Tempio: quello stesso Tempio che sotto l’imperatore Giuliano gli ebrei avevano cercato invano di ricostruire. Se l’ovvia risposta cristiana alla domanda sul Messia era che egli era già venuto nella persona di Gesù di Nazareth, la risposta ebraica (nel Talmud Yerushalmi, anche noto come Talmud palestinese) fu che il Messia, che sarebbe stato un rabbi, sarebbe venuto quando Israele avesse vissuto la piena obbedienza al modo (rabbinico) di osservare la Torah, cioè al raggiungimento della sua santificazione (cfr. pag. 79). Il terzo tema in discussione, quello dell’identità di Israele, derivava da quello messianico e nacque nel momento in cui i cristiani si percepirono come il nuovo Israele, l’Israele secondo lo spirito, il nuovo popolo di Dio, il sostituto dell’antico Israele. Secondo il monaco siriaco Afraate, i cristiani avevano accettato la salvezza offerta da Dio in Cristo, mentre gli ebrei l’avevano rifiutata, divenendo non-popolo. La risposta di Israele fu opposta, come c’era da aspettarsi: il Levitico Rabbah affermerà nel modo più netto che l’Israele secondo la carne continua la famiglia dei patriarchi e delle matriarche, e l’unica legittima famiglia dei figli di Abramo, Isacco, Giacobbe. “La spiritualizzazione di ≪Israele≫ [compiuta dai cristiani, ndr] trova qui il proprio opposto e la propria controparte: la totale e completa ≪genealogizzazione≫ di Israele” (pag. 102). Dunque, anche se i temi posti furono gli stessi e l’analisi verteva sugli stessi passi scritturistici, le conclusioni non potevano che essere discordanti: i saggi ebrei e i pensatori cristiani “procedettero in modo coerente tra gente diversa che parla a gente diversa essenzialmente dello stesso argomento” (pag. 56). Eppure, quella elaborazione dottrinale del giudaismo fu fondamentale perche fu allora che la dottrina della doppia Torah (scritta e orale) si organizzo e divenne l’ossatura che permise all’ebraismo di attraversare indenne tutte le crisi successive. Dal punto di vista del dialogo, invece, e dell’incontro teologico tra le due parti, i secoli futuri non videro più un incontro simile di temi come lo vide il IV secolo: le dispute medioevali furono confronti tra impari, una Cristianita imperante e un ebraismo impotente, che non avevano più gli stessi interessi e le stesse preoccupazioni. E con il XX secolo che, secondo il prof. Neusner, le condizioni sono tornate perche ebrei e cristiani possano riprendere a parlarsi: “Ora si può, di nuovo, concordare sui problemi, negoziare le modalità dell’argomentare comune, essere d’accordo sui fatti che serviranno come prove – cioè scrivere libri da leggere scambievolmente” (pag. 125).

Dal cap. V in poi, il nostro A. cambia allora registro e si dedica ad una analisi più teologica della tesi del libro. Lo stesso cap. V riprende il tema già toccato della assolutezza del cristianesimo e dell’unicità dell’ebraismo e dunque la bizzarria di cercare una interpretazione del Nuovo Testamento alla luce dell’ebraismo: il giudaismo serve a comprendere il background dei Vangeli ma non ha nulla da dire sulla comprensione teologica dei passi evangelici.

Il prof. Neusner offre qui un importante esempio: il rovesciamento dei tavoli dei cambiavalute nel Tempio ad opera di Gesù (cfr. Mc 11,15-19).

Se si comprende che senso avesse per gli ebrei il pagamento della tassa per il Tempio, si capirebbe, dice il Nostro, che nessun ebreo contemporaneo di Gesù avrebbe potuto intendere cosa egli stesse facendo. I cambiavalute davano infatti il siclo che serviva a pagare l’offerta quotidiana nel Tempio per espiare le colpe dei figli d’Israele: allora solo chi “chi rifiutava l’esplicito insegnamento della Torah riguardante l’offerta quotidiana poteva rovesciare i tavoli – o, come sosterrò, qualcuno che aveva in mente di preparare un tavolo diverso e per uno scopo diverso” (pag. 138), cioe la mensa eucaristica.

Questa suggestiva interpretazione porta il prof. Neusner a concludere la “totale incomprensibilità del cristianesimo nelle sue fasi iniziali nel contesto giudaico” (pagg. 138-9).

Il cap. VI offre una tematica interessante e davvero originale: per il Neusner il compito delle religioni per il futuro sarà quello di sapersi dotare di una adeguata visione dell’altro, di colui che non e interno al proprio sistema.

Secondo il nostro A., ogni religione ha chiari quali sono i confini di delimitazione della propria identità, e al proprio interno riesce a creare una perfetta definizione di chi si e e una complessa articolazione di funzioni, mentre chi sta fuori viene lasciato in una indistinta nebulosa, in una approssimativa e sfocata concettualizzazione. Questo genera lo scontro e l’incapacità a parlarsi.

Il grande compito del futuro e allora che “le religioni dovranno insegnare in che modo pensare l’altro, non solo tollerarlo come un inconveniente inevitabile o come un male ineliminabile” (pag. 145). Il tema mi pare di grande attualità anche al di la del dialogo col solo giudaismo: se pensiamo alla reazione emotiva che ha guidato l’Occidente dopo i fatti dell’11 settembre verso l’Islam, dobbiamo dire che le parole del prof. Neusner (pronunciate nel 1989!) conservano la loro piena carica di sfida e di sfida teologica.

Con il cap. VII il nostro A. ci fornisce subito un bell’esempio di come questa comprensione dell’altro nei termini della mia propria religione possa attuarsi. E lo fa prendendo in esame la venerazione cattolica per Maria. Si chiede Neusner: c’e nell’ebraismo una figura che abbia caratteri simili alla Vergine Maria e guardando alla quale io possa comprendere qualcosa del modo con cui un cattolico si accosta a Maria? Effettivamente c’e. Si tratta della figura di Rachele, cosi come e tratteggiata nel Lamentazioni Rabbah; in questo Midrash sul libro delle Lamentazioni Rachele ha un rapporto così speciale con Dio, che egli ascolta la sua preghiera e il suo pianto per i figli d’Israele in esilio e concede loro il ritorno.

Nell’ultimo capitolo, l’VIII, Neusner descrive quelli che sono i due fondamenti delle due differenti tradizioni religiose che sta esaminando: l’insieme di Torah scritta e orale per il giudaismo e l’insieme di Antico e Nuovo Testamento per il cristianesimo. Questo e finalizzato a rimarcare la differenza e la non comunicabilità tra i due sistemi religiosi, perche, nota il Nostro, l’ebraismo non e la religione dell’Antico Testamento e “non possiamo riferirci alla ≪Bibbia≫ quando parliamo di ebraismo” (pag. 197), come troppo spesso i cristiani ritengono; piuttosto per un ebreo e il Talmud babilonese “la summa della Torah del Sinai, congiungendo la Torah scritta (che comprende quello che il cristianesimo chiama Antico Testamento) e quella orale, a cominciare dalla Mishnah” (pag. 176), in un sistema aperto pero, cosa che può far dire al Neusner: “La Torah giudaica non si e mai conclusa: la rivelazione della Torah e continuata” (pagg. 198-9). Posta cosi la questione si conferma la tesi di fondo del libro: “Ebraismo e cristianesimo comunicano tra loro solo con grande difficoltà, ammesso che lo facciano” (pag. 175).

A mio parere l’opera del prof. Neusner presenta due pregi in particolare.

Il primo e quello di aver sottolineato la necessita di proseguire nella ricerca di una teologia dell’altro, del diverso-da-me, cercando di comprenderlo all’interno delle mie categorie concettuali e religiose, ma rispettando la sua diversità: nel nostro mondo sempre più pluralista e inclusivo, ma anche sempre più esposto a conflitti di natura religiosa e culturale, questo compito non può essere eluso e rinviato. Ma questa sfida teologica non può essere fatta nel nome di un facile irenismo o del livellamento delle differenze che fondano la diversità: al contrario, solo la chiarezza sulla propria identità e la propria verità potrà contribuire alla fecondità del dialogo e dell’incontro con l’altro.

E proprio qui sta, a mio avviso, il secondo pregio di questo lavoro: il prof. Neusner infatti, con la sua insistenza sulla differenza tra ebraismo e cristianesimo e sulla loro irriducibilità a una tradizione comune, offre un importante contributo di chiarificazione nel campo, ancora troppo giovane, del dialogo ebraico-cristiano. Se si accettano le tesi del nostro A. infatti, bisognerebbe ripensare il modo con cui la Chiesa ha affrontato il dialogo con il giudaismo negli ultimi quaranta anni. Faccio un esempio: dopo la storica visita di Giovanni Paolo II al Tempio maggiore di Roma il 13 aprile 1986 e divenuto un luogo comune parlare degli ebrei come dei “nostri fratelli maggiori”. Evidentemente il Papa riconosceva nei suoi interlocutori i membri di una stessa famiglia con noi5. Se siamo fratelli, perche consideriamo Abramo il progenitore comune (per quanto, direbbe il prof. Neusner, per noi cristiani e padre spirituale, mentre per gli ebrei e padre in senso strettamente fisico), che senso ha pero parlare di fratelli ‘maggiori’, visto che le due tradizioni hanno germinato insieme e parallelamente dalla variegata radice dei giudaismi del I secolo? L’ebraismo col quale oggi ci confrontiamo e quello che si e elaborato nei primi secoli della nostra era, mentre quando la Chiesa si riferisce alle proprie radici ebraiche (richiamando l’immagine usata dall’Apostolo Paolo in Rm 11,17-24) ha in mente la storia del popolo ebraico prima di Cristo, si riferisce a quell’ebraismo di cui Gesù stesso e figlio sul piano storico, così come gli apostoli e le prime comunità cristiane.

Credo però che proprio in base a questo legame che c’è tra le origini cristiane e l’ebraismo, si possa cogliere quello che, a mio parere, e il punto debole dell’argomentazione del prof. Neusner. La posizione più discutibile del nostro A., infatti, sta nella sua analisi dei rapporti tra ebraismo e cristianesimo nel I secolo. Se i primi uditori dell’annuncio cristiano erano ebrei, allora non risulta un po’ eccessiva l’affermazione di una totale incomprensibilità, sul piano teologico e sociologico, dei due gruppi? Il Neusner e giustamente preoccupato da una impostazione del dialogo tra cristiani ed ebrei, fatta nel passato, basata sulla domanda “Perché non credete?” piuttosto che su quella “In cosa credete?”. Ma se, come egli stesso ha mostrato ripetutamente, il giudaismo come noi lo conosciamo si e venuto strutturando nei primi secoli dell’era cristiana, e proprio impensabile che nel I secolo i punti di contatto fossero più numerosi ed espliciti? La primitiva predicazione cristiana, sulla scia di quanto fatto da Gesù stesso, fa appello costantemente alle Scritture di Israele per dimostrare che il mistero di Cristo e già in esse annunciato: questa direzione di senso che Gesù e gli apostoli trovarono nell’Antico Testamento sarebbe stata davvero cosi incomprensibile ad un ebreo del I secolo? Se è vero che ebraismo e cristianesimo si sono storicamente sviluppate come forme religiose alternative a partire dalla fine del I secolo, non e meno vero che il nascente cristianesimo si rivolse in primo luogo all’Israele secondo la carne come destinatario della promessa di salvezza di Dio; e lo fece nella fondata presunzione che il patrimonio di fede e cultura di quel popolo avrebbe potuto accogliere la predicazione dell’avvenimento cristiano proprio come compimento della sua storia. L’affermazione secondo la quale ebraismo e cristianesimo “non hanno nulla in comune, o almeno nulla che sia davvero molto importante” (pag. 28), può avere valore dopo una storia di 2000 anni di elaborazioni teologiche parallele e di reinterpretazioni autonome delle antiche Scritture di Israele. Ma quelle reinterpretazioni sono state sviluppate dopo il riconoscimento del novum cristiano da parte dei primi discepoli di Gesù, e forse non senza una punta polemica nei confronti di questo novum da parte della Sinagoga. Un novum che pero, almeno secondo il punto di vista cristiano, non negava l’antico, ma in esso si radicava secondo una possibile modalità di senso contenuta nei testi.

Un altro appunto che mi permetto di fare e l’eccessivo peso dato dal nostro A. ad un approccio sociologico al fenomeno religioso. Una volta definita la religione “come espressione dell’ordine sociale e come struttura del sistema sociale” (pag. 8) o come “affermazione coerente, strutturata in termini soprannaturali, di un’entità sociale che riguarda il modo di vivere, la sua visuale del mondo, e il suo autodefinirsi” (pag. 38), e chiaro che si concluda dicendo che ebrei e cristiani sono persone diverse che parlano di cose diverse a destinatari diversi: sociologicamente e storicamente i due insiemi non sono comunicanti e non possono comunicare. Se però guardiamo la religione come l’umana risposta al progressivo cammino di rivelazione di Dio, allora possiamo cogliere il comune valore fondante che ebrei e cristiani riconoscono alle Scritture d’Israele. E allora se, come il prof. Neusner riconosce, abbiamo punti in comune: “l’amore per l’unico e stesso Dio, per esempio; l’aspirazione a servire e prestare culto a quell’unico Dio; il comando assoluto, dato a tutti noi da quell’unico Dio, di amarci a vicenda” (pag. 9), e questa asserita unicità di Dio la base e il fondamento della comunione che ci deve unire; il comune riferimento allo stesso Dio creatore e salvatore, riconosciuto all’azione nella storia dell’antico Israele, che e la radice della Chiesa di Cristo e il progenitore dell’Israele secondo la carne, può e deve essere il soggetto del nostro dialogo e della comune testimonianza alle meraviglie di grazia che Egli ha compiuto nella nostra storia comune.



 
 
 
 
 
 
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