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Relationes bibliographicae: Alle prese col naturalismo e il riduzionismo. Un resoconto della recente discussione

 
 
 
Foto Oviedo Lluís , Relationes bibliographicae: Alle prese col naturalismo e il riduzionismo. Un resoconto della recente discussione, in Antonianum, 84/2 (2009) p. 377-396 .

Il naturalismo costituisce un orientamento largamente condiviso negli ambienti filosofici e scientifici occidentali. In genere esso assume posizioni più o meno riduzioniste, che rifiutano dunque l’esistenza di realtà trascendenti, riconoscono un ruolo preminente alla scienza, e hanno grande fiducia nella capacità della ragione di comprendere il mondo. Tale posizione, pur essendo ormai quella di default in molti ambienti della scienza e del pensiero filosofico, diventa problematica se si riflette sulle conseguenze delle proprie convinzioni, sulla sua vera portata, nonchè sulle sue possibili modalità.

Il riduzionismo può essere accostato al naturalismo, per quanto le conseguenze siano molto simili. Anche se parte da considerazioni metodologi- che sulla conoscenza scientifica, si avvicina poi alle posizioni metafisiche, che escludono decisamente qualunque ordine di realtà diverso da quello che la scienza riesce a osservare. Materialismo e fisicalismo sono posizioni molto vicine, benchè gli studiosi cerchino spesse volte di distinguerne le sfumature.

Il naturalismo e il riduzionismo stanno diventando una chiave fondamentale per l’odierna filosofia della scienza, e pongono sfide di grande portata alla filosofia della religione. Se il naturalismo e una posizione scontata, ne risentirà in modo sostanziale ogni tentativo di rapporto tra scienza e teologia; quest’ultima e destinata a sentirsi delegittimata, dal momento che l’ambito della scienza esclude a priori qualunque pretesa di riferimento a un universo trascendente, sia a livello antropologico, e dunque inerente l’esistenza dell’anima, che a livello metafisico, che rivendica un ambito divino. Forse la questione dovrebbe essere affrontata preventivamente, o almeno andrebbe presa in considerazione in ogni tentativo di dialogo tra scienza e teologia.

La situazione attuale, che i libri in esame descrivono, non e interamente definita, per quanto i dibattiti divengano sempre più accesi, e si e ben lontani da un consenso in merito. Inoltre, per quanto riguarda il punto specifico del rapporto tra scienza e teologia, talune proposte sostengono una “naturalizzazione della teologia”, quale atteggiamento più realista e coerente. Altri ricercano invece una via di mezzo per postulare forme di “naturalismo non fisicalista” (Nancey Murphy) o in grado di mantenere aperte le porte a forme di emergenza di ordini superiori, seppur non “trascendenti” (Philip Clayton).

Ci chiediamo se non esista una terza possibilità, ovvero un rapporto leale tra scienza e teologia, che non chieda a quest’ultima di sacrificare le sue pretese di trascendenza, un rapporto in cui si postula una certa complementarietà e il naturalismo viene ridotto a una questione metodologica da parte della scienza, ma senza implicazioni metafisiche.

Il dibattito condotto nei libri sotto esame dovrebbe contribuire a chiarire queste idee, o almeno a far maturare la discussione, nella speranza che la chiarezza contribuisca a un approfondimento delle questioni più centrali nella sottodisciplina di scienza e teologia che ora impegna tanti specialisti.

1.

Il primo libro che prendiamo in esame e il volume collettivo How Successful is Naturalism, il risultato di un convegno organizzato nel 2006 dall’International

Wittgenstein Symposium. Il volume raccoglie i contributi di 13 studiosi, che spesso non si limitano a presentare le proprie posizioni, ma rispondono altresì alle obiezioni espresse dai loro colleghi di diverso parere.

L’introduzione espone in modo ampio e corretto una panoramica dello stato della questione e degli apporti di ogni autore.

Non e certo il primo tentativo di fare i conti con il naturalismo. Il precedente più noto e sicuramente l’opera pure collettiva Naturalism in Question, edita da Mario de Caro e David MacArthur nel 2004, che comprende 14 contributi, alcuni di autori di rilevanza internazionale, anche se non tutti originali. L’opera costituisce un’ottima introduzione al dibattito.

Il nuovo tentativo in esame verte sui meriti e i limiti del naturalismo, visti da avvocati e critici, e contribuisce a chiarire tale concetto cercando di escludere le posizioni più esagerate, che spesso ne hanno causato il discredito.

Come che sia, sembrerebbe che qui venga già affrontata una grande parte del problema, sebbene molti ritengano che il concetto sia ancora troppo sfumato e il contenuto poco chiaro, mentre esso e piuttosto espresso in chiave negativa, ossia come rifiuto delle dimensioni trascendenti.

Il libro distribuisce i contributi in tre sezioni: la prima presenta il naturalismo come una visione del mondo (worldview), e cioè una concezione più generica del mondo e della sua costituzione; la seconda affronta questioni di epistemologia e ontologia, che sono le più scottanti; mentre la terza e incentrata sulla prospettiva antropologica.

Per quanto concerne la prima parte, tre contributi presentano un particolare interesse. Nel primo, G. Vollmer avvia un opera di chiarificazione concettuale, insistendo su alcuni principi comuni: universalismo, economia dei mezzi e delle spiegazioni, empirismo, realismo, evoluzionismo e complessità.

L’autore assicura che il naturalismo costituisce anzitutto un programma che prende le mosse dalla convinzione del successo dei metodi di ricerca scientifica, ritenuti sufficienti per dar ragione del mondo, senza ricorrere ad altro.

Nancey Murphy, da parte sua, fa riferimento a una nota proposta di A. MacIntyre per descrivere naturalismo e teismo come “tradizioni concorrenti”, dunque come visioni globali, incommensurabili e antagoniste. Sulla falsariga di Jeffrey Stout, ella ricostruisce il processo storico che porta a un distacco epistemologico dalla fede religiosa, come conseguenza di una visione più esigente delle possibili prove per sostenere una credenza. La “tradizione rivale” si afferma progressivamente e finisce per sfidare quella che era la visione dominante, ovvero quella religiosa. Si percepisce in queste pagine un’analisi simile a quella di Charles Taylor, nel suo tentativo di fare i conti con il predominio della modernità secolare.

Thomas Sukopp espone con impegno la sua visione del naturalismo come “via di mezzo” tra gli estremi dello scientismo di Quine e le posizioni ideologizzanti che confondono la natura di tale programma. In primo luogo, egli distingue tre livelli: ontologico, epistemologico e metodologico; poi prende le distanze dalla posizione di Quine, che ritiene sia divenuta un “uomo di paglia”, facile preda delle critiche contro i naturalisti. Sukopp mostra inoltre i veri successi del naturalismo e la sua superiorità sul teismo, di nuovo a motivo della sua economia o parsimonia, del suo potere euristico e della sua capacita di risoluzione di problemi. Tuttavia, in ultimo egli ammette che il programma ha dei limiti, segnatamente per quanto concerne i fenomeni di coscienza (qualia) e libertà.

La seconda parte si apre con un saggio di M.C. Rea, che offre una critica devastante del naturalismo a partire della “dissonanza” in cui cadono i suoi difensori, tra le posizioni assiomatiche che assumono e le conseguenze che li portano persino ad ammettere una forma di “dualismo sostanziale”, nel dover riconoscere entità ai fenomeni di coscienza.

U. Frey, dopo una chiarificazione del concetto, propone tre casi di studio volti a illustrare come le spiegazioni in chiave di psicologia evoluzionista riescano meglio a mostrare gli errori commessi nella ricerca. Anche P.M.S. Hacker attacca il programma di naturalizzazione di Quine, evidenziandone le aporie nel confondere tra le disposizioni mentali e il loro veicolo fisico. Da parte loro, G. Gasser e M. Stefan mostrano come il naturalismo non possa ovviare alle questioni ontologiche, e che esso dovrebbe assumere l’onere della prova della sua concezione della realtà, tra gli estremi di un eccesivo riduzionismo e uno sfumato liberalismo. Tuttavia, sembrerebbe che tale punto medio non sia raggiungibile e che il riduzionismo divenga troppo pesante.

Da ultimo, K. Talmont-Kaminski presenta il naturalismo in sintonia con gli ideali illuministi, ma nel senso di un programma minimalista che punta su ipotesi di lavoro che si confermano progressivamente; e questo infatti l’unico progresso che si possa prospettare, una sorta di “trascendenza” immanente.

La terza parte verte su questioni antropologiche e comprende cinque saggi. Nel primo, L. Rudder Baker polemizza con Metzinger sull’entità delle esperienze in prima persona, come esempio di naturalismo applicato alla dimensione personale, che resiste a tali riduzioni, per rifiutare le conseguenze di tale manovra. Analogamente, J. Quitterer critica le incoerenze della prospettiva naturalista dominante sulla mente, e punta a un allargamento più sostanziale dei suoi correlati corporei per risolvere il problema. J.L. Brandl riflette ancora sull’auto-coscienza, per segnalare che l’esperienza cosciente punta verso una versione più modesta o “neutrale” del naturalismo, dal punto di vista metafisico, non in grado di risolvere la tensione tra monismo e dualismo. H. Fink volge lo sguardo verso l’altra grande sfida del naturalismo: la libertà; la sua analisi evidenzia i limiti delle posizioni esistenti sui livelli di indeterminazione e fa leva sulla “intuizione di posizioni alternative”. Anche W. Loffler si occupa del tema della liberta, partendo dalla revisione di talune ricerche empiriche, che indicano un certo determinismo legato a forme di stimolazione esterna. Tuttavia, i risultati sembrano poco concludenti e, di conseguenza, la volontà libera rimane tuttora un’esperienza non risolta dal metodo naturalista.

Dalla lettura di questo libro e dai dibattiti in corso che in esso si riflettono possiamo già trarre alcune conclusioni:

• il naturalismo non può essere un programma forte, nel senso inteso da Quine, ma al più un orientamento che predilige i metodi scientifici, ma preferisce astenersi dalle considerazioni metafisiche;

• i limiti del programma naturalista sono noti, soprattutto nel campo della auto coscienza e dell’azione libera, e ciò ne fa un programma incompleto;

• il naturalismo pone le sue maggiori aspettative nelle scienze cognitive, che potrebbero forse risolvere alcuni dei casi pendenti e approfondire la portata del programma;

• la questione del riduzionismo o del fisicalismo non dovrebbe essere necessariamente legata al programma naturalista.

In conclusione, il naturalismo appare piuttosto come un orientamento intellettuale che confida nella scienza, riconoscendole un certo “privilegio cognitivo”. Ma lo stato attuale della ricerca invita a non estrapolare tali preferenze al di là dei limiti della conoscenza scientifica, anche se e legittimo aspirare a una risoluzione “scientifica” di problemi ancora fuori dalla sua portata.

Dal punto di vista della filosofia della religione e della teologia, le preferenze che esprime il naturalismo non dovrebbero di per se presupporre una limitazione del senso di trascendenza, che rimane comunque una questione aperta, al di là della portata del metodo scientifico. Si tratta quindi di una scelta che può essere giustificata anche razionalmente. Tuttavia, la teologia non può ignorare la precedenza della scienza come fonte di conoscenza e dovrebbe aggiustare i propri argomenti a tale cornice intellettuale, se non vuole perdere rilevanza o essere ritenuta una specie di “pseudo-conoscenza”.

Essa dovrebbe inoltre evitare di competere con le scienze nei campi in cui esse apportano dati assai provati, ma piuttosto servirsi di essi e presentare un discorso complementare, sulla base di dimensioni fuori della loro portata.

Tale conclusione invita a rivedere le tesi che definivano il naturalismo come una scelta scontata e costringevano la teologia a assumere uno “statuto naturalista”.

La situazione descritta legittima infatti un approccio della teologia alla scienza senza rese ne assimilazioni.

2.

Il secondo titolo in esame e un breve saggio che passa in rivista i principali argomenti a favore del naturalismo, per contrastarli a partire da un’analisi rigorosa e dalla proposta di contro-argomenti, nel rispetto al metodo dialettico e sulla base dei dati disponibili.

Anche in questo caso viene trattata anzitutto la questione di come definire o caratterizzare il naturalismo. Nell’introduzione troviamo un suggerimento, formulato in termini assai ampi: il “naturalismo può essere definito come la filosofia che ritiene che tutto quanto esiste sia parte della natura e che non vi sia una realtà al di là o fuori della natura” (p. 6). Ancora una volta, si direbbe che il ricorso ai termini negativi sia difficilmente evitabile. Gli autori distinguono tuttavia due tipi di naturalismo: uno più rigorista o duro, l’altro più flessibile o liberale. Comunque sia, le due versioni sono oggetto di revisione e critica, in modo che non restino equivoci.

I primi capitoli sono dedicati alla presentazione e alla valutazione del naturalismo del tipo più forte o inteso in senso più stretto. Esso e caratterizzato come convinzione che quanto esiste si identifichi con la natura e che quest’ultima sia una realtà conoscibile mediante le scienze, il cui modello ideale e la fisica. Non vi sarebbe dunque altro tipo di realtà, oppure non è possibile postulare un’altra dimensione del reale inaccessibile alla scienza attuale o futura. Sono quattro le questioni che, a giudizio degli autori, restano fuori dalla capacità di spiegazione del naturalismo forte: la realtà delle spiegazioni intenzionali, delle scelte libere, delle esperienze di piacere e dolore, e l’esistenza di persone.

Come si può prevedere, il programma del naturalismo più ristretto richiede la riduzione di fenomeni mentali a processi fisici al livello neuronale.

Molti dei proponenti, specialmente la scuola di Dennett, si richiamano a un aperto eliminazionismo delle dimensioni dell’io che potrebbero apparire come significative; esse non sono che “epifenomeni”. Gli autori riportano argomenti classici, come il paradosso dell’auto-implicazione: non si può sostenere che una posizione sia vera, a meno che non si assuma un ambito di coscienza nel quale tali affermazioni hanno senso.

Un’altra dimensione del naturalismo più radicale e la “chiusura del mondo fisico”, che non ammette altri elementi ne spiegazioni oltre quelli disponibili in chiave fisica, chimica o biologica, escludendo di conseguenza le azioni libere e intenzionali. La difficoltà di fare i conti con una causa mentale o con una forma di agenzia personale rende il naturalismo più una scelta ideologica che non una posizione scientifica. Altri problemi sorgono riguardo i fenomeni di coscienza, come i cosiddetti “qualia”, ad esempio la sensazione soggettiva di dolore. Si ricorre in questo caso all’argomento già classico di Frank Jackson sull’esempio – leggermente modificato – di “Mary”, che scopre l’esperienza del dolore non attraverso le informazioni su cosa esso sia, ma solo quando lo avverte in prima persona, soggettivamente.

L’esempio mostra i limiti di ogni tentativo di identificare gli stati neuronali e la propria esperienza.

I problemi rilevati inducono a lasciarsi alle spalle il naturalismo più duro per assumere forse forme più rilassate o ampie, che concedano un certo statuto all’auto-coscienza e ai valori. Tuttavia, prima di esaminare tale posizione meno riduttiva, gli autori cercano di preservare l’idea di dualismo antropologico – corpo e anima – benché la critica al dualismo sia un tratto comune a ogni versione di naturalismo. La questione si risolve in termini di possibile causalità tra le due istanze. L’argomento esposto punta a una sorta di volontarismo da parte di chi crede di avere o essere un’anima immateriale, capace di causare a livello fisico, malgrado la nostra mancanza di spiegazioni sulle modalità di avvio di tali processi, un mistero che si estende ad ogni forma di causalità.

Per il naturalismo piu ampio si tratta di preservare l’auto-coscienza e i valori entro una cornice comunque naturale o, per meglio dire, fisicalità.

Ma neanche in questo caso gli autori sono convinti che le strategie messe in atto diano il risultato previsto. Le teorie sull’emergenza di proprietà superiori presentano diverse lacune: nulla garantisce che raggiungere un certo livello di complessità sia sufficiente a far emergere l’auto-coscienza, e non si assicura la correlazione tra stati neuronali ed esperienze di coscienza. Neppure le proposte di Searle e Nagel convincono, a motivo dell’insuperabile contingenza del rapporto tra stati fisici e fenomeni coscienti, e del tono troppo ipotetico delle aspettative teoriche su una futura conoscenza di processi ancora misteriosi, che legano mente e cervello.

Problemi simili riguardano il bisogno di preservare una certa entità ai valori morali, cosi centrali nella vita reale, e cosi marginali per la filosofia naturalista.

Per rispondere al paradosso si ricorre alla logica evoluzionista, che converte i valori in disposizioni o orientamenti indicativi per la sopravvivenza e l’espansione della nostra specie. Tuttavia, tali spiegazioni danno luogo a un ulteriore paradosso, in quanto mostrano che i valori sfidano apertamente gli istinti biologici. Inoltre, esse non sono in grado di giustificare il carattere normativo che normalmente gli viene riconosciuto, e che richiama un protagonismo centrale delle dimensioni coscienti.

L’ultimo capitolo del saggio di Goetz e Taliaferro propone di andare “oltre il naturalismo”, facendo riferimento a una visione sostanziale della coscienza e ad un’apertura al teismo. Anche qui vengono riviste le critiche mosse dal naturalismo al teismo; entro quella linea di pensiero, la fede religiosa appare come un’incoerenza, soprattutto quando si cerca di descrivere l’essere di Dio in termini personali. In definitiva, si tratta di un conflitto tra due visioni del cosmo o della realtà, non tanto sulla pensabilità di Dio nell’orizzonte naturalista. Ciò che e in gioco e la percezione o meno di una profonda teleologia nel mondo, di una intenzione in atto. Un’altra linea critica contro il teismo verte sulla difficoltà di stabilire le forme di agire divino in un cosmo chiuso. Una risposta procede dall’intimo legame tra teismo e auto-coscienza; infatti, negare capacita di agenzia a un’entità spirituale come la mente umana, implica negare altresì la realtà di un agente divino. Le cose possono essere poste in modo diverso, e allora i conti tornano, quando si assume una visione più intenzionale delle persone, e di Dio come agente, la cui azione deve essere ripensata in termini magari diversi da quelli tradizionali, ma mantenendo sempre la coerenza del dualismo.

Il libro riepiloga la volontà di mostrare i punti deboli del naturalismo e la conseguente opportunità di “prendere sul serio l’alternativa teista” (p. 116), e include una breve appendice sull’argomento “della ragione”: l’uso della ragione implica in se una fiducia implicita sul mondo mentale.

Il breve ma denso saggio introduce due osservazioni che possono risultare utili per ricostruire meglio il dibattito:

• la visione naturalista della realtà soffre di ciò che gli psicologi cognitivi descrivono come “livelli di contro-intuizione”, non meno di quanto possa accadere alle visioni non-naturaliste; pure i primi hanno a che fare con idee che certamente contraddicono il senso comune, ma che non possono in nessun modo pretendere di essere giustificate con la scienza attuale;

• le incertezze e i punti oscuri che caratterizzano sia la visione naturalista che quella dualista sono tali da diventare scelte pre-scientifiche, o addirittura “scommesse” teoriche su una visone del mondo e sul suo maggiore potere euristico. Non sembra risolvibile – almeno per ora – la questione ultima che impone una certa scelta; al massimo si può concedere che il programma naturalista dia meglio ragione di una serie di fenomeni, mentre il dualista sarà maggiormente atto a spiegarne una serie diversa.

Fa riflettere il fatto che sovente si deve far fronte a un “doppio standard”, se non si vuole cadere in posizioni molto rischiose e francamente surreali: a volte si assume il criterio naturalista, per conoscere certe dimensioni della realtà, mentre altre volte non possiamo fare a meno di assumere una “visione intenzionale”, che riconosca cioè il ruolo delle decisioni consapevoli.

Forse, un modo diverso di porre le cose e assumere una posizione simile a quella di Charles Taylor in A Secular Age, dove la tensione tra visione secolare e religiosa del mondo diventa inevitabile e insuperabile, senza un orizzonte di sintesi in vista. Tuttavia, tale conclusione risulta possibile soltanto in un’opera in cui la questione di Dio richiede sicuramente un trattamento più approfondito (come riconoscono gli stessi autori), ma che contribuisce a riequilibrare i campi e a delegittimare le pretese di chi ritiene che il naturalismo sia l’unico sistema a dettare legge nell’ambiente del pensiero odierno.

3.

Il terzo testo non riguarda direttamente il naturalismo, ma la questione dell’emergenza, che assume pero grande rilevanza per il nostro tema. Difatti, le proposte sulla possibilità di processi emergenti si pongono come una via per rendere più plausibile il naturalismo, pur evitando le posizioni dualiste, che molti ritengono insostenibili. Si tratterebbe di una sorta di “via di mezzo”, in grado di aprire fino a un certo punto l’orizzonte della realtà fisica per fare spazio a fenomeni che sembrano porsi a livelli diversi di realtà, e con caratteristiche pure diverse. Tuttavia, come rivelano più autori, non è chiaro se tale programma possa riuscire, ma l’attuale discussione appare illuminante e aggiunge nuovi motivi alla questione della praticabilità del naturalismo o del riduzionismo metodologico.

Il volume curato da Clayton e Davies raccoglie quattordici contributi di grande qualità scientifica e filosofica, firmati da noti studiosi, molti dei quali coinvolti in quel programma. Philip Clayton e senz’altro uno dei teologi scienziati più impegnati negli studi sull’emergenza, che egli ritiene un probabile ponte tra scienza e teologia. Paul Davies e uno dei fisici più conosciuti e abili nel campo della divulgazione scientifica; tra i suoi titoli ve ne sono alcuni dedicati al rapporto tra fisica e Dio.

L’opera si divide in quattro parti, che corrispondono alle scienze fisiche, biologiche, agli studi sulla coscienza, e sulla dimensione religiosa. Nella prefazione,

Davies offre una visione d’insieme, dalla quale risalta il contrasto tra emergenza e riduzionismo; inoltre, egli introduce la classica distinzione tra “emergenza forte” (i principi delle parti non possono spiegare il funzionamento dell’insieme) ed “emergenza debole” (i principi generali non possono spiegare ogni singolo caso). L’autore segnala altresì alcune condizioni abbinate al programma “forte”, quali l’esistenza di un universo “aperto” e le forti implicazioni che tale programma avrebbe per la filosofia, l’etica e la religione.

Clayton introduce i contributi tematici con una prima descrizione e un percorso storico sulle origini e lo sviluppo dell’idea di emergenza, un concetto che ha conosciuto fasi di relativo successo e di oblio, per tornare in auge in tempi recenti, il che giustifica il titolo del libro. Clayton definisce quattro caratteristiche dell’emergenza: fisicalismo ontologico, emergenza di proprietà, irriducibilità dell’emergenza e causalità verso il basso. Le implicazioni che tale visione può avere per la teologia sono evidenti, anche se il suo impatto costringe a modificare alcune forme tradizionali.

La sezione relativa all’emergenza nella fisica e aperta ancora da Davies, che si concentra sul problema della causalità verso il basso. Egli rivede lo status della fisica odierna per rilevare il ruolo dell’informazione, ma non trova prove di una causalità dell’insieme sulle parti del sistema; tuttavia, non ne esclude la possibilità, il cui avverarsi implicherebbe peraltro un profondo cambiamento dell’idea di causalità.

Nell’ambito di questo tentativo, non poteva mancare un accenno ai fenomeni quantistici. E. Joos offre un’ampia panoramica, che conclude indicando la “decoerenza a partire da un substrato quantistico” come alternativa alle “nozioni classiche come punto di partenza per la fisica” (p. 77) e forse anche per la coscienza. Dal canto suo, G.F.R. Ellis mostra diversi livelli di emergenza a partire dal ruolo dell’informazione, come i sistemi di controllo del feedback, forme di teleologia a vari livelli e l’innegabile effetto della coscienza nella configurazione della realtà. La coscienza e la liberta giocano infatti un ruolo imprescindibile nei processi di conoscenza scientifica, e quindi non possono essere ridotti; altrimenti la nostra teoria sulla realtà sarebbe incompleta, escludendone i soggetti che la conoscono. Il riduzionismo viene quindi rifiutato come un programma incapace di avviare una conoscenza del mondo e viene qualificato come una forma di “fondamentalismo” (p. 104).

La seconda parte – relativa alla biologia – si apre con un lungo saggio di T. Deacon, il quale tenta di superare il dilemma che sorge dinanzi alle proposte di emergenza forte, ovvero il fatto che esse sembrano introdurre forme di causalità diverse, che si pongono oltre l’ambito della scienza standard. Deacon riconosce quanto siano contro-intuitive le forme di produzione spontanea di ordine (p. 117), ma propone una logica in grado di darne ragione, mediante il ricorso a effetti di amplificazione entro sistemi composti, o forme di auto-organizzazione attraverso iterazioni multiple. Tali processi corrispondono a tre ordini: di semplice termodinamica; di sistemi auto-organizzati; di “teleodinamica” o evolutivi. Gli ultimi sono i più complessi, in grado di memorizzare e imparare. In realtà si propone una lettura della logica evoluzionista,

che opera a partire da molte esclusioni o da forme non riuscite. Evoluzione e riflessività entro un sistema chiuso spiegano l’apparenza della teleologia, la quale non rappresenta altro che il risultato eccezionale dopo una moltitudine di fallimenti. Trovano risonanza qui la visione sistemica di Luhmann e il tema “della probabilità dell’improbabile”.

L.J. Rothschild intende mostrare il potere euristico della teoria dell’emergenza, che offre spiegazioni più convincenti di molti fenomeni biologici. Anche B. Smuts propone un caso di studio: l’emergenza di forme organizzative tra le scimmie bonobo. La sua ricerca dimostra che talune forme di causalità verso il basso spiegano meglio diversi adattamenti.

La terza parte e dedicata al tema della coscienza, una delle esperienze più legate alla rivendicazione dei processi emergenti. J. Kim, uno dei filosofi più citati negli studi sul naturalismo, apre questa sezione con un breve saggio: pur riconoscendo la difficoltà del programma funzionalista, mirante a ridurre fenomeni mentali a sostrati neuronali, egli rimane tuttavia scettico riguardo al programma emergentista, che dovrebbe presentare buone ragioni per negare il principio di chiusura del mondo fisico, o dimostrare che la causalità verso il basso può rientrare entro quello schema tradizionale.

Invece, M. Silberstein e piu deciso nel difendere un modello enactive di coscienza, cioè incarnato e situato (embodied plus embedded), in grado di offrire un’alternativa sia al fisicalismo che al dualismo. La teologa N. Murphy contribuisce con una sua proposta sulla causalità mentale, in linea con il suo “fisicalismo non-riduttivo”, fondato sulle dinamiche di selezione riguardo a livelli più bassi, un meccanismo che forse potrebbe completare quello di “amplificazione” di Deacon. La sezione si chiude con il breve saggio di D. Chalmers, un altro filosofo molto citato negli studi sulla coscienza, il quale ancora una volta richiama l’esperienza di auto-coscienza come l’unico caso di emergenza in senso forte, non riducibile a un epifenomeno; forse la meccanica quantistica potrà fornire una spiegazione al problema delle forme di causalità verso il basso.

La quarta parte si occupa di religione ed emergenza. Inizia con un saggio del celebre teologo-scienziato A. Peacocke, che prende l’avvio da un’analisi della gerarchia nella realtà a diversi livelli, nell’ambito della quale livelli di maggiore complessità emergono da livelli più bassi, pur senza abbandonare il monismo. La realtà dei livelli superiori si determina sulla base del loro potere causale, che si identifica sia riguardo alla coscienza personale, che occupa il livello superiore nella gerarchia, che riguardo a Dio, la cui azione segue un modello di rapporto dal tutto alle parti, entro uno schema panenteista e in analogia al personale.

N. Gregersen è altro teologo impegnato nel dialogo con la scienza.

Il suo contributo offre un’utile tipologia dei diversi modi in cui la teoria dell’emergenza viene recepita in varie posizioni teologiche, presentando una gradazione dalle visioni meno religiose a quelle più decisamente religiose, nel senso che riconoscono una maggiore trascendenza. Tali tipi propongono altresì forme diverse di emergenza, dalle più deboli alle più forti. Il tempo dovrebbe mostrare quali teologie saranno maggiormente in grado di adattarsi alle sfide dell’emergenza.

Clayton chiude il libro con un sommario critico del percorso finora compiuto, dalla fisica quantica alla religione. Egli si propone di pervenire a una comprensione più precisa del termine, a una teoria più sintetica e a individuare le conseguenze sul piano religioso. Dopo una estensione del concetto di religione, Clayton mostra la compatibilità della visione dell’emergenza con il teismo, ma nella versione panenteista, mente altre versioni tradizionali sono chiamate a una profonda revisione, segnatamente per quanto concerne posizioni troppo statiche sia in senso metafisico che cognitivo.

Ancora una volta, ritroviamo gli echi del dibattito di fondo tra posizioni naturaliste-riduttive e i tentativi di allargare gli orizzonti della realtà in modo da poter concepire un ambito per la coscienza e la trascendenza.

Le proposte sull’emergenza aprono una via che consente un approccio più complesso e introduce una nuova possibilità nella discussione. Tuttavia, nel seguire il dibattito in questo campo, si ha l’impressione che vengano riproposte posizioni più o meno simili a quelle già osservate: alcuni puntano a una maggiore chiusura, mentre altri si richiamano ad una realtà più aperta.

A questo punto, sembrerebbe che l’elemento dell’emergenza aggiunga poco, in quanto ciascuno la intende entro la propria pre-comprensione, e serve a dare ragione agli uni e agli altri.

La questione dell’emergenza ci aiuta comunque a riproporre quella del naturalismo, alla luce della necessità di fare i conti con i livelli di realtà meno assimilabili allo schema più chiuso. Inoltre, si pone nuovamente in risalto che la questione ha forti implicazioni teologiche e sono dunque in gioco, allo stesso tempo, la possibilità di comprendere l’umano come persona, come realtà sostanziale e la possibilità di aprire uno spazio alla trascendenza: l’una non può esistere senza l’altra. La questione teologica non e quindi derivata da una comprensione della realtà più o meno aperta, o dal modo di cogliere i processi emergenti, ma spesso e precedente, e da essa si riescono a concepire in un modo o in un altro tali processi che, come abbiamo segnalato, sono soggetti a una pluralità di appropriazioni.

4.

Il quarto testo rilevante sul tema del naturalismo e una monografia volta alla revisione dello statuto delle scienze cognitive nella prospettiva della filosofia della scienza.

Negli ultimi anni le scienze cognitive hanno conosciuto un grande sviluppo, ma hanno dovuto affrontare altresì delle sfide a diversi livelli, specialmente allorchè si è cercato di inquadrare le nuove ricerche entro un modello epistemologico soddisfacente. La questione si pone in modo sempre più acuto quando ci si confronta con gli studi sulla mente, la coscienza, l’intenzionalità e le idee normative. Va immediatamente notata la rilevanza teologica di tali questioni; qui e infatti in gioco, oltre all’attuabilità del naturalismo quale schema che nega ogni forma di trascendenza, anche la possibilità di pensare la mente in termini meramente fisici. Di conseguenza, il programma di riduzione va ancora oltre, con conseguenze scoraggianti per ogni progetto non solo teologico ma di antropologia sostanziale.

Il libro di Horst e ben strutturato in un doppio movimento: il primo costituisce la pars destruens, in cui viene rivisto un ampio catalogo di posizioni della filosofia della scienza a sostegno del programma riduzionista mentre, nella pars construens, si propone un nuovo paradigma: il “pluralismo cognitivo”, per venire incontro alle difficoltà osservate in sede critica.

L’argomento di fondo e relativamente semplice e molto intuitivo: le scienze cognitive sbagliano nel seguire un modello di riduzionismo forte per un semplice motivo: da tempo altre scienze hanno rinunciato a quell’ideale di unificazione di discipline scientifiche che poggiava in ultima analisi sulla matematica e la fisica. Infatti, si registrano processi a diversi livelli – fisici (termodinamici), chimici, e biologici – che sfuggono alla riduzione in termini meccanici; tanto più, allora, l’ambito della mente dovrebbe essere studiato su una base meno riduttiva. Se il programma riduzionista non si applica da molto tempo ad altre scienze, come mai si pretende di applicarlo ancora allo studio di processi mentali ben più complessi?

Lo sviluppo dell’argomento consente una rivisitazione dei grandi dibattiti e degli interventi più importanti nel campo della filosofia della mente nel corso degli ultimi decenni. I primi capitoli del libro consentono di ricostruire un percorso costellato da diversi tentativi per meglio adeguare lo studio della mente al modello di scienza dominante. Si parte ancora una volta da un esame del naturalismo, delle sue versioni, più o meno forti, più o meno “larghe”, per ammonire sulle conseguenze fuorvianti di una visione naturalista troppo forte e che non tiene conto dei “salti di spiegazione” in varie scienze, che costringono a assumere una visione più complessa del programma naturalista.

Il capitolo secondo rivede i diversi programmi riduzionisti: il funzionalismo, l’eliminazionismo, il fisicalismo non riduttivo e, in un secondo momento, le conseguenze metafisiche di tali visioni, come le forme di supervenience.

Si mostra comunque la presenza di “vuoti nella spiegazione” (gaps), che emergono ad esempio nella difficoltà di spiegare il fenomeno della “significazione” assumendo le proposte computazionali della mente. Neanche la “nuova semantica” e le teorie emergentiste forniscono soluzioni convincenti.

E’ interessante a questo riguardo la critica contro il ricorso al “rasoio di Occam” come argomento a favore delle forme riduttive; esso soltanto ci aiuta a decidere tra due teorie in concorrenza, ma non quando non si ha una teoria sufficiente o efficace (pp. 43, 83-84). Il cosiddetto “misterianismo” – secondo il quale la mente umana non e equipaggiata per capire se stessa – dovrebbe fare i conti col fatto che i “blocchi” (gaps) non si verificano soltanto nello studio della mente, ma anche ad altri livelli di realtà.

Il capitolo terzo espone i motivi che inducono al rifiuto del riduzionismo in altre scienze, a partire dalla fisica, il che implica una delegittimazione di tale programma e dei tentativi di “unificazione”. Una conseguenza importante e che sorgono diversi modelli di scienza, ognuno con i propri criteri di eccellenza; non sarebbe giusto quindi inseguire un criterio unico di qualità applicabile a tutte le scienze (p. 58), una lezione che anche le cosiddette “scienze della religione” dovrebbero far propria. Tuttavia, l’autore avverte che i dualisti non dovrebbero entusiasmarsi troppo dinanzi a tali esiti, dato che la mente non rappresenta un “caso speciale”.

I capitoli quarto, quinto e sesto si presentano ancora sotto il formato della revisione critica: il primo delle nuove proposte di riduzionismo nomologico e dell’eliminazionismo, il secondo del dualismo e il terzo del “misterianismo”.

Il pluralismo delle spiegazioni o teorie e la ragione principale, ovvero il fatto che certi livelli di spiegazione non possono essere ridotti ad altri.

Inoltre, il dualismo dovrebbe cedere il passo a un sano pluralismo, malgrado le conseguenze contro-intuitive che questo potrebbe produrre. L’autore mostra ripetutamente la propria insoddisfazione per l’insieme delle proposte maturate nel tentativo di superare il riduzionismo e, nel contempo, di salvare il fisicalismo.

La terza parte del libro assume un tono più costruttivo, volto a fornire un modello di “pluralismo cognitivo” in grado di superare i limiti finora osservati nelle proposte riviste. Il capitolo settimo esplora alcune forme di pluralismo, come quello “cospicuo” di Dupre. L’idea di base della proposta di Horst e che si debba riconoscere un livello insuperabile di pluralismo negli approcci cognitivi alla realtà, e che tale pluralità abbia una dimensione pragmatica, dunque determini le nostre conoscenze e teorie attraverso l’applicazione di modelli. Infatti, il pluralismo osservato nelle scienze non sarebbe che un caso di una condizione generale del modo di operare della nostra mente, che deve ricorrere a “modelli” in grado di inquadrare la realtà. Di conseguenza, e necessario accettare una situazione di “disunita scientifica”, risultato dei processi di astrazione, idealizzazione o di riduzione di variabili operati da ogni modello scientifico. Il problema poi e riuscire a ricombinare

gli schemi ottenuti, in modo da comporre una visione d’insieme. Sembra che la quantificazione non sia sufficiente e che ci si debba accontentare di una sorta di collezione di pezze (patches), tra le quali si sceglie per applicarle a seconda dei bisogni cognitivi (137). Ne consegue che i “modelli” non sono più o meno “veri”, ma semplicemente “atti” a una data occorrenza. Nelle parole dell’autore: “l’attitudine (aptness) di un modello consiste nel suo essere adatto all’obiettivo di predire, descrivere e capire una serie particolare di casi” (139). Emergono cosi un’inevitabile complessità e una serie di problemi di trasposizione da un modello ad altro, sebbene ogni modello si serva di un proprio schema di rappresentazione.

Il capitolo otto esplora il modello distributivo della mente, diviso in domini relativamente autonomi e specializzati. La teoria della “modularità della mente” e assai nota, ma viene rivista alla luce della teoria sul pluralismo nella scienza, come un caso più ampio di quello propriamente scientifico.

L’autore si allinea con gli studi che mirano a una localizzazione delle funzioni cognitive nel cervello. Persiste il problema dell’integrazione di questi domini specializzati; tuttavia, pare che questo sia il prezzo da pagare per l’efficienza ottenuta attraverso quel disegno specifico della mente modulare, anche se riconoscendo certe connessioni tra i vari domini. Tale “architettura della mente” si configura in modo pragmatico, il che obbliga ad accettare un certo“statuto di limitazione”: la mente non e stata disegnata per “comprendere il mondo”, ma per gestire situazioni in vista della sopravvivenza (177). Ritorna comunque la questione dell’anelito all’unificazione e della possibilità di incrociare tra loro domini diversi.

Il capitolo nono propone una riflessione sulle conseguenze metafisiche della proposta del “pluralismo cognitivo”, in linea con la “metafisica modale”. L’ultimo capitolo ritorna – a mo’ di conclusione – al tema del naturalismo, dal quale era partito il libro. Horst insiste in termini palesi sul suo rifiuto di un naturalismo che implichi il riduzionismo, ammettendo soltanto un modello di conoscenza scientifica, al quale ogni realtà dovrebbe adeguarsi.

Di grande interesse sono le sue considerazioni sulla compatibilità del suo modello con il dualismo che suggerisce l’accettazione dell’anima e con una dimensione di trascendenza (201). Le riflessioni finali hanno un tono di rivendicazione in favore di una maggiore apertura cognitiva e di decisa condanna delle versioni più riduzioniste, come quelle di Wilson, Dawkins e Crick, che possono avere conseguenze umane e morali nefande quando vengono ampiamente diffuse.

In un primo bilancio, va riconosciuto il coraggio dimostrato da Horst nel lanciare il suo atto di accusa contro il riduzionismo e il naturalismo imperante, sia in ambito filosofico che scientifico. Tuttavia non e detto che questa posizione, molto più complessa, soddisfi i dualisti o gli autori più aperti alla trascendenza; si tratta solo di possibilità non garantite. Malgrado ciò, si apre un profondo varco nella struttura della visione scientifica standard, che rende possibile una revisione degli assiomi eliminazionisti, legati a una visione molto chiusa della realtà. Il libro emette un giudizio alquanto severo sulle conseguenze dannose di un’impostazione chiusa e riduttiva dell’essere umano e dei rapporti sociali. Ancora una volta sono i filosofi critici a prendere le distanze da modelli apparentemente ispirati dalle scienze, ma di carattere poco plausibile e con esiti prevedibilmente pericolosi.

Certamente il paradigma proposto – il “pluralismo cognitivo” – ha bisogno di approfondimenti e di maturazione. Non sono infatti convinto che le proposte di “modularità della mente” siano sempre adatte a offrire una base neuronale al nuovo programma. Peraltro, tale modello cognitivo ha ricevuto numerose critiche, ad esempio da parte di Fodor e Panksepp. Forse il complemento necessario potrebbe essere rappresentato dalla teoria sviluppata da Steven Mithen sul processo di blending, o riconnessione e plasticità tra diversi domini. La teoria del pluralismo potrebbe arricchirsi dei contributi già classici forniti dalla teoria dei sistemi sociali, specialmente nella versione di Luhmann, e dalla sua analisi dei processi di differenziazione. Forse, nell’ambito scientifico, stiamo assistendo a uno sviluppo che porta alla differenziazione di campi specializzati, con codici di comunicazioni specifici e adatti ad ogni ambito.

Resta di grande importanza l’insegnamento di questa nuova impostazione epistemologica e metodologica per la teologia e le scienze della religione.

Esse possono ora rivendicare tranquillamente un loro proprio approccio, che non deve necessariamente arrendersi a forme di riduzione e assumere un programma scientifico troppo ristretto e povero. E, tuttavia, il nuovo orizzonte che cosi si dischiude implica un appello alla responsabilità, nel senso che un’eccessiva discontinuità e uno smodato idealismo non sarebbero affatto sostenibili quando si assume come norma il “pluralismo cognitivo”.

5.

Il quinto e ultimo libro della nostra raccolta e anche il più recente. Contiene una lunga introduzione e quattordici saggi di eminenti autori nel campo della filosofia della scienza, riguardo alla portata e ai limiti delle strategie di riduzione nella ricerca scientifica. Vi si trovano diversi apporti di grande interesse, poichè vanno al di là della cosiddetta armchair philosophy per cercare di capire come si avviino processi concreti di riduzione, o come procede in realtà il lavoro degli scienziati in diversi campi. Le conclusioni sono allora il frutto di indagini sul campo, e non solo di speculazioni astratte.

Ancora una volta, la pubblicazione di questo insieme di studi sta a dimostrare il grande interesse che il tema ancora suscita, nonchè i problemi irrisolti che si accumulano alle porte dei riduzionisti più irriducibili.

Il libro non raduna i contributi per blocchi o temi, il che ne rende meno chiara l’organizzazione. Il recensore e altresì obbligato a ricercarvi una qualche logica interna, possibili rapporti di affinità o temi che si succedono, nonché a seguire i dibattiti che emergono. L’impressione generale che si rileva dalla lettura di questa selezione di studi e quella di un’analisi sofisticata, nel solco della migliore tradizione analitica anglosassone, sulle possibilità reali di avviare programmi di riduzione, sui diversi modelli in campo e sui limiti che si riscontrano. Tra i cinque titoli qui considerati questo e senz’altro il più tecnico, quello che scende maggiormente nei dettagli e che applica distinzioni più raffinate, dunque il testo meno divulgativo e di maggiore respiro analitico.

Per buona parte dei contributi, un possibile punto di riferimento sono le tesi di Jerry Fodor sulle “scienze speciali”, pubblicate nel 1974. Il suo articolo è direttamente citato in sette dei saggi di questa collana e Fodor e tra gli autori più spesso menzionati, insieme a Jaegon Kim e David Lewis. Tali scienze seguono modelli diversi dalle regolarità e dalle leggi caratteristiche dell’impianto della fisica. Un principio che scaturisce da quell’analisi seminale e la cosiddetta “realizzazione molteplice”, ovvero il fatto che – dalla stessa base fisica – possono sorgere diverse espressioni a distinti livelli; sarebbe di conseguenza impraticabile una completa riduzione delle scienze speciali a quelle fisiche. Tra le analisi offerte emergono alcune sfumature: Godfrey Smith, ad esempio, introduce il ruolo svolto dai modelli in quelle scienze e i limiti del funzionalismo, che spesso richiede interventi che consentano di comprendere le strutture sottostanti. Kim, dal canto suo, stabilisce una tipologia in tre forme di riduzione, dove soltanto la terza – il “concettualismo funzionale delle proprietà” – sarebbe legittima, ma conduce a un fisicalismo eliminazionista e poco realista, un prezzo forse troppo grande da pagare.

Lipton scommette sul pluralismo delle spiegazioni, come risultato inevitabile dell’assioma di Fodor, il che implica il riconoscimento di più vie metodologiche o il superamento del riduzionismo più ristretto. Un’altra sfumatura emerge nella posizione di Papineau il quale, dopo aver dichiarato la sua fede fisicalista, ammette di non essere sicuro su come sia possibile vincolare dimensioni macrocosmiche a processi microfisici, anche se ciò non dovrebbe implicare un dualismo. Anthony si allinea con Fodor e mostra come le descrizioni in chiave mentalista hanno plausibilità e capacita esplicativa, il che le rende legittime.

Un altro modo di affrontare il problema e un’analisi dei processi di causalità.

Ciò che è in gioco e la misura in cui i fenomeni mentali hanno la capacità di causare a un livello diverso da quello meramente fisico. Molti degli autori trattano il problema con argomenti piuttosto complessi. Crane ritiene insufficienti gli argomenti “contro-fattuali” (“se non ci fosse stata una data proprietà mentale, non ci sarebbe un tale effetto”) e che non sia possibile dedurre una causalità dalle proprietà delle cose. Menzies rivede la questione a partire “dall’argomento di esclusione” (se una proprietà basta a causarne un’altra, non e necessario ricorrere a una proprietà diversa), ma nella sua analisi non esclude che le proprietà mentali posano causare “differenze” a livello fisico. Woodward ritorna sul problema dell’efficienza causale della mente, ma oscilla tra il concedere una capacita causale alla mente per realizzare intenzioni e la possibilità di identificare proprietà ai livelli neuronale e molecolare.

L’argomento dell’esclusione riappare in Stoljar, che suggerisce nuove distinzioni per risolvere il puzzle posto dalle connessioni tra proprietà; e in Bennett, convinta che tale argomento sia erroneo e che il fisicalismo non riduttivo possa offrire una risposta soddisfacente, a differenza del dualismo, che sarebbe in difficoltà dinanzi a tale argomento.

Risultano di grande interesse apporti come quello di Gray e Stewart, i quali ripercorrono la prassi psichiatrica per concludere che le spiegazioni di determinati processi mentali non sono riducibili ad altri livelli. Anche Bickle si fa guidare dalla prassi scientifica. List e Petit propongono un caso di studio sui processi di decisione di gruppo, per analizzare la questione della superevenienza tra l’agenzia di gruppo e gli individui che lo compongono. Il risultato e che in diversi casi non e facile trovare il filo della continuità da un livello all’altro, dunque la superevenienza si fa meno lineare e immediata.

Come si può osservare, la questione della riduzione come procedura scientifica e molto distante dall’essere qualcosa di scontato. Le difficoltà sono numerose allorchè si tenta di ridurre fenomeni di dimensioni correnti a fenomeni microfisici, processi sociali a processi individuali o, ancor peggio, fenomeni mentali a processi neuronali. Il panorama che emerge dagli studi qui raccolti e molto più complesso, presenta diverse opzioni e sembrerebbe che nessuna delle proposte abbia acquisito un consenso piu ampio delle altre.

Inoltre, i casi di studio sul piano del “lavoro di campo” scientifico contraddicono, nella prassi concreta, le procedure più riduttive, specialmente quando si percepisce la plausibilità e la capacita euristica di spiegazioni e teorie che si muovono ad un livello superiore. A questo punto, si potrebbe anche parlare di “pluralismo epistemologico”, nel senso pratico di dover tenere conto di più modelli e forme d’intendere i processi scientifici, tra riduzione forte e modelli non riduttivi.

In conclusione, si confermano le aspettative formulate all’inizio di questa rassegna bibliografica: le vie aperte sono molte e nessuno può pretendere di avere una posizione più forte, nel senso di consacrare le versioni più riduttive del naturalismo.

La questione formulata all’inizio, in ordine alle conseguenze teologiche e per la filosofia della religione, trovano alcune risposte alla fine del percorso.

In primo luogo, lo studio della religione si colloca inevitabilmente anche tra le “scienze speciali” e condivide ovviamente le caratteristiche tipiche di tali discipline, che già Fodor aveva osservato. A titolo di esempio, la religione condivide altresì uno statuto comunitario, e quindi le caratteristiche dell’agenzia di gruppo, esaminate più sopra. Inoltre, il coinvolgimento delle dimensioni di coscienza – tra molte altre – complica ulteriormente le cose, e rende quindi il programma riduttivista meno percorribile. Di conseguenza, sarebbe bene adottare una posizione che, partendo da una siffatta complessità, assuma un principio di “pluralismo epistemologico”, nel senso cui mirava Horst, evitando facili riduzioni di stampo scientifico quando si procede allo studio della religione.

Le cose stanno piuttosto in questo modo: quando un fenomeno e molto complesso, intervengono molte variabili, e le analisi sono sempre approssimative e probabilistiche. In tal caso, si rende inevitabile un vasto intervento della dimensione ermeneutica, mirante a chiarire e collegare i nuovi dati e le conoscenze acquisite con l’applicazione di nuovi metodi nell’ambito di una tradizione di riflessione filosofica e teologica, che sia in grado di collocarli entro una rete di conoscenza dando senso dell’insieme. Il programma riduttivo sicuramente fallisce quando viene applicato allo studio della religione: quando un fenomeno e molto complesso, le analisi più empiriche possono offrire precisione, ma non una rappresentazione globale; quello che si guadagna in accuratezza, si perde in prospettiva e profondità. Resta solo da augurarsi che la nuova comunità di ricercatori in materia di religione faccia propri la complessità e il pluralismo che derivano da queste analisi.



 
 
 
 
 
 
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