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Ciclo di lezioni pubbliche: M. José Martínez Gázquez, Tradurre dall’arabo al latino: le antiche traduzioni latine del Corano (Roma, 20-24 aprile 2009), Scuola Superiore di Studi Medievali e Francescani della Pontificia Università Antonianum di Roma, Cent

 
 
 
Foto Muzzi Sara , Ciclo di lezioni pubbliche: M. José Martínez Gázquez, Tradurre dall’arabo al latino: le antiche traduzioni latine del Corano (Roma, 20-24 aprile 2009), Scuola Superiore di Studi Medievali e Francescani della Pontificia Università Antonianum di Roma, Cent, in Antonianum, 84/4 (2009) p. 782-788 .

La formazione, gli interessi e le pubblicazioni del prof. Jose Martinez Gazquez dell’Università Autonoma di Barcellona sono stati ripercorsi dal prof. Rino Avesani, legato a lui da profonda stima ed amicizia.

Il prof. Martinez Gazquez, docente di Filologia Latina, dirige il gruppo di ricerca del progetto Islamolatina. La percezione dell’Islam nell’Europa latina, la cui presentazione e descritta alla pagina web: http://hipatia.uab.cat/ islamolatina/pub/contingut.asp?c_epigraf=1&menuidioma=ca.

Il prof. Martinez Gazquez ha iniziato la trattazione di questa tematica poco conosciuta, partendo dal lavoro di una equipe dell’Università di Barcellona: e grazie ad i risultati raggiunti dal loro impegno che siamo arrivati alle traduzioni latine del Corano che oggi conosciamo. M. T. D’Alverny in un suo testo del 1948 dedicato a questo argomento, Deux traductions latines du Coran au Moyen Age, parlava solo di due traduzioni latine. I testi che costituiscono quello che la D’Alverny aveva definito il Corpus Toletanum, su cui Pietro il Venerabile baso la sua refutazione dell’Islam, rinominato Corpus Islamolatinum perche tali testi non erano stati tradotti a Toledo, sono stati analizzati a partire dalle motivazioni che avevano spinto Pietro il Venerabile a cercare di colmare la non conoscenza che i cristiani latini di Occidente avevano della vita e della dottrina di Maometto. La necessità di combattere l’Islam attraverso la conoscenza ed il rifiuto delle sue dottrine, come aveva fatto con il giudaismo e nel tentativo di seguire il modo in cui i Padri della Chiesa si erano comportati nei confronti delle altre eresie, aveva reso fondamentale per Pietro il Venerabile avere a disposizione del materiale che non fossero le biografie leggendarie e diffamatorie di Maometto composte dai cristiani, che circolavano in quell’epoca. Un viaggio per visitare i nuovi monasteri cluniacensi nati nella zona dell’Ebro (1142-1143) gli diede la possibilità di venire in contatto con dei traduttori che si trovavano in quei territori di frontiera, spinti dall’interesse per i testi scientifici, e di scrivere il Liber contra sectam siue haeresim Saracenorum.

Il manoscritto del Corpus Islamolatinum, conservato nella Biblioteca dell’Arsenal a Parigi (Bibl. Arsenal lat. 1162, XII sec.), contiene il Liber de generatione Mahumet che riporta una piccola miniatura in cui Maometto viene rappresentato come un mostro, mettendo in evidenza i pregiudizi che, insieme ai propositi, compaiono anche nella prefazione alla prima traduzione latina del Corano condotta da Roberto da Ketton. Monaco cluniacense, studioso di astronomia e geometria, Roberto da Ketton aveva acconsentito con Ermanno di Carinzia ed altri, tra cui a anche un musulmano, alle richieste di Pietro il Venerabile. Nonostante le dichiarazioni di oggettività che compaiono nel prologo -la traduzione era stata condotta senza aggiungere niente, alcuni cambiamenti erano stati apportati solo per ottenere una migliore comprensione- appare evidente che la traduzione era stata eseguita non per conoscere l’Islam, ma per rifiutarlo. La terminologia militare –bisogna togliere l’acqua al nemico e distruggere le sue armi- mira a dare ai cristiani armi contro l’Islam, anche i monaci devono avere armi per difendersi e non “passare al nemico”. Il numero delle sure nella traduzione di Roberto da Ketton arriva a 123, oltre ai cambiamenti di forma a volte il traduttore opera dei cambiamenti di contenuto, o riassume delle parti. L’aumento del numero delle sure potrebbe essere dovuto al fatto che Roberto da Ketton traduceva da un Corano preparato per la lettura nella moschea, la suddivisione era necessaria per far sì che soprattutto le prime sure non risultassero troppo lunghe; i titoli delle sure erano stati aggiunti dal traduttore: il testo finale risponde all’esigenza di fornire un armarium cristiano con cui difendersi dall’Islam.

La seconda traduzione latina del Corano e legata alla ripresa delle azioni belliche contro gli Almohadi: una serie di disfatte aveva spinto il papa ad esortare la perorazione di una crociata. L’incarico di diffondere la crociata contro gli Almohadi fu affidato all’arcivescovo di Toledo, Rodrigo Jimenez de Rada, che preparo anche intellettualmente il terreno per il conflitto bellico, incaricando Marco da Toledo della traduzione del Corano. La traduzione venne terminata nel 1210, pochi anni prima della vittoria cristiana di Las Navas de Tolosa. Si tratta di una traduzione letterale e lineare, alla maniera dei testi scientifici, ma che risponde alla finalità di mettere in risalto gli aspetti sacrileghi dei precetti del Corano. Insieme al Corano, Marco da Toledo aveva condotto anche la traduzione della professione di fede di Ibn Tumart, testo teologico fondamentale per gli Almohadi. Tutti quelli che non potevano lottare con le armi, potevano difendersi dall’Islam conoscendolo e avendo una descrizione di Maometto in preceptis inhonestus,in verbis confusus,in dictis inuerecundus.

La terza traduzione del Corano e legata all’attività di Giovanni di Segovia: nel tentativo di avere un approccio pacifico con i musulmani aveva preso la traduzione di Roberto di Ketton, che risultava inadatta al suo scopo. Per questo si occupò nel 1456 di una nuova traduzione che doveva restare fedele al modo della lingua araba: un teologo musulmano della moschea di Segovia resto con lui sei mesi, traducendo il testo dall’arabo al castigliano, Giovanni di Segovia lo tradusse poi dallo spagnolo al latino. Roberto da Ketton, definito da lui retore e poeta, aveva commesso anche errori sostanziali per ciò che riguardava la dottrina dei saraceni. E’ un peccato, conclude il Prof. Gazquez, che non possediamo il testo di tale traduzione.

La quarta traduzione latina del Corano risale al 1475, ad opera di Guglielmo R. de Moncata. Di questo lavoro e giunto a noi il Prologo e le sure 20 e 21. Doveva essere una grande opera, commissionata dal duca di Montefeltro, in cinque lingue de Arabico in Latinum sermonen uerti, deinde in Hebraicum et postea in Caldeum et Syrum, il traduttore compie una trascrizione delle parole difficili da tradurre e alla fine del testo ne spiega il senso, rispetta la divisione in 30 parti.

Abbiamo poi l’Alcoranus latinus di Egidio da Viterbo del 1518, per la traduzione il cardinale Egidio da Viterbo aveva incaricato un saraceno convertitosi al cristianesimo: Gabriele Terrolensis.

Leo Africanus, con cui in seguito erano venuti in contatto, si era occupato di rifare le glosse.

Al patriarca di Costantinopoli, Cirillus Lucaris, è attribuita la traduzione di quello che appare come un quaderno di lavoro. Mancano delle sure, alcune come la 112 hanno tre traduzioni diverse.

Germano di Silesia (1669) rivela che è difficile tradurre il Corano, ma lui ha una buona preparazione. E’ un lavoro interessante perche il traduttore conosce bene l’arabo e nelle glosse menziona il commentarista islamico cui si fa riferimento. L’Islam, sempre descritto negativamente, va rifiutato ed i cristiani devono avere un’arma in più per difendersi.

Ludovico Marracci condusse l’Alcorani textus uniuersus ex correctionibus Arabum exemplaribus summa. E’ una buona traduzione, verrà utilizzata come base per le traduzioni moderne.

Tutte queste traduzioni rappresentano per il prof. Gazquez un tentativo fallito di approccio all’Islam: costretti dalle idee del tempo, i traduttori non si erano avvicinati ai testi nel modo corretto. Il tentativo di andare contro la fede musulmana, di fornire ai cristiani ulteriori strumenti per la lotta contro l’Islam o il desiderio di incentivare nuove conversioni non aveva permesso loro un’esatta comprensione e restituzione delle dottrine che volevano far conoscere.

Un aspetto importante per cogliere le reazioni dei lettori del Corano latino, e l’analisi delle glosse al testo del Corano. I glossatori del Corano latino, abituati alle glosse ordinarie della Bibbia, lasciavano il testo coranico al centro con glosse marginali ed interlineari. Nelle prime sure le glosse sono più numerose, si arriva a 400 glosse diverse. E’ difficile poter stabilire chi sia stato l’autore delle oltre 400 glosse del primo Corano latino. La traduzione di Robert da Ketton era stata spedita dalla Spagna a Cluny perchè potesse essere a disposizione di Pietro il Venerabile, che a sua volta ne aveva fatto fare delle copie, una sappiamo che l’aveva inviata a Bernardo di Chiaravalle perchè si occupasse lui della confutazione che poi realizzo Pietro il Venerabile.

In queste copie le glosse dovevano essere già presenti. Il glossatore è una persona che conosce bene la storia della Chiesa, delle eresie e la storia islamica; quando può identificare, sia in senso positivo che negativo, qualche riferimento che possa essere noto ai cristiani perche legato alla reputazione delle grandi eresie, lo sottolinea (Hoc dicit propter christianos, quos mirabili insania putant tres deos credere, quando christum et Spiritum Sanctum equales Deo Patri dicunt. Et nota quod in isto heresis arriana reuixit.). E’ sempre molto interessato agli aspetti prossimi alle eresie cristiane. Forse le glosse sono del segretario di Pietro il Venerabile, Pietro di Poitiers che aveva preparato e riassunto (nella Summula) i testi che costituiscono il Corpus Islamolatinum in maniera tale che l’Abate di Cluny potesse fare la sua refutazione contro i nemici della croce di Cristo. Il contenuto dell’insieme delle glosse e sempre denigratorio del testo coranico, come sosteneva anche la D’Alverny. Le glosse al Corano di Roberto di Ketton sono di vario tipo: a volte offrono il senso concreto di una frase coranica, a volte mettono in evidenza un errore di Maometto, reinterpretano negativamente alcuni concetti, o aiutano ad identificare un personaggio biblico. Alcune volte viene fatto riferimento a commentaristi famosi.

Le glosse non vengono riportate in tutti i manoscritti, dei 24 che abbiamo a disposizione, 12 contengono glosse. Ci sono passi del Corano che sono stati commentati da tutti, il corpus delle glosse ha avuto una vita propria e parallela. Abbiamo dei glossatori famosi: Nicola da Cusa (cfr. Ms BAV Lat. 1471) aveva avuto una copia del Corano tradotto da Roberto da Ketton e lo glossa parlando del primato di Cristo; T. Bibliander appone delle glosse di sua mano per sottolineare quegli aspetti del Corano non in accordo con la morale cristiana.

Anche i Corani arabi hanno, a volte delle glosse, tradizione confermata sino ad oggi. Nella Biblioteca Nazionale di Francia c’è un Corano arabo con le glosse in latino (BNF Ms. ar. 384) ed un recente studio di T. Burman, Reading the Qur'ân in Latin Christendom, 1140-1560. Univ. of Pennsylvania, Philadelphia, 2007 ha mostrato che le glosse sono per la maggior parte di Riccoldo da Montecroce. Questo manoscritto era stato comprato a Costantinopoli. Il glossatore latino ha aggiunto dei fogli iniziali con un riassunto dei temi che potevano interessare ad un lettore cristiano latino che leggeva il Corano. Quando deve introdurre delle traduzioni del Corano ricorre, il più delle volte, alla traduzione di Marco da Toledo. Le glosse iniziali esplicative vengono introdotte da un quod ed alla fine riportano l’indicazione della pagina di riferimento nel testo arabo (capitolo IV, ad esempio, corrisponde alla sura 4), altre riguardano il confronto tra cristiani e musulmani.

I brani dei prologhi che i traduttori dei testi scientifici hanno apposto alle loro traduzioni testimoniano, invece, un attitudine diversa. Le traduzioni scientifiche dall’arabo in latino permettono il progressivo recupero dei testi degli autori della classicità greca ed i traduttori sono consci dei grandi tesori che offrono alla cristianità occidentale. Non abbiamo più testi che alterano la vita di Maometto e la sua dottrina, tali traduzioni permettono in questo ambito una corretta percezione dell’Islam.

Il primo indizio che abbiamo in Spagna dell’interesse cristiano per la scienza araba e il Monastero di Ripoll. Siamo intorno alla fine dell’anno 900 ed in un manoscritto legato a questo luogo i nomi delle stelle sono delle traslitterazioni dei termini arabi. Il crescente interesse per l’astronomia nasceva dalla scienza del computo per la determinazione della festa della Pasqua. In questo periodo, Vich era l’unico luogo dove si potevano studiare aritmetica e astronomia: qui avverrà il proficuo contatto tra Gerberto d’Aurillac e la scienza araba.

Il periodo delle grandi traduzioni (XI-XII sec.) vede la traduzione delle Tavole di al- Jwārizmī ad opera di Pietro Alfonso (1062?-1130), un ebreo converso che intende tradurre tutto ciò che gli è possibile, seguendo lo stesso ordine dei testi originali. Era medico e va in Inghilterra dal re dove diffonde la sua scienza. Walcher de Malvern (m. 1135) e Adelardo di Bath (1120- 1152) furono suoi allievi: la scienza araba e piu sicura, sostiene quest’ultimo, perchè fondata sulla ragione e non sull’autorita (Ego enim aliud a magisteri Arabicis ratione duce didici, tu uero aliud auctoritatis pictura captus capistrum sequeris).

Ugo di Sanctalla (1130), grande poeta e matematico, possedeva una bella biblioteca che rimase al monastero di Rota. In questo luogo, in Rotensi armario, i cristiani andavano a cercare i testi arabi, consci della propria ignoranza. La stessa latinità che Roberto da Ketton aveva descritto come ignorante della storia e delle dottrine islamiche adesso era alla ricerca affannosa del testo dell’Almagesto di Tolomeo e fin tanto che non lo trovava traduceva tutto quello che poteva essere attinente a questi interessi. Il traduttore del primo Corano latino si era occupato, e questo era il suo vero interesse, dell’astrologia di al-Kindi. Anche Ermanno di Carinzia, suo amico, era un traduttore di testi di astronomia e di filosofia. Compone anche una sua opera il De essentiis, con tutto il materiale che ha appreso e che gli fa compiere un passo in più rispetto agli altri traduttori.

Platone di Tivoli, un italiano che studiava a Barcellona, aveva anche lui riconosciuto il valore dei ‘grandi tesori degli arabi’.

Molto numerose furono le traduzioni ultimate da Gerardo da Cremona (1114-1187). I suoi allievi ne misero un elenco in una sua piccola biografia che seguiva la sua ultima traduzione. Aveva trovato l’Almagesto a Toledo e lo aveva tradotto, tutta la sua vita era stata dedicata alle traduzioni dall’arabo (amore tamen Almagesti, quem apud Latinos minime reperiit, Toletum perrexit, ubi libro rum cuiuslibet facultatis habundantiam in Arabico cernens et Latinorum penurie de ipsis quam nouerat miserans,amore transferendi linguam edidicit Arabicam). Daniele di Morley (1140-1210) aveva sentito che a Toledo si imparava di più che a Parigi, vi si era recato ed aveva avuto Gerardo da Cremona come maestro, in seguito aveva riportato i testi tradotti in Inghilterra.

In questo stesso periodo e attivo Domenico Gundissalino, chiamato Gundisalvi, che non porto a compimento solo importanti traduzioni, ma fu autore lui stesso di un trattato di filosofia, il De anima. Anche Marco da Toledo tradusse testi scientifici, di medicina; Michele Scoto aveva tradotto anche testi di alchimia.

Non mancarono le critiche islamiche a questo corposo processo di traduzioni: le cronache musulmane parlano di sacerdoti e monaci che avevano dedicato la vita a studiare le scienze e che erano interessati soprattutto alle scienze dei musulmani per tradurle nella loro lingua e per criticarle. A volte si appropriavano del materiale contenuto nei testi arabi senza rivelarne la provenienza.

Al mercato di Siviglia era specificato che non si potevano vendere testi arabi ai cristiani, soprattutto il Corano.



 
 
 
 
 
 
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