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Recensione: FELICE MORETTI, La ragione del sorriso e del riso nel Medioevo

 
 
 
Foto Borzumato Francesca , Recensione: FELICE MORETTI, La ragione del sorriso e del riso nel Medioevo, in Antonianum, 77/2 (2002) p. 386-388 .

Che un titolo possa attrarre e catalizzare l’attenzione è senz’altro vero; ma anche che la maggior parte delle volte le nostre aspettative restano deluse, se confrontate con i contenuti.

In questo caso, la situazione è ben diversa: questo titolo così “seducente” è accompagnato da pagine densamente piacevoli e da ricchezza di documentazione.

La stessa prefazione ci introduce in un clima coinvolgente già dalle prime parole: il lettore si trova proiettato nel bel mezzo di un furto avvenuto secoli fa, indeciso se essere turbato per il dramma del furto o per la comicità delle conseguenze. Proprio da tale episodio, magistralmente orchestrato da Franco Porsia, emerge il fatto che “il ridere si manifesta come prodotto da pensieri malvagi”[1]

Da qui seguono considerazioni sulla genesi del riso, sul primo caso (l’incauto figlio di Noè in Genesi IX), sulla localizzazione, sulla forza difensiva ed offensiva (e come non accennare a “Il nome della Rosa”?), fino a constatare che “dove non c’è ironia è sicura la presenza di fondamentalismi”[2] e ad anticipare il tema principalmente svolto dall’autore: gli exempla creati dai predicatori degli ordini Mendicanti.

Lo scopo dell’introduzione è quello di delineare il quadro apocalittico e spaventoso del Medioevo, esaltato dalle fonti, per interrogarsi sul suo rovescio, dal momento che “il riso…si chiarisce se messo in rapporto a ciò che gli si oppone, il pianto”[3].

E a questo punto si susseguono 8 capitoli volti ad approfondire il riso con le diverse accezioni e nei diversi tempi.

Il primo capitolo è a ragione incentrato sulla figura di Francesco d’Assisi e sulle sue azioni che tendono a rovesciare i valori della spiritualità monastica: egli gioca ancora prima di convertirsi, certamente un gioco “non già in senso di svago, ma in modo più intimo e profondo”[4].

Ma come la Chiesa si poneva nei confronti del riso? Una breve rassegna di padri della Chiesa sottolinea l’inopportunità del riso e a tale corrente bisogna ascrivere anche San Bernardo, che lo condanna esaltando al contrario le lacrime. Eppure alcune pagine del De Consideratione presentano una vis comica travolgente, ma in funzione didattica. La satira è ben diversa dalla jocunditas!

L’atteggiamento della Chiesa cambia direzione nel XIII secolo e con il supporto degli ordini mendicanti. I predicatori agiscono nelle città avvalendosi di uno strumento nuovo ed efficace: l’exemplum.

Il lettore entra nel vivo della questione, accompagnato dai vividi exempla di Luca da Bitonto, un francescano che spicca per duttilità e acutezza. E il terzo capitolo si basa sull’analisi di questo vero e proprio genere letterario, specchio dei costumi e della società dell’epoca. Appare chiaro come nella maggior parte degli exempla il diavolo risulti sottomesso ed impotente rispetto a Dio.

Così nel quinto capitolo viene ribadito lo stretto legame tra il comico e lo spaventoso e come la coscienza medievale cogliesse meglio la realtà più profonda, per niente buffa o gioiosa.

In sostanza, la presenza dell’universo demoniaco non è affatto accidentale, dal momento che “la demonologia aveva un ruolo importante nella teologia medioevale, ne era anzi un suo settore: era la strada maestra che conduceva alla penitenza”[5].

La predicazione presenta altre interessanti sfaccettature: come si legge nel sesto capitolo, i mendicanti se ne servirono anche per sferzare il clero. (Basti vedere Salimbene). E l’operazione fu coronata dal successo, tanto più che alcuni papi riformatori utilizzarono a fondo quest’altra arma.

E di certo non era da tutti far ridere. Il settimo capitolo svolge le tecniche dell’arte del punire ridendo, evidenziando come il predicatore fosse in grado di suscitare il riso in tutto l’uditorio, grazie alla conoscenza della psicologia di massa.

E se una sezione a parte è dedicata al vizio del gioco e alla bestemmia, un capitolo a parte, l’ultimo, si incentra su una categoria da sempre giudicata pericolosa: le donne. Il predicatore ne mette in luce diversi difetti, tra cui il peggiore è certamente l’infedeltà e il più riconosciuto, il peccato della lingua.

La conclusione del libro, dopo questo vivido excursus, è che “l’arte di far ridere, anche se di un riso carico di ‘paura gioiosa’, rendeva partecipe, responsabile e complice un uditorio vasto, vario, composito. Nessuna fascia sociale era immune da quel contagio: né nobili, né potenti, né ricchi, né poveri, né intellettuali, né ignoranti. Il Medioevo rideva”[6]

Un’utilissima appendice, in linea con la praticità e la chiarezza dei capitoli, chiude il volume: gli exempla citati di Etienne de Bourbon.

 

 

 

 



 
 
 
 
 
 
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