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I Trobada internacional d’estudis sobre Arnau de Vilanova

 
 
 
Foto Troncarelli Fabio , I Trobada internacional d’estudis sobre Arnau de Vilanova, in Antonianum, 75/3 (2000) p. 609-614 .

Nella vita accademica contemporanea è sempre più frequente partecipare a convegni  che pur essendo di alto livello scientifico danno la sensazione di avere scarso mordente: di essere cioè solo l’occasione di ripetere il già noto, senza mettere o rimettere in discussione tesi consolidate, ipotesi discutibili, luoghi comuni. Se, dunque, un congresso è stato occasione di autentica riflessione ed esercizio della facoltà critiche, lo studioso non puo che provare autentica gratitudine. E’ questo il caso della I Trobada Internacional d’Estudis sobre Arnau de Vilanova, tenutasi a Barcellona il 6-8 aprile 1994, i cui atti sono stati pubblicati dall’Institut d’Estudis Catalans nel 1995. Il convegno è stato  interamente dedicata ad Arnaldo di Villanova. L’incontro tra gli studiosi era stato preceduto dalla pubblicazione di un utilissimo volumetto di Jaume Mensa i Valls che ha scritto una preziosa guida bibliografica su Arnaldo., nella quale sono raccolte le indicazioni fonfamentali per un ricercatore che voglia accostarsi alla figura e all’opera del grande intellettuale catalano(J. Mensa i Valls, Arnau de Vilanova, Espiritual: Guia bibliogràfica, Barcelona, Institut d’Estudis Catalans, 1994).

La produzione   di quest’autore,  così ricco ed esuberante, presenta ancora molti aspetti enigmatici, al punto che ancora oggi è difficile stabilire un catalogo completo degli scritti arnaldiani, distinguendo in modo definitivo le opere autentiche da quelle apocfrife. Per questa ragione gli studiosi convenuti hanno affrontato, con lucidità, proprio questo problema da diverse angolazioni, distinguendo in apposite sezioni, gli scritti religiosi, da quelli medici e alchemici.

Nell’ambito della sezione dedicata agli scritti religiosi, J. Perarnau i Espelt  ha ribadito l’importanza dei criteri tradizionali di attribuzione a partire dagli elenchi di opere  che Arnaldo stesso  ha stilato o quella che compare nel celebre manoscritto arnaldiano Vat. Lat. 3824, eseguito sotto gli occhi  dell’autore. I testi che non rientrano in tali liste e che sono stati attribuiti al medico di Villanova successivamente(a volte assai presto) hanno molto meno probabilità di essere autentiche: in particolare, Perarnau rifiuta la paternità dell’ Expositio super Apocalypsi, con una lunga e articolata riflessione. Valutando con grande dottrina e intelligenza l’Expositio, lo studioso catalano osserva che la paternità arnaldiana è indicata da un solo codice il Vat. Lat. 5740, che è più tardo di altri manoscritti, tra i quali vi è l’Ottob. Lat. 536,  contemporaneo o di poco successivo ad Arnaldo. La mancata indicazione del nome dell’autore in codici coevi  è piuttosto singolare per un personaggio come Arnaldo, che non perde occasione per sottolineare di avere scritto ogni sua opera.  Perarnau fa osservare, inoltre, che vi sono notevoli differenze tra il pensiero arnaldiano e il trattato in questione. Da ultimo, lo studioso catalano smonta brillantemente  un argomento usato per l’attribuzione, mostrando, testi alla mano, che la profezia di una  supremazia del re di Sicilia non puo’ assolutamente essere riferita a  Federico d’Aragona, ma va posta in relazione a Carlo II d’Angiò. Di conseguenza il trattato deve esere stato scritto da un suddito di Carlo d’Angiò .

 Alle posizioni di Perarnau fa eco il Mensa i Vall, che non accetta l’autenticità dell’Expositio, dopo aver condotto una serrata analisi dei passi escatologici sicuramente arnaldiani ed averli confrontati con i brani corrispondenti del testo discusso. Vi sono infatti molte  sia  nell’ interpretazione degli stessi passi della Bibbia , sia in quella  degli stessi  autori, sia nell’argomentazione complessiva.

Anche  Francesco Santi respinge l’attribuzione ad Arnaldo dell’opera e propone un’ipotesi alternativa: il carmelitano Gerardo da Bologna.  Questo personaggio, di cui peraltro si sa poco, fu vicino ad  Arnaldo ed al  papa Clemente VI ed aveva i requisiti  spiritualiadeguati per scrivere questo genere di opera. In particolare Santi sottolinea  che Gerardo aveva dimestichezza con la problematica dell’epoca sugli ordini militari riflessa nell’Expositio.

Di diversa opinione è invece Gian Luca Potestà secondo il quale la paternità arnaldiana dell’opera va mantenuta, come del resto quella di altri testi  come il Tractatus quidam o l'Expositio super XXIV capitulum Matthei, invitando  gli studiosi  a prendere in seria considerazione le attribuzioni di un autorevole  manoscritto dell’Archivio dei Carmelitani di Roma segnato III Varia 1. Secondo Potestà, fino al 1304 Arnaldo fu sotto la minaccia di essere dichiarato eretico: dopo questa data la tensione si allenta e l’autore puo’ dedicarsi alla composizione di opere che rispondono ad esigenze meno difensive: in quest’atmosfera certi temi come quello della venuta dell’Anticristo perdono importanza ed altri, come l’attesa del Papa Angelico, acquistano uno spazio  maggiore.

La divergenza di pareri tra gli studiosi ha alimentato una vivace discussione dopo le relazioni, nella quale ciascuno ha potuto ritornare sui problemi affrontati ed  ampliare ed arriccchire le proprie posizioni. Il dibattito è stato molto opportunamente riprodotto negli atti in appendice alle relazioni.

Nell’ambito della sezione dedicata agli scritti di  medicina  è stato affrontato il problema generale di stabilire un ‘canone’, come ha detto Lluís García Ballester, delle opere mediche arnaldiane. Allo stato attuale non è possibile pronunciarsi  in modo definitivo sull’autenticità del De morbo galenico, ma l’ipotesi più probabile, avanzata da Ballester, Salmón e Sánchez Salor è che il testo sia stato rielaborato da stretti collaboratori di Arnaldo, nell’ambito di un rapporto tra maestro e allievi che è alla base delle revisioni di molte altre opere dello stesso autore. Allo stesso modo Michael MCVaugh ritiene che l’Antidotarium e il De venenis siano stati riveduti, corretti e integrati da quel Petrus Cellerarius che figura nei codici come ‘editore’ dei testi arnaldiani. Questa figura svolge un ruolo analogo a quella dei fedeli collaboratori del maestro catalano che si assunsero l’onere della divulgazione dellesue idee e che collazionarono i codici delle sue opere prima di farli trascrivere da copisti di fiducia, inserendovi a volte brani estesi  come si vede nei ad esempio nei  manoscritti vaticani delle opere religiose di Arnaldo.  In tali interventi è difficile per noi comprendere con chiarezza dove finisce la correzione e dove comincia l’interpolazione: come ho avuto modo di scrivere altrove, in questi casi occorre parlare  della ‘bottega’ e  della ‘maniera’ di uno scrittore  come si fa  per un pittore, allargando il concetto tradizionale di paternità di un’opera.

Diverso è il caso di quelle opere che sono state ‘fabbricate’  da ambienti estranei all’autore, che pure si assumono il compito di interpretarne il pensiero: tale sembra essere stato il ruolo della corte di Renato d’Angiò  che contribuì alla creazione del mito di Arnaldo alchimista  e alla elaborazione di un nesso tra la speculazione religiosa di Arnaldo e l’alchimia.  In ogni caso, come ha sottolineato Michela Pereira, il corpus di scritti alchemici arnaldiani, sia esso composto di opere autentiche o di opere spurie, è comunque una rilevante fonte documentaria del mutamento dell’alchimia tra XIII e XIV secolo e un’importante testimonianza dell’influenza di Arnaldo e di come la sua figura ed il suo insegnamento sono stati recepiti dai contemporanei.

Ed è proprio riconsiderando la figura di Arnaldo nel suo complesso che il convegno si è concluso con una lunga relazione di Joseph Ziegler dedicata a quello che egli ha definito un po’ provocatoriamente: il ‘caso-Arnaldo’. Riformatore religioso, intellettuale inquieto, uomo di scienza, Arnaldo è un personaggio poliedrico, il cui elemento centrale sembra essere la sua stessa identità professionale di medico: medico dei corpi, ma anche medico dell’anima, egli propone ricette e cure per purificare gli uomini a lui coevi dai mali che li tormentano e che li riducono a condizioni disperate. Come Luca Evangelista, come Cosma e Damiano il medico-teologo catalano ha cercato di indicare agli esseri umani la via della salute che è contemporanemente materiale e spirituale. In questo sforzo risiede il valore più profondo del suo insegnamento.

Il lettore che si sente attratto da questo messaggio e dalla problematica che abbiamo sommariamente delineato troverà ampia materia di riflessione nelle ricchissime relazioni degli atti della Trobada. Ma prima di congedarci, vorremmo soffermarci un momento su un problema che è stato affrontato- come si è detto- da varie angolazioni: l’autenticità dell’Expositio in Apocalypsi. Ci sembra opportuno aggiungere un piccolo contributo a una discussione così interessante, lasciando al lettore il compito di valutare se le nostre osservazioni aggiungono qualche elemento utile. Esaminando il più antico codice del testo, Ott. Lat. 536. che viene da San Vittore di Marsiglia appare con chiarezza che le varianti e le aggiunte  scritte nei margini del codice dal copista e da un’altra mano dall’aria più antica, devono essere considerate ‘varianti d’autore’. Il trattato viene  infatti ampliato in qualche punto, con l’aggiunta di numerose righe(per es. alle cc. 1r; 37v; 84r; 98v). Vi sono inoltre tracce di una ‘revisione’ più minuta, poiché il copista sostituisce alcune  parole con sinonimi o con altri termini (per es. a c. 20r al posto confortat viene introdotto praeceptum; a c. 29r viene depennato quam opere e viene inserito probavi; al  60v viene depennato populus electorum; a  c. 96v: manifestatum viene depennato e sostituito con denunciatum; a c. 98r si passa da considerationis a intentionis e da transgreditur a transgressio). Le varianti  che abbiamo segnalato entrano a far parte della tradizione e si ritrovano nei codici più tardi, confermando che siamo di fronte a una ‘revisione d’autore’, che è divenuta canonica.  Tale ‘revisione’ è stata fatta a San Vittore di Marsiglia: infatti la mano più antica che ha ricorretto il manoscritto è la stessa che ha aggiunto dopo l’explicit un verso tratto dalla liturgia di San Vitttore che parla del santo e in quella posizione, il verso  assume quasi il significato di un ‘marchio di fabbrica’.

 Sembra certo, dunque, che il codice vaticano sia stato ricorretto dall’autore o da qualcuno che ha in mano la redazione definitiva dell’autore, in un periodo che è necessariamente a ridosso della data dichiarata per la sua composizione, il 1306. Con questa data, del resto, concorda pienamente la scrittura, un ibrido grafico molto particolare, che ricorre in altre testimonianze del sud della Francia, tra la fine del XIII e il primo quarto del XIV secolo(si vedano per esempio il Vat. Borgh. 85, c. 1r; il Vat. Lat. 3822, c. 1v; il Vat. Borg. 101). Ma ,  se è vero che si tratta di una copia databile intorno al 1306,  rivista dall’autore o rivista a partire da un manoscritto d’autore, la mancanza del nome dell’autore stesso diviene un vero enigma: non può certo essere imputata al caso e comunque non puo’ essere considerata una tipica manifestazione di Arnaldo. Come si è già ricordato,  questa prassi contraddice in modo palese ai comportamenti del grande intellettuale catalano, che non fa che proclamare di continuo la paternità dei suoi scritti, giungendo al punto di far autenticare da notai le sue dichiarazioni pubbliche in determinate occasioni.

Dobbiamo ammettere che siamo agli antipodi rispetto ad Arnaldo. E del resto a questa conclusione ci portano anche  i numerosi punti di discrepanza tra Arnaldo e l’Expositio messi in luce da Perarnau e Mensa. La conseguenza è una sola:  non possiamo accettare la paternità arnaldiana del testo.

 E tuttavia, anche se la strategia messa in atto da Arnaldo per difendersi dalle accuse dei suoi detrattori era l’opposto di quella praticata dall’anonimo autore dell’Expositio ed anche se molti passi mostrano divergenze di esegesi e di dottrina, vi sono anche parziali affinità tra il pensiero arnaldiano e quello di chi ha scritto il testo, come hanno mostrato da tempo gli studiosi e come è stato ribadito da Potestà: tutto ciò  testimonia almeno l’appartenenza ad  un’area comune.

Riassumendo si direbbe che l’autore dell’Expositio sia qualcuno che pur non essendo Arnaldo, non è del tutto lontano da Arnaldo; che sia qualcuno che è un suddito di Carlo d’Angiò, come ha osservato Perarnau; che sia qualcuno che  vive a Marsiglia, città in cui l’opera è stata composta nel 1306, in un’epoca in cui vi soggiornava anche  il maestro di Villanova. A me pare opportuno, di conseguenza, restringere la nostra attenzione alle cerchie arnaldiane marsigliesi di questi anni, per cercare di dirimere la questione della paternità.

 Sappiamo, grazie alla testimonianza del Vat. Lat. 3824, che Arnaldo fu aiutato ed accolto, al momento del suo arrivo a Marsiglia nel 1304 da quattro monaci di San Vittore che evidentemente agivano in sintonia con l’abate, nell’ambito di una intesa tra esponenti di ordini religiosi o di movimenti religiosi diversi, di cui ho messo in evidenza altrove il significato. Possiamo ipotizzare che il commento  scritto a San Vittore possa essere un’espressione di quest’intesa? Se le cose stanno così, il trattato sarebbe un prodotto di quel clima di fervida collaborazione tra Arnaldo e i vittorini di cui abbiamo esplicita testimonianza. Questa ipotesi trova una conferma, che ci pare  degna di essere presa in considerazione:  si tratta di un indizio, non di una prova definitiva, ma è un indizio che non puo’ essere trascurato. Uno dei  monaci che andarono da Arnaldo si chiamava  un Hugo di Nevers. Questo personaggio, del tutto sconosciuto,  potrebbe essere quell’ Hugo di Sanchio che viene ricordato dal Catalogo della Biblioteca di San Vittore del  1374  come autore di un Commento all’Apocalisse che sembra essere un prodotto ‘marsigliese’ e ‘vittorino’, dal momento che non ne abbiamo notizia altrove. Questo commento viene chiamato ‘Postilla’ come viene chiamata l’Expositio nel codice vaticano Vat. Lat. 1305(cfr. D. Willimann, The Library of St. Victor of Marseille, 1374,  in AA. VV., A Distinct Voice. Medieval Studies in Honor of Leonard E. Boyle, O. P., a cura di J. Brown-W. P. Stoneman, Notre Dame (Indiana), 1997, pp. 231-249, in particolare p. 240, n° 243: “Item postille fratri Hugonis de Sanchio supe Apocalipsis”).

 La ragione per cui Hugo di Nevers puo’ essere identificato con Hugo di Sanchio risiede nel fatto che Sanchio  puo’ indicare Sens-Beaujeu, un paesino nei pressi di Sancerre, a 40 km  ad ovest da Nevers oppure Sancy, chiamata  'Sanceius'nel  XIV secolo, a  25 km  ad est di  Nevers. Ambedue le cittadine erano nei domini dei Conti di Nevers che furono in seguito incorporati dai Duchi di Borgogna: esse erano dunque considerate cittadine del  nivernate, il ‘pagus nivernatis’, il territorio dei signori di Nevers e per questo motivo gli abitanti di queste due città si sarebbero definiti legittimamente e con orgoglio ‘nivernati’. Infatti l’appartenenza feudale   all’area di Nevers era l’elemento distintivo da rivendicare rispetto agli abitanti di altre regioni: in particolare va sottolineato l’essere ‘nivernate’ era molto più importante  dell’appartenenza alla diocesi di Bourges, dal punto di vista ecclesiastico, una diocesi che includeva una parte del ‘pagus nivernatis’ ed anche Sens-Beaujeu. I confini della diocesi, che peraltro  erano  instabili e variarono nel corso del tempo, non esprimevano in modo adeguato l’appartenenza degli abitanti alla realtà geo-politica della regione. Per secoli il vero confine tra il territorio di Nevers e quelli di altri signori e di altre città fu rappresentato dalla rete di cittadine disseminate lungo il  bordo sinistro della Loira, che comprendeva anche Sens-Beaujeu. Queste cittadine erano infatti disposte ai piedi di una catena di colline coperte da una fitta selva, che separavano fisicamente la società degli abitanti  della Loira, aperti al mondo grazie ai traffici sul fiume, con quella chiusa e isolata degli abitanti del bosco, in molti punti inaccessibile e popolato solo di animali selvatici. Ha scritto a questo riguardo autorevolmente M. Marion nella sua Histoire du Berry: 'cette séparation était jadis assez important pour que  ces hauters...et non pas le coursmeme  de la Loire marquassent la limite entre la diocèse de Bourges etcelui de Nevers...'(M. Marion, Histoire du Berry et du  borbonnais, Paris 1933, p. 3).

Hugo de Sanchio, fosse nato a Sens-Beaujeu o a Sancy, si sarebbe definito  comunque ‘Nivernate’  per  indicare la sua origine come Giordano Bruno che   non  esitava a dirsi Napoletano quando voleva ricordare agli altri di essere un cittadino del Regno di Napoli, pur specificando sottolineando di continuo  e con fierezza di essere nato a  Nola.

Se dunque è vero che Hugo di Nevers,  l’amico di Arnaldo, è Hugo di Sanchio, l’autore di un commento all’Apocalisse che non sembra aver avuto ampia circolazione,  si potrebbe pensare a lui come autore dell’ Expositio in Apocalpisi, un’opera che presenta alcuni temi riconducibili ad Arnaldo, come molti studiosi hanno sottolineato ma anche  molte divergenze rispetto  ad  altri testi dello stesso autore, come altri autorevoli studiosi hanno giustamente fatto notare. Se la nostra attribuzione è giusta si può comprendere melio anche il significato dell’omissione del nome dell’autore nell’incipit del manoscritto. Come si conviene all’umile membro di una comunità monastica l’omissione del nome è voluta per dare al testo il carattere di una Rivelazione, come viene esplicitamente detto alla fine: si suggerisce cioè che il vero autore è Cristo stesso che ha quasi dettato l’opera a un umile interprete del suo volere. In sostanza l’Expositio viene offerta ai lettori come un testo ispirato, che non può essere contraddetto che dai nemici di Cristo. L’omissione del nome dell’autore non ha comunque solo questa funzione, ma ha anche, indubbiamente,  un valore pratico: se i nemici di Cristo non sanno chi ha scritto l’opera non potranno perseguitarlo e solo in un ristretto cerchio di adepti il mistero sarà conosciuto. Silenziosamente l’ordine dei Vittorini si affiancava agli irrequieti francescani nell’opera di riforma della Chiesa, con lo stesso spirito con il quale negli stessi anni i cistercensi si affiancavano, in silenzio, agli stessi francescani con analoghi intenti. Il silenzio fu fecondo e permise ad opere condannate dalla Chiesa di circolare e fare nuovi seguaci in vista di un rinnovamento che alla fine fu possibile (cfr. M-P. Saci-F. Troncarelli, Dagli Spirituali agli Osservanti. La  circolazione di Gioacchino da Fiore e Pietro di Giovanni Olivi a Padova nel XIV secolo in corso di stampa su Scriptorium).

 



 
 
 
 
 
 
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