Nobile Marco ,
Recensione: ROLF KNIERIM, The task of Old Testament Theology. Substance, method and cases ,
in
Antonianum, 72/1 (1997) p. 133-135
.
Il presente libro si rivela opportuno in un momento nel quale, presi dalla vivacità dei dibattiti metodologici dell'esegesi, gli studiosi cercano talora di fare o di veder fare il punto della situazione. Questo vuol fare il K. con la sua raccolta di saggi. Gli studi provengono da circostanze di tempo e di luogo diverse, tuttavia, mantengono l'unitarietà del tema, che è quello di dare una risposta allo spinoso problema odierno riguardante l'impostazione di una teologia dell'Antico Testamento.
Il K. svolge il suo compito in due fasi. Nella prima, egli affronta la problematica in generale («Il compito della teologia dell'AT», «L'interpretazione dell'AT», «La rivelazione nell'AT», «Cosmo e storia nella teologia d'Israele»), nella seconda, invece, verifica la criteriologia difesa nella prima parte, nella trattazione di tematiche particolari, quali «Cibo, terra e giustizia», «Speranza», «Spiritualità», «Composizione del Pentateuco» (studio notevole), ecc.
Fondamentale è l'inchiesta raccolta nella prima parte, che è appunto il titolo all'intero libro: «Il compito della teologia dell'AT». Il K. è conscio della specificità e della complessità dell'AT e, conseguentemente, lo è al riguardo del problema che oggi più che mai pone la serie di criteri da seguire per scrivere una teologia vete-rostestamentaria. I testi dell'AT non danno immediatamente un'unica teologia, bensì diverse teologie, così che si ha da tener conto di tale pluralismo concettuale, allorché si fonda una criteriologia. A questo dato si aggiunge subito il fatto storico-culturale e religioso che l'AT non è solo la Scrittura dei cristiani, ma anche degli ebrei; una conseguenza importante di questo stato delle cose, cioè pluralismo concettuale e natura delle Scritture ebraiche, è che una teologia dell'AT deve studiarle per il loro valore intrinseco e autonomo, ancor prima di considerarle la premessa del NT. Bisogna dire che il K. imposta correttamente e con molta sensibilità, acuita da una lunga esperienza di studio, lo «status quaestionis». Come risponde a tali sfide? Anche le sue risposte sono, prima di ogni considerazione di merito, degne di rispetto, perché mostrano coraggio, provocatività e una non comune abilità nel conciliare la scienza con la prassi. Le risposte del K. al problema assegnatosi, sono però a tutta prima sorprendenti e, via via che le si legge, lasciano anche fortemente perplessi. Egli afferma che di fronte al pluralismo teologico intratestuale, si dovrebbe cercare una gerarchia di sistemi, che riescano ad armonizzarsi nell'alveo di una categoria onnicomprensiva in cima a detta gerarchia (ahi, ahi! Il criterio del concetto di base onniesplicativo, alla W. Eichrodt, viene criticato dal K., ma lui vi ricade). La categoria concettuale dovrebbe essere l'universalismo della signoria di Dio sul creato. Sulla base di tale categoria, lo studioso dovrebbe procedere ad indagare gli aspetti «quantitativi» e «qualitativi» del dominio universale di Dio. I primi riguarderebbero i tre ambiti della realtà (realms): la natura, la storia nelle sue componenti sociali e l'esistenzialità, intesa come rapporto con l'individuo; i secondi, cioè gli aspetti qualitativi, si concentrerebbero in due concetti, giustizia e rettitudine (justice and righteousness).
Certamente, è lecito impostare questa criteriologia, specialmente come alternativa sapiente al superadoperato concetto onnicomprensivo ed esclusivo di «storia della salvezza», quale base per discutere una teologia veterotestamentaria. Tuttavia, sono molte le osservazioni critiche che inevitabilmente essa si attira, come mostrano le ben argomentate risposte, riportate nel libro, di W. Harrelson («la teologia dell'AT ha un compito ben preciso e limitato, rispetto a quello di egual peso degli altri rappresentanti della ricerca biblica: complessità della realtà testuale versus il bisogno di sistematicità e di semplificazione di una teologia»), di W. Sibley To-wner («in particolare, il sistema creazionale del K. non tiene conto dell'altrettanto fondamentale aspetto escatologico che attraversa e anima i testi biblici») e di R.E. Murphy («la base criteriologica del K. è gratuita»). Quel che colpisce di più nella proposta del K. sono soprattutto due punti: 1) come si fa da un lato a proclamare di voler rispettare l'autonomia e il pluralismo dell'AT e, dall'altro, ad escogitare una categoria di base che sconfessa tale intenzione? 2) Chi o che cosa e in base a quale criterio decide la gerarchizzazione dei contenuti teologici? Il criterio protestante del «sola Scriptum» e quello del «canone nel canone», che il K. difende in altro luogo («The interpretation of the Old Testament»), ha attinenza con un dato dogmatico e con un atto di fede pregiudiziale e si rivela perciò problematico in una ricerca fondata sull'argomentazione razionale. Vero è che una componente essenziale della ricerca teologica, in quanto tale, è l'atteggiamento ermeneutico, che implica un'operazione selettiva e orientativa dello spirito; tuttavia, proprio questo dovrebbe decretare la «nudità» di qualsiasi indagine umana, cioè la sua relatività, filosoficamente parlando, o la sua opzionalità, teologicamente intesa, come cioè una caratteristica derivante dalla cogenza di un previo atto di fede (si veda la teoria di B.S. Childs circa una teologia dell'AT in contesto canonico).
Il K. ripropone i suoi criteri in tutti i saggi del libro con coerenza, ma mai in maniera pedante e scontata. Le perplessità che egli suscita, nascono dal coraggio della provocazione e dalla ricchezza della sua esperienza di ricerca, che invitano il lettore ad un profondo e coinvolgente confronto, con un linguaggio chiaro e preciso. Il traguardo, proposto dalla tematica, è raggiunto. Il K. imposta con cognizione di causa le coordinate con le quali ci si deve oggi misurare, quando si aggredisce il problema di una teologia dell'AT.
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