Inizio > Pubblicazioni > Toaff Giovedì 21 novembre 2024

Informazione sulla pubblicazione:
Giornata di studio della Facoltā di Teologia. Dialogo ebraico-cristiano: Rabbino Dott. Elio Toaff: Ereditā storica dell'ebraismo

 
 
 
Foto Toaff Elio , Giornata di studio della Facoltā di Teologia. Dialogo ebraico-cristiano: Rabbino Dott. Elio Toaff: Ereditā storica dell'ebraismo , in Antonianum, 71/1 (1996) p. 166-173 .

Il tema che mi sono proposto di definire: che cos'è l'ebraismo, non può essere affrontato come un altro tema qualsiasi, perché l'ebraismo è una dottrina che, partendo da un preciso momento si è sviluppato nel tem­po attraverso tre rivelazioni e tre patti che Dio ha fatto con gli uomini: il primo con Noè, il secondo con Abramo e il terzo con Mosè.

Il primo riguarda tutta l'umanità ed è stato fatto all'indomani del Di­luvio, il secondo con colui che per primo aveva concepito l'idea dell'esi­stenza di un Dio unico e, finalmente, il terzo con tutto il popolo d'Israele ai piedi del monte Sinai.

Per poter definire l'ebraismo bisogna dunque andare molto lontani nel tempo fino ai tempi di Abramo.

Egli è infatti il fondatore dell'Ebraismo e niente del suo insegnamento si è modificato o è andato perduto nel corso dei secoli e dei millenni. La religione di Abramo è la stessa di Mosè e del popolo ebraico fino ad oggi.

La prima grande intuizione di Abramo fu l'esistenza di un solo Dio, creatore del cielo e della terra. È con lui che il monoteismo puro si diffon­de nel mondo e diviene retaggio del popolo ebraico prima, e di una mol­titudine di popoli in seguito. La rivelazione di Dio ad Abramo avviene solo quando egli lo ha scoperto e si è dedicato completamente a lui con tutto il suo cuore e tutta la sua fede. Una fede che non è mai scesa a compromessi e che gli ha permesso di affrontare le prove più difficili e le più incredibili. L'elezione di Abramo si deve proprio alla sua fede illimitata, totale, che lo spinge a seguire il comando del suo Dio a qualunque costo.

Basterebbero per dimostrarlo tre soli esempi.

Abramo viveva in Haran con suo padre e con sua moglie, senza figli in un ambiente certamente non favorevole alla diffusione dell'idea monotei­stica, ma nel quale vive agiatamente e senza preoccupazioni. Ad un certo momento - perché egli potesse diffondere la credenza nel Dio unico nel mondo - il Signore gli comanda di abbandonare il suo paese, la casa pater­na e di andare verso l'incognito, verso una terra che Dio gli avrebbe mo­strato, ma che non gli dice quale sarebbe stata.

Abramo sapeva che, rimanere nel paese dove aveva vissuto fino ad al­lora, non era conciliabile con la sua fede, e in lui si era rafforzata l'Aspi­razione ad andarsene. Il comando del Signore gli giunge quindi gradito ed egli lo accoglie anche se non sa dove lo condurrà e che cosa troverà in quel paese che Dio ha scelto per lui e per la sua discendenza. La fede lo sostiene, al comando di Dio si deve obbedire, ciò che egli comanda è solo per il bene. E così abbandona tutto per andare verso l'ignoto con la moglie Sara e il nipote Lot insieme alla famiglia, fiducioso nella promessa che gli era stata fatta: « Farò di te una grande nazione, rendere grande il tuo nome, sa­rai una benedizione ... saranno benedette in te tutte le famiglie della terra ». Il secondo esempio lo possiamo ricavare da quest'altro episodio: il Si­gnore si era rivelato ad Abramo dicendogli: « Non temere Abramo, Io ti sono scudo; la ricompensa che riceverai sarà grandissima.

E Abramo: Signore Iddio, che cosa mi darai? Io sono solo: provvedi­tore della mia casa è Eliezer di Damasco. Poi soggiunse: non mi hai dato prole, il mio domestico sarà il mio erede ».

È un dialogo che ci fa intravedere Abramo e Sara ormai vecchi e soli nella loro casa, con un servo che si occupa di loro, sfiduciati di poter an­cora aver una discendenza e quindi tristi e delusi. Questo spiega la reazio­ne di Abramo quando Iddio gli disse che avrebbe ricevuto una grandissima ricompensa: « Che cosa mi darai? » egli dice, « io sono solo! » Il Signore allora lo fece uscire all'aperto nella notte stellata, gli fece alzare gli occhi al cielo e « Osserva il cielo e conta le stelle - se puoi contarle ... cosi nume­rosa sarà la tua discendenza ». Qual è la reazione di Abramo a questa im­possibile promessa? « Credette a Dio e Dio glielo considerò atto di mise­ricordia ». La gioia subentra alla tristezza e la speranza rinasce salda nel suo cuore. La fede di Abramo, che è sicurezza che la promessa verrà man­tenuta, diventa fede, quella fede che si può imparare in tutte le altre pagine della Bibbia. Credere vuol dire - secondo la Bibbia - attendere eventi buo­ni e giusti anche se al momento sembrano impossibili e sono contraddetti dai fatti. Questi eventi richiedono però saldezza di speranza e azione del­l'uomo che deve attuare il bene in cui crede e soffrire e sperare in vista di una meta, sia pur difficile e lontana, ma che ha la certezza di raggiungere. Questa è la fede che ebbe inizio con Abramo e che è diventata la fede del popolo ebraico.

Si legge nella Mechiltà che « Abramo nostro patriarca si guadagnò questo mondo e il mondo futuro come premio per la sua fede ». Egli cre­dette nell'impossibile: egli, sapendo che Dio aveva creato dal nulla l'univer­so intero, capì che avrebbe potuto assai facilmente creare da lui e da Sara, ormai vecchi e isteriliti, una discendenza destinata ad un grande avvenire. Dalla visione dell'infinito cielo stellato, Abramo riattinge la fede nella vita, nella continuità della vita, in un avvenire miracoloso. Questa fede è stata presa a modello dal popolo ebraico che ha mantenuto vivo l'insegnamento abramitico, avendo fiducia nelle situazioni più tristi e più tragiche, in un av­venire felice e fecondo, nel miracolo della resurrezione, nel prodigio della sua continuità. Gli è bastato alzare gli occhi al cielo in un notte stellata.

Finalmente il terzo esempio di fede eroicamente eccelsa lo abbiamo nel momento in cui il Signore, volendo avere una prova definitiva della sua obbedienza, decise di sottoporlo ad una prova tremenda che forse sarebbe riuscita a scuotere la sua fede. Infatti gli disse:

« Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che tanto ami, Isacco, vai alla ter­ra di Moria e là offrilo in olocausto su uno dei monti che ti dirò ». Abramo non risponde, tace ma obbedisce.

Il dramma di Abramo, ha scritto Remo Cantoni, è un dramma privato che ha come Protagonisti l'interiorità nascosta del Patriarca e il comanda­mento di Dio: Non vi sono testimoni, non vi sono giudici che possano in­terloquire nel dialogo solitario che ha luogo nella coscienza.

Abramo non può parlare - afferma Kirkergaard - e proprio in questa impossibilità sta la sua sofferenza e la sua angoscia, perché la parola con­forta, il silenzio acuisce il dolore. Non a caso il sacrificio di Isacco è preso come motivo fondamentale nella liturgia del Capodanno ebraico. Attraver­so la fede di Abramo e la sua devozione spinta fino al limite massimo, na­sce il concetto del merito dei Patriarchi, inteso come efficace mezzo di sal­vezza e di perdono per i loro discendenti. Il sacrificio del figlio fu l'ultima prova alla quale il Signore lo sottopose. Dopo di essa gli dette la pace e la tranquillità, come premio per la fede e per l'amore che gli aveva dimostra­to. È da domandarsi infatti come avrebbe potuto superare quelle prove se ogni dubbio, ogni incertezza sulla bontà e sulla giustizia di Dio non fossero stati fugati dall'amore e dalla certezza che solo l'obbedienza, fortificata dalla fede, poteva essere opposta al mistero della bontà divina.

La vita di Abramo non fu certo facile né felice. Fu sottoposto ad una serie di prove una più difficile e dolorosa dell'altra, oltre le quali si intra­vedeva solo una speranza remota, una realtà fatta solo di sogni e di lotte. Quello che egli possedeva era soltanto l'idea di Dio per la quale valeva la pena affrontare ogni sacrificio e ogni avversità e la certezza che prima o poi la promessa fattagli da Dio in una notte stellata, che quella terra dove si trovava sarebbe stata data ai suoi discendenti in retaggio eterno e che es­si sarebbero stati insieme a lui di benedizione per tutta l'umanità, si sareb­be finalmente avverata.

Abramo nella storia dell'umanità è rimasto, malgrado la nobiltà dell'i­dea che portava nel mondo, un semplice uomo. Il popolo ebraico che da lui discese, non ha ammantato la sua figura di un'aureola di gloria o di eroi­smo o di semi-divinità, ma lo ha presentato come un uomo con tutti i pregi e con tutti i difetti che aveva, con le sue virtù e le sue debolezze. Egli è vis­suto ed è morto come un uomo qualsiasi e suo figlio Isacco, annunciato da­gli Angeli ai suoi genitori, quando non avevano più speranze di progenie, e scampato per miracolo al sacrificio sul Monte Moria, non ha storia.

Sullo sfondo di questa annunciazione angelica rimangono solo il riso incredulo e poi il pianto di Sara e la gioia a cui segue la sofferenza, e l'e­roica fede di Abramo

Ma a quel popolo, che da esso è nato, è giunta la sua grande eredità ideale: una fede spinta fino al massimo sacrificio, una idea universale di giustizia, una concezione incontaminata del monoteismo assoluto.

È un'eredità che nessuno potrà mai togliere o negare al popolo d'I­sraele che nei lunghi secoli della sua storia ha dimostrato di non volerla ri­pudiare ma anzi di volerla tenere come un bene inalienabile per cui vale la pena di affrontare - come fece Abramo nostro padre - ogni prova per quanto dolorosa ed ogni avversità quando intravede all'orizzonte, sia pur lontana, quella benedizione per le genti vaticinata ad Abramo, che è l'alba della redenzione universale, la pace e la giustizia per tutti, l'era messianica.

L'avvento di Mosè non aggiunge né muta niente alla vocazione di Israele. La religione di Abramo mantiene intatta la sua dottrina nell'inse­gnamento di Mosè. Da essere dottrina di una famiglia, di un clan, essa con Mosè diviene la religione di un intero popolo, che per invito divino accetta di diventare un « popolo di sacerdoti e una gente consacrata ».

La rivelazione sul Sinai e la promulgazione dei dieci comandamenti sono la consacrazione del popolo ebraico alla grande missione di concreta­re la spiritualità del mondo con la sua opera. La religione ebraica è la re­ligione dell'azione, non la religione del dogma o della teoria. Conoscere Dio non significa capirne intellettualmente l'essenza, ma seguirlo nelle sue vie, fare quello che egli comanda con devozione e dedizione assoluta. La religione deve essere vissuta. L'uomo può comprendere Dio solo attraverso l'azione. L'ebraismo si basa prima di tutto sull'azione e poi sulla fede per­ché l'azione è la vera dimostrazione della fede e dell'amore per il Signore.

Il concetto di fede dunque, secondo Mosè, non è diverso da quello di Abramo, né è diverso da quello nostro, nell'epoca in cui viviamo. È la cre­denza in un Dio buono e giusto, misericordioso e Santo che regge le sorti del mondo e degli uomini, premiando il bene e punendo il male ovunque si manifesti. Credere nella perfezione del Suo insegnamento, rivelato per es­sere di guida per il genere umano, incamminato sulla via della definitiva re­denzione. Questo vuol dire « fede » oggi e questo voleva dire fino dalle origini del mondo, quando il Signore si rivelò ad Abramo nostro comune Patriarca. Una osservazione dobbiamo fare subito. È chiaro che la fede non può essere fine a se stessa; essa deve ispirare il comportamento e l'azione del credente sì che non vi sia contrasto alcuno fra di loro, perché, se cosi non fosse, la fede diverebbe sterile ed inefficace strumento di redenzione.

Nell'ebraismo fede e fiducia si traducono con una sola parola « emu-nà » perché la fede, per l'ebreo, non ha significato dogmatico e confes­sionale, non esistendo nel Giudaismo una rigida professione di fede, né un sistema dogmatico con una elaborata struttura di dottrine atte a ga­rantire la salvezza.

« Nel Giudaismo la fede - diceva il grande filosofo ebreo tedesco Leo Baeck - non è altro che la viva coscienza dell'Onnipotente, il senso della vicinanza di Dio, della Sua rivelazione e della Sua potenza creatrice che si manifesta in tutte le cose. È la capacità dell'anima di percepire il perma­nente nel transitorio, il segreto nel creato. La parola biblica che indica fede designa l'intima salvezza e l'interiore pace, la forza e la costanza dell'anima umana ».

È chiaro quindi che la consapevolezza della vicinanza di Dio deve spingere ad agire ed a comportarsi secondo la Sua volontà, ad attuare le sue leggi, a rispettare le sue disposizioni. E forse questo spiega molto bene perché nella Bibbia si parli tanto poco di fede e si parli invece tanto delle azioni. La fede in Dio è valida e feconda - anche secondo le scritture -quando si appoggia alle buone azioni e quando il timor di Dio ispira, non solo buoni propositi, ma azioni e comportamenti giusti e onesti.

Per l'ebrasfmo quindi la fede senza le opere non è la sola garanzia di sal­vezza. Può godere della vicinanza del Signore solo chi possiede le più belle virtù umane e si comporta con giustizia e onestà verso il suo prossimo.

È comune insegnamento di Mosè come dei profeti e dei rabbini, che il « timor di Dio » è un elemento essenziale dello spirito, perché deriva dalla consapevolezza che ogni azione dell'uomo, ogni suo atteggiamento ed ogni manifestazione della sua volontà deve tener conto della onnipresenza di Dio intesa, non come potenza taumaturgica a cui è sufficiente rivolgere il pensiero per ottenere la grazia, ma come la coscienza delle coscienze, co­me il custode geloso dei valori morali, come il giudice infallibile degli uo­mini. È evidente che risulterebbe impossibile sentire Dio sempre presente, stargli davanti in devota venerazione e non aver fede in Lui.

Quando il Levitico ammonisce: « Non maledire il sordo, non metter inciampi davanti al cieco, ma temi il tuo Dio » oltre al chiaro significato letterale i commentatori hanno trovato un altro significato figurato e cioè: Tu devi ricordare che, se anche gli uomini si mostrano ciechi davanti alla tua disonestà facendo finta di non vedere, anche se ti è concesso di com­portarti ignobilmente nei confronti di minorati inermi ed impotenti, ricor­dati che Dio ti vede, ti giudica e del suo giudizio devi temere.

È quindi evidente che il timor di Dio è un elemento insostituibile della fede perché spinge l'uomo ad agire rettamente e secondo giustizia.

C'è un versetto nella profezia di Habaquc, che mi pare riassuma bene quanto siamo venuti dicendo finora: « Il giusto vive per la sua fede ». Se è vero che la sua fede è quella molla che spinge l'uomo all'azione, è evidente che è premessa e garanzia di virtù, e quindi apre le porte della salvezza. In altre parole si può affermare che il giusto riesce a guadagnarsi la vita eter­na con la fede che lo spinge ad azione virtuose, alla realizzazione della pa­ce e della giustizia.

È, dunque, assodato che, senza la fede, l'uomo è soggetto a smarrirsi, ad uscire dalla retta via, ma ciò che gli dà la certezza della salvezza e della redenzione sono le opere; è il suo comportamento che riesce a salvarlo anche se la fede non è stata per lui l'unica molla che lo ha spinto sulla via del­la virtù. Certo, se un individuo riesce ad aver a suo favore sia la fede che le opere, è evidente che ha raggiunto il massimo grado della perfezione uma­na. D'altra parte occorre avvertire che nell'ebraismo, non ci sono dubbi in proposito: « l'azione non solo prevale sulla fede dogmatica e teologica, ma prevale altresì sulla Torà, la legge mosaica, che è l'insegnamento per eccel­lenza, la guida per l'esecuzione del proprio dovere e per la conoscenza del proprio destino, la parola divina rivelata ».

Per gli ebrei infatti la pratica del bene è superiore alla teoria del bene; fare è meglio che sapere e il sapere è cosa vana se rimane astratto e privo di attuazione.

Per concludere possiamo quindi affermare che, per l'ebraismo, la fe­de è un bene indispensabile, in quanto spinge ad agire nel senso voluto dal Signore, ed è pertanto strumento di redenzione e di salvezza. Ma non l'unico, perché se anche la fede non è salda, ma le azioni dell'uomo sono oneste, virtuose e giuste, esse divengono ugualmente suscitatrici di reden­zione e di salvezza.

Avendo questa fede, risulta facile al popolo assolvere il suo compito sacerdotale a beneficio del mondo. La legge di Mosè è la disciplina, la re­gola del popolo ebraico sacerdote dell'umanità. Essa si basa soprattutto sulla Kedushà, sulla santità, che deve essere l'elemento sempre presente nella vita degli ebrei a cui il Signore aveva detto: « Siate santi come Io sono santo, il Signore Vostro Dio ».

Dio, essendo santo in un senso assoluto esige naturalmente la santità del popolo che ha scelto. Ma come il popolo non può sperare di com­prendere i fini di Dio, così non può scegliere un suo proprio modo di santità. Per cui deve obbedire ai precetti che Dio rivelò a Mosè. In que­sto modo l'immagine di Dio che, secondo la Genesi, è in potenza nell'uo­mo, diventa l'immagine di Dio in atto: la somiglianza con Dio, che voleva dire capacità intellettuale, diventa perfezione morale; l'uomo diventa « santo », o spera a diventarlo, con la sua condotta retta e pura, con la sua moralità, cercando di percorrere le vie del Signore, cercando di spi­ritualizzare ogni sua azione, di far prevalere lo spirito sulla materia. Que­sta santità non era solo nobiltà morale, superiorità etica, ma era anche ogni altra specie di purità che può sembrare rituale o fisica, ma che in­fluisce grandemente sulla purità spirituale, che in ogni modo distingueva e teneva lontani gli ebrei dai costumi barbari, corrotti e primitivi, delle popolazioni idolatriche.

Per questo si considerava « santificazione » l'astenersi dal mangiare i rettili o altri animali che l'insegnamento divino indicava come impuri. « Non contaminate le vostre persone con alcun rettile, non vi rendete im­puri per mezzo di essi, perché Io sono il Signore Dio Vostro; santificatevi, siate santi perché Io sono Santo ».

Non si deve però trascurare il contenuto integrale, molteplice del con­cetto etico. Non si deve dimenticare che l'ebraismo non prescinde né dal­l'uomo fisico né dall'uomo sociale o politico, né dalla nazione, e tutti questi aspetti sono presi in considerazione anche nel caso della purità o della san­tità. Il loro rapporto con la santità divina è di ordine generale e non par­ticolare; l'uomo cioè aspira ad essere santo in ciò che gli consentito e si av­via ad un grado superiore di vita con i propri mezzi e secondo la sua natu­ra, rinunciando a tutti quei requisiti che costituiscono la sua struttura uma­na, in modo da avvicinarsi, per quanto gli è consentito alla irraggiungibile santità di Dio.

La santità è dunque un pregio particolare che non cade dal cielo come una grazia, ma deve essere conquistata.

L'elezione è condizionata, è una presunzione di capacità, tutta da di­mostrare, di essere in grado di conquistare la purità e la santità. E il mezzo per raggiungere questo traguardo è l'adempimento preciso, convinto e scrupoloso delle leggi morali, sociali, religiose contenute nella legge mosai-ca. I Rabbini hanno indicato una scala di virtù utili e necessarie per conqui­stare la santità. La prontezza nel compiere il proprio dovere, conduce alla scrupolosa esattezza dell'azione, questa, all'onestà incorrotta, che a sua volta porta alla rinuncia e alla purità, e finalmente alla santità.

L'ebraismo ha fede in Dio, ma ha anche fede nell'uomo e negli uomi­ni. Pertanto non fissa un cammino obbligato per la grazia o alcuna promes­sa che non sia quella di meritarsela.

Dio aiuta chi si aiuta, colui che ha già preso la via del bene e della san­tità. Dunque il terreno su cui germoglia la grazia è solo l'azione dell'uomo. L'uomo è quindi valorizzato, non è irrimediabilmente cattivo, incapace di rialzarsi con le proprie forze. L'ebraismo crede nella libera volontà e nella capacità di redenzione e di progresso dello spirito umano. L'uomo è libero di scegliere fra il bene e il male, fra la benedizione e la maledizione, fra la vita e la morte.

Il Signore ha esortato: « scegli la vita »! Dio stesso dunque aiuta l'uo­mo in questa scelta, in questa libera volontà di bene, perché Dio è pure in noi ed è Lui che dà la possibilità del successo e certamente non la nostra forza materiale. È lo spirito diretto del bene che vince, con l'aiuto di Dio, e non la forza del braccio umano. Senza l'aiuto di Dio la forza sola dell'uo­mo sarebbe impari al compito, ma l'aiuto può venire, soltanto dopo che noi abbiamo tratto dalla nostra anima la volontà e l'energia per realizzare e per raggiungere il bene.

Mosè ha dunque introdotto nella sua legge due elementi fondamenta­li: quello delle leggi morali, dei principi religiosi, del bene, della giustizia, della carità e della santità che già Abramo aveva tramandato ai suoi discen­denti e quello delle regole, dei precetti, del comportamento che deve esse­re alla base della vita e dell'azione del popolo ebraico.

Come abbiamo già detto, questo secondo elemento, la novità mosaica, è la regola del sacerdozio ebraico, un sacerdozio universale a favore di tutti i popoli e di tutte le genti. È attraverso la fedeltà a questa missione che si potrà realizzare il programma divino della redenzione, della restaurazione del Regno di Dio su tutta la terra.

L'ebraismo crede nella futura unità degli uomini, nell'azione del bene e cioè nel Messianesimo. Sono i giorni futuri del mondo, il mondo avvenire dell'umanità, nei quali regnerà il bene, la giustizia, la fratellanza e la pace.

L'ottimismo essenziale del pensiero ebraico, la fede in un Dio miseri­cordioso, in una fondamentale purità e capacità dello spirito umano ad ele­varsi, nel valore della vita, hanno dato ad Israele questa essenziale neces­sità: di credere che gli uomini possano un giorno, dopo le sofferenze e le cadute, dopo il lungo cammino per le vie del mondo, raggiungere con le lo­ro forze e con la loro fede la meta agognata. L'unità degli uomini non può essere un'idea astratta o filosofica; la terra non può essere eternamente un campo di lotte, di odi, di divisioni; l'umanità deve tornare ad essere una co­me Dio la volle.

Questo sogno è antico e fondamentale nel pensiero ebraico e, insieme col monoteismo spirituale, è forse il più bel dono di forza e di poesia che esso abbia dato agli uomini. La credenza ebraica in un Dio redentore dei popoli dall'oppressione e dalla schiavitù, sbocca nella credenza in un Dio redentore dell'umanità dalle sue colpe e dalle sue sofferenze.

Ma anche questa redenzione universale, come tutte le altre che debbo­no risollevare l'individuo, l'uomo singolo, le famiglie, non è una redenzione che viene dal di fuori, non è un prodotto della grazia, ma è prodotto dalla sofferenza, dalla passione, e dalla fede degli uomini.

E' una redenzione che gli uomini conquistano dopo una conversione reale, che rinnova tutto quanto il loro spirito. L'umanità alla fine dei giorni correrà al tempio ricostruito sulla collina di Sion, quasi in una passione di fede, per ricercarvi la parola del Signore. I popoli hanno spezzato le loro lance per farne delle vanghe ed hanno ridotto le loro spade in falci. Le na­zioni non alzano più le armi una contro l'altra e hanno cessato di imparare l'arte della guerra. Il lupo dimora con l'agnello, il leone pascola con il vi­tello e un bambino li guida. La terra è piena della conoscenza di Dio come l'oceano è pieno di acqua. Dunque lo spirito si è riversato sopra tutte le creature; l'umanità è una umanità profetica, anche gli schiavi e le schiave di ieri sono invasi dallo spirito del Signore. Israele, rinnovato nel cuore e nel­lo spirito, sarà il simbolo vivente della grazia di Dio e dell'osservanza della Sua legge.

 

 

 


 


 



 
 
 
 
 
 
Martín Carbajo Núñez - via Merulana, 124 - 00185 Roma - Italia
Questa pagina è anche attiva qui
Webmaster