Inizio > Pubblicazioni > de Agar Giovedì 21 novembre 2024

Informazione sulla pubblicazione:
Acta diei academici: L’accordo con il Brasile nel contesto attuale delle intese tra la Santa Sede e gli Stati

 
 
 
Foto de Agar José T. Martin , Acta diei academici: L’accordo con il Brasile nel contesto attuale delle intese tra la Santa Sede e gli Stati, in Antonianum, 86/3 (2011) p. 531-545 .

Il panorama concordatario nel quale viene a inserirsi l'Accordo con il Brasile può a buon ragione essere qualificato di rigoglioso. Soprattutto dopo il Concilio Vaticano II, il numero di concordati è andato crescendo in con­tinuazione1, peraltro in maniera parallela all'attività diplomatica della Santa Sede che oggi si estende formalmente a quasi tutti i paesi e alle principali organizzazioni internazionali implicate nella promozione dei diritti umani2.

Tuttavia, trattandosi di un Accordo americano, una costatazione viene spontanea ed è che questa fioritura sembra concentrarsi maggiormente sul continente europeo e comunque non è altrettanto rilevante nell'area latino­americana pur vantando essa una feconda storia concordataria. L'Accordo brasiliano che ci occupa in questa giornata di studio3 è il primo accordo generale con un paese americano dal 1980, allorché fu firmato un accordo internazionale simile con il Perù. Da allora le convenzioni tra la Santa Sede e ' paesi latinoamericani si sono limitate per lo più ad accordi circa l'attenzione religiosa alle forze armate. Anche il Brasile vanta un accordo in materia, risalente al 1989.

Vi sono tuttavia in quell'area molti paesi concordatari, tra i quali si an­noverano, oltre al Perù: Haiti (1860)4, Ecuador (1936), Repubblica Domi-nicana (1954), Venezuela (1964), Argentina (1966) e Colombia (1975). In questo quadro mi sembra che l'Accordo brasiliano porti una certa novità, anche perché esso è l'unico concluso dopo il 2000. Sarebbe dunque inte­ressante cercare di dare una risposta alla scarsa attività contrattuale che si constata. Ciò richiederebbe uno studio approfondito ed esteso ai vari paesi della zona, che forse nemmeno consentirebbe di dare una risposta univoca giacché - pur nell'omogeneità cui fa assegnazione l'aggettivo iatinoameri-cano' - ciascuno di essi ha una sua storia e versa in circostanze assai diverse. Da parte mia, avendo osservato che gli accordi menzionati muovono da una speciale considerazione della religione cattolica, posso soltanto azzardare che forse si trattava di superare il teorema secondo il quale gli accordi con la Chiesa debbano poggiare su una certa dichiarata cattolicità dello Stato, per cui laddove gli eventi storici lo avessero portato ad una scelta (forse allora conflittiva) di separazione, un ampio accordo con la Santa Sede fosse da ritenere incompatibile.

Altre voci più autorizzate della mia potranno dire se è questo il caso dell'Accordo brasiliano5, visto il riferimento finale (Art. 20) al Decreto 119A del 1890, (accolto nell'art. 19.1 della Costituzione del Brasile), che sancisce appunto la separazione fra Stato e confessioni religiose6; se così fosse, il no­stro accordo potrebbe servire a sgombrare da tale pregiudizio la strada della concertazione per altri Stati.

1. Dottrina e prassi concordataria. Lo sguardo storico

Ma è solo un'ipotesi: se qualcosa ho imparato interessandomi come stu­dioso dell'istituto del concordato (nel senso ampio di accordi tra la Sede Apostolica e gli Stati sullo statuto giuridico della Chiesa), è che i paradossi sono presenti nella sua storia come un'ombra; non di rado si è rilevata una grande differenza tra le discussioni (non diciamo le previsioni!) sulla dottri­na, il magistero e la prassi concordataria. Non che non vi sia una corrispon­denza fra questi piani (dottrinale, magisteriale e pratico), ma non sempre vi è stata fra loro sincronia o sintonia, a seconda dei casi; talvolta poi è stata l'esperienza a orientare la riflessione scientifica, come si vedrà.

Se ciò appare più evidente nel nostro campo che in altri, lo si deve al carattere strumentale e politico che, come qualsiasi altro trattato, possiede l'istituto del concordato.

I concordati nascono in epoca medioevale, appunto come ricorso al ne­goziato, alla contrattazione, per ridurre gli attriti e riassettare i rapporti tra potere politico e autorità ecclesiastica dopo un periodo di tensione. Ricor­diamo che quei primi accordi vennero appunto chiamati instrumenta pacis, concordine. Avevano un carattere più politico che giuridico; i più noti riguar­dano la lotta delle investiture7. Sono quelli che possiamo chiamare concordati ài crisi, che cercano il ritorno alla calma dopo la contesa.

Vi sono anche concordati di crisi alla fine dell'età moderna, benché con nuove caratteristiche, che tentano di porre rimedio, nella misura del possibi­le, alle conseguenze delle sbandate rivoluzionarie e di dare un nuovo assetto ai rapporti tra la Chiesa e gli Stati liberali, sorti dalle ceneri delle antiche monarchie e imperi assoluti. Il concordato napoleonico (1801) sarà il primo degli accordi che per alcuni segnano la nascita dei veri e propri concordati, superata l'epoca dei privilegi (come sarebbero da qualificare gli accordi con le potenze cattoliche tipici dell'età moderna8). Sulla scia di quello francese, lungo il secolo XIX i concordati si susseguono: molti di essi vengono stipula­ti con i nuovi Stati americani, combinando confessionismo e giurisdiziona-lismo in proporzioni e tonalità diverse a seconda del paese e del momento.

Nel frattempo, i cultori del diritto pubblico (statale ed ecclesiastico) avevano elaborato le loro teorie sulla natura e il valore dei concordati, che rispecchiavano puntualmente le loro contrapposte visioni sui rapporti tra lo Stato e la Chiesa: quella dell'assolutismo statale, che nei paesi cattolici risente della impostazione protestante e sboccia nelle diverse forme di regalismo, e quella della potestà indiretta della Chiesa nelle questioni temporali.

Entrambe le visioni, pur asserendo in partenza la sovranità e l'indipen­denza reciproche tra Chiesa e Stato, finiscono per dare al problema delle loro relazioni una soluzione subordinazionista, mosse da principi che venivano considerati intangibili, cioè la sovranità assoluta dello Stato e la plenitudo potestatis del Pontefice, supremo detentore dell'autorità ecclesiastica. In base a tali premesse, il concordato non poteva essere spiegato se non secondo le note dottrine curiale e legale, ossia come un mero privilegio ecclesiastico, oppure come una sorta di concessione amministrativa o statutaria secondo le dottrine statuali.

Per la scolastica dello iuspubblicum ecclesiasticum, che attraversa l'Otto­cento9 e arriva con Ottaviani fino all'ultimo concilio10, il concordato rappre­senta un ricorso estremo nei casi in cui lo Stato (cattolico s'intende, ma oggi va detto) non ottemperi ai doveri che tale qualifica gli impone, "utfiat debi-tum expacto, quoderat debitum ex iure divino"àlee il Cavagnis11; un rimedio più politico che giuridico, giacché gli impegni assunti dalla Sede Apostolica altro non sono che deleghe o privilegi.

Anche dalla sponda statale il concordato veniva considerato quanto meno inutile, dal momento che la libertà civile di culto doveva bastare alla Chiesa come alle altre confessioni. Entrambe le posizioni non sono che il risultato di un'idealizzazione del principio da cui rispettivamente partono, cioè che il fine dello Stato sia aiutare la Chiesa o l'ingannevole "Chiesa libera in libero Stato".

Non si può tuttavia affermare che il magistero e l'attività diplomati­ca pontificia abbiano seguito queste elaborazioni dottrinali. Già nel 1850 il Beato Pio IX deplorava l'inadempienza della convenzione con il Regno di Sardegna (1841) come violazione dello ius gentium12, né risulta che giammai la Santa Sede si sia ritenuta non vincolata dai patti sottoscritti oppure se ne sia dispensata, al contrario si fa sempre più esplicita la considerazione di essi alla stregua di trattati13.

Il Codex iuris canonici (1917) e l'Allocuzione In hac quidem di Benedet­to XV14 provocarono quella che è stata chiamata 'epoca dei concordati'15. Nel Codice la Chiesa non fece sue le tesi appena richiamate sui rapporti con gli Stati, mentre nel can. 3 riconosceva il valore dei concordati in vigore al mo­mento della promulgazione16. L'allocuzione concistoriale metteva alla base degli accordi che proponeva agli Stati (molti di essi di recente formazione) non la sua potestà indiretta o i suoi privilegi e nemmeno la condizione che fossero Stati cattolici, ma il rispetto della dignità e libertà della Chiesa. Più di 15 paesi siglarono concordati e accordi nel corso dei pontificati di Pio XI e Pio XII; fu allora l'esperienza concordataria a stimolare la riflessione scienti­fica, suscitando un rinnovato interesse degli studiosi per l'istituto. Così, fino agli anni '60, si svolse un ampio dibattito che ha sempre più evidenziato la natura prettamente contrattuale e internazionale degli accordi concordatari, seppur con caratteristiche proprie data l'indole di una delle parti e la materia di cui in essi si tratta; il che, come abbiamo visto, era già affermato nei testi concordati da molto prima. Come osserva II Prof. G. Catalano (recentemen­te scomparso, al quale voglio qui rendere omaggio), "la Santa Sede non ha atteso i deliberati del Vaticano II per accorgersi che la suapotestas indirecta in temporalibus sopravviveva soltanto nei manuali"17.

2. La svolta del Concilio Vaticano II e la successiva crisi concordataria

Ciascuno di noi ritiene l'epoca a lui contemporanea quanto mai signifi­cativa, anzi la più rilevante, il che è logico visto che è l'unica in cui viviamo. Pertanto, parlare di svolte storiche può risultare retorico: il loro numero è pari a quello delle generazioni. È comunque generalmente accettato che il Concilio Vaticano II abbia rappresentato una di tali svolte, come conferma la storia successiva, benché la sua attuazione non sia stata sempre corretta; ciò ha portato il Papa a parlare di due logiche interpretative opposte: quella della continuità e quella della rottura18.

Per il nostro tema l'assise conciliare rimane un punto di riferimento obbligato. E in essa che trovano spiegazione non solo l'esistenza del recente Accordo tra la Santa Sede e il Brasile, ma anche le basi su cui poggia, lo spi­rito che lo anima, le materie oggetto delle sue clausole.

Eppure bisogna ricordare, anche se brevemente, che anche per l'isti­tuzione concordataria il Concilio è stato — si potrebbe dire - segno di con­traddizione. Negli anni immediatamente seguenti, ebbe luogo una profonda discussione non già sui connotati giuridici dell'istituto, bensì sulla compati­bilità del medesimo con le rinnovate linee ecclesiologiche e la loro proiezione sui rapporti Chiesa-mondo. Si potrebbe affermare che lo scontro tra le due logiche cui ho testé fatto cenno ha avuto dei riflessi anche sulla nostra ma­teria.

Per svariate ragioni, non pochi esperti ritennero che dopo il Concilio l'esperienza concordataria si dovesse considerare esaurita19. Per alcuni di essi, la sostituzione dell'ecclesiologia tridentina con una riflessione sulla Chiesa che mette al centro la sua natura di comunità spirituale, decisamente diversa dalla società politica, farebbe sì che non si possa pensare a comuni interessi, men che meno a impegni giuridici di vertice, pena il ritorno a una deprecata era costantiniana, intrisa di confusioni, clericalismi e compromessi non più ammissibili20. Questa lettura marcatamente spiritualista del Concilio (che rispecchia le spinte antigiuridiche destatesi all'epoca) vede in qualsiasi forma di collaborazione tra lo Stato e la Chiesa un rischio per la sua libertà profetica21, dimentica della dimensione istituzionale che lo stesso Concilio assegna alla compagine ecclesiale che, per compiere la sua missione religiosa tra gli uomini, si serve anche di strumenti terreni (LG 8, GS 44), tra cui il diritto, quale garanzia appunto di libertà e autonomia nei rapporti con le altre so­cietà umane22.

Dietro analisi di questo tipo si scopre talvolta una lettura parziale della riflessione ecclesiologica conciliare; tuttavia, non v'è dubbio che tale libertà e autonomia non riguardano più la sola gerarchia, essendo ormai acquisito che la libertas Ecclesiae presuppone la partecipazione di tutti i fedeli alla sua missione23.

Per altri studiosi, l'apertura della Chiesa alla libertà religiosa e la crisi delle tesi del diritto pubblico ecclesiastico privava l'istituto concordatario del suo presupposto fondamentale, la cattolicità e il confessionismo dello Stato, dunque della sua stessa ragione d'essere. Difatti, la crisi ha avuto riper­cussioni su determinati concordati nella misura in cui questi poggiavano su principi ormai superati, che hanno dovuto essere modificati24; ma già prima del Concilio la Santa Sede aveva stretto accordi con paesi non cattolici e laici, persino comunisti e a maggioranza musulmana; il confessionismo non era nemmeno allora una premessa necessaria del concordato25.

Altri ancora vedevano i concordati di nessuna utilità dal momento che ormai la maggioranza degli Stati riconoscono e garantiscono la libertà reli­giosa e la autonomia giuridica delle confessioni, per cui gli accordi avrebbero una giustificazione residuale nei casi in cui tale autonoma garanzia non esi­sta26. Senza ignorare che, in molti Stati non concordatari, la Chiesa come le altre confessioni godono di sufficiente libertà, ciò non toglie che questa possa essere ulteriormente garantita in modo confacente alla fisionomia specifica del cattolicesimo, attraverso formali accordi istituzionali27. Anche i diritti umani sono garantiti nelle Costituzioni nazionali, e tuttavia la loro tutela a mezzo di convenzioni internazionali è sempre più in auge.

3. Linee guida dei rapporti Chiesa-Stato e concordati

Non è possibile ampliare ancora il resoconto di questo interessante di­battito che, per certi versi, riecheggia ancora nella dottrina ecclesiasticista. Ma, senza pretendere che vi sia un nesso diretto, sta di fatto che l'esperienza concordataria, malgrado le voci che - leggendo il Concilio Vaticano II - la davano per trascorsa, si è andata dilatando con vigore sempre nuovo28. Al contrario, si può ben affermare che sono stati proprio i documenti conciliari a gettare la basi dell'attuale fioritura concordataria, benché vi abbiano con­corso altre circostanze da parte civile.

Il Concilio, com'è risaputo, non si è espresso specificamente sui con­cordati, ma ha rinnovato i principi che ispirano i rapporti tra la Chiesa e la comunità politica25. Oggi questi si realizzano nella reciproca autonomia e indipendenza (in altri termini libertà della Chiesa e laicità statale), nella libertà religiosa, nella possibilità di una cooperazione a favore della persona e della società.

Vorrei adesso proporre qualche rapida osservazione a riguardo.

4. Indipendenza reciproca e collaborazione

Il principio di indipendenza, o di sovranità come anche si dice, nel pro­prio ambito non si può dire sia del tutto nuovo, anzi precede addirittura la nota formulazione gelasiana del dualismo (alla fine del sec. V). Tuttavia que­sto principio di autonomia è in sé ideale, in quanto sembra presupporre una perfetta esteriorità dei rispettivi campi o materie d'interesse. Quando è cosi, riconoscere l'autonomia e l'indipendenza, persino la sovranità di un altro nel suo campo non mi pone difficoltà fintanto quel 'campo' non è il mio; in effetti, sin dall'inizio dell'era cristiana, la distinzione Stato-Chiesa non è stata in realtà mai negata. Il fatto è che la Chiesa e lo Stato non sono esterni l'uno dall'altra: esiste un necessario intreccio tra di loro, da qui che alla distinzione (teorica) vada nella storia addossato un principio di articolazione, un criterio per determinare in pratica fin dove arrivano i rispettivi campi di azione, ed è qui che entrano in gioco i concordati.

La distinzione comunità politica-Chiesa è stata intesa lungo i secoli piuttosto come dualità di poteri, ciascuno dei quali intendeva stabilire a ogni costo l'estensione delle proprie competenze, quindi finiva per limitare quelle dell'altro, riducendo e talvolta annullando quella teorica indipendenza. Per dirla molto brevemente, in questa prospettiva pratica serve ugualmente a poco affermare "a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio", come dire "libera Chiesa in libero Stato".

Il Concilio Vaticano II sottolinea, invece della dualità di poteri, quella di società, di ambiti, campi e ordini. Tuttavia, la sua formulazione del duali­smo - secondo la quale "la comunità politica e la chiesa sono indipendenti e autonome l'una dall'altra nel proprio campo" - rischierebbe di essere altret­tanto teorica se non fosse perché in seguito si è messa la persona al centro dei loro rapporti di collaborazione: "tutte e due, anche se a titolo diverso, sono al servizio della vocazione personale e sociale delle stesse persone umane. Esse svolgeranno questo loro servizio a vantaggio di tutti, in maniera tanto più efficace quanto meglio coltivano una sana collaborazione tra di loro, secondo modalità adatte alle circostanze di luogo e di tempo" (GS 76c).

5. Concordati e libertà

Ed è qui che entra in ballo la libertà (soprattutto religiosa) della persona: è infatti questa libertà che esige dalla Chiesa e dallo Stato un'autolimitazione, il riconoscimento dei limiti del proprio campo, non già di quello altrui. La svolta è qui: il passaggio dalle competenze di ciascuna autorità ai diritti e alle libertà della persona. Non più Dio (al cui posto finisce per subentrare la Chiesa), né Cesare (dal momento che anch'egli vuole sempre spodestare Dio) ma l'uomo, unica vera immagine di Dio sulla terra, e la sua dignità.

Sono dunque i diritti della persona (precisamente la libertà religiosa e l'autonomia delle realtà temporali) che, nelle relazioni Stato-Chiesa, disegna­no come area di propria incompetenza quella che invece è il campo proprio dell'altra parte. La Chiesa "non vuole in alcun modo intromettersi nella di­rezione della società terrena" (AG 12), mescolarsi nel governo della cìvitas. Quest'ultima, a sua volta, si riconosce incompetente circa le convinzioni e le pratiche religiose dei cittadini e delle confessioni cui essi aderiscono.

In questa cornice trovano fondamento gli accordi tra la Santa Sede e gli Stati, e si fa per paradosso vera la frase del Cavagnis sopra citata "utfiat debi-tum expacto quoderat debitum exiure divino'' (naturale)3''. Non si tratta più (al meno in primis) di spartirsi sudditanze e competenze, di stabilire le frontiere fra due poteri con una sorta di actio finium regundorum come piaceva dire al d'Avack31 a proposito dei concordati, ma di trovare spazi di collaborazione a servizio della persona, nel rispetto della natura propria di ciascuna parte32.

Ciò che viene espresso con varie formulazioni nei preamboli delle con­venzioni, come avviene nel nostro Accordo, dove le Alte Parti affermano che "sono, ciascuna nel proprio ordine, autonome, indipendenti e sovrane" e in­tendono cooperare, nel rispetto della libertà religiosa, ciascuna sulla base del proprio ordinamento e secondo le rispettive responsabilità, all'edificazione della società e al bene integrale della persona.

Basti come esempio l'Art. 11 dell'Accordo in studio quando, in linea con molti altri, assicura l'insegnamento religioso, cattolico e delle altre con­fessioni nelle scuole pubbliche, avvertendo che ciò avviene nella libertà e parità confessionale e senza discriminazione di sorta. Non si tratta quindi di favorire il cattolicesimo, ma di un campo in cui la collaborazione si rende ne­cessaria, anche per l'impossibilità dei poteri pubblici di soddisfare altrimenti alla formazione integrale della persona33. E così per le altre materie.

6. Parti simmetriche e non

Oltre che i principi sui rapporti tra la comunità politica e la Chiesa, i concordati di ogni epoca rispecchiano altresì le circostanze storiche. Vorrei accennare a due elementi che, a mio avviso, incidono sulle caratteristiche e gli obiettivi dei moderni concordati. La prima è molto semplice, tanto da apparire scontata, e potrebbe venire formulata così: gli accordi concordatari si regolano sulla base del diritto internazionale. Non mi riferisco all'ormai superata disputa sulla natura internazionale o meno dei concordati, bensì al fatto che la Chiesa, pur essendosi richiamata da tempo alla loro qualità inter­nazionale, soltanto in tempi relativamente recenti ha dichiarato nei canoni che la sua attività diplomatica e pattizia si attiene alle regole del diritto inter­nazionale; in effetti i riferimenti a tale diritto dei can. 362 e 365 non trovano riscontro nel Codice del 1917, pur essendo questo stato promulgato dal Papa dell'Allocuzione In hac quidem (1915), che rilanciò l'istituto del concordato tra le due guerre mondiali.

Ora, se quanto testé detto fuga ogni dubbio che le Parti in un accordo agiscono su un piano di uguaglianza - cioè che Stato e Santa Sede sono sog­getti che trattano alla pari in diritto internazionale -, mi sembra anche fuor di dubbio che questa simmetria è limitata, poiché non si estende agli obiet­tivi, al contenuto e alle conseguenze dell'accordo stesso. E questo il secondo punto cui intendo fare brevemente cenno.

La Chiesa non è, come segnalato sopra, esteriore né simmetrica nei con­fronti della comunità politica: anzi, oggi essa vive e agisce all'interno di tale comunità (mentre non è più vero il contrario, giacché lo Stato non è più parte di una ideale christianitas). È la Chiesa ad aver bisogno di uno statuto giuridico civile, mentre lo Stato non ha bisogno di una legittimazione con­fessionale. Il titolo dell'accordo brasiliano esprime bene tale asimmetria: esso riguarda "lo statuto giuridico della Chiesa cattolica in Brasile".

È questo lo scopo al quale mirano attualmente i concordati, e più in generale gli accordi con le confessioni: disegnare una cornice giuridica stabile che garantisca ad esse, sulla base del principio civile di libertà religiosa, la possibilità di essere presenti e di svolgere le proprie attività all'interno delle circostanze concrete di un paese. Viceversa, essi non mirano più a riservare spazi di intervento dello Stato nella vita e nell'attività dei gruppi religiosi, tipico di un giurisdizionalismo ormai tramontato.

Per tale motivo, vedere gli accordi come simbolo di privilegio se non addirittura di sudditanza dello Stato nei confronti della Chiesa mi sembra segno di scarso realismo, dal momento che, nei fatti, si parte dal principio della prevalenza assoluta dell'ordine statale e dell'irrilevanza teorica nei suoi confronti degli ordinamenti religiosi. E su queste basi che si tratta poi di stabilire quando e come tali ordinamenti possano acquisire valenza civile, e ciò non in base a privilegi ma alle esigenze di libertà effettiva a cui lo stesso ordinamento civile intende rispondere. Ciò spiega il fatto che gli accordi contengano per lo più concessioni, diritti o facoltà in favore delle confessio­ni, e doveri o impegni per lo Stato34.

Ne consegue che l'attuale abbondanza di accordi concordatari risponda anche — a mio avviso — all'espansione e al consolidamento del sistema de­mocratico, che implica l'impegno a rendere effettivo il godimento dei diritti civili e sociali, tra i quali la libertà religiosa spicca ed assume il ruolo di simbolo e indice. Ciò ha fatto sì che molti dei paesi che di recente hanno avviato o proseguito un processo di normalizzazione democratica abbiano scelto di negoziare con le confessioni il loro status civile. Si può dire che così come, in altri tempi, il liberalismo indusse gli Stati a legiferare in maniera piuttosto unilaterale sul fenomeno religioso, l'affermarsi della democrazia e dei diritti civili sembra favorire il sistema concordatario, la bilateralità. Lo ha recentemente dimostrato la prassi dei paesi che si sono affrancati dal sistema socialista35.

7.1 concordati oggi

Come abbiamo visto, esistono concordati di crisi; regalisti e giurisdizio-nalisti nei quali le due autorità, ecclesiale e civile, ricadenti sugli stessi sud­diti, si spartiscono le competenze sulle cosiddette materie miste; tra questi vi sono anche quelli chiamati di amicizia (o di tesi), in quanto espressioni ideali della dottrina sullo stato cattolico36. Gli accordi attuali si possono qualificare come di libertà e cooperazione, nel senso che entrambe le parti intendono dare il proprio apporto al comune obiettivo del bene della persona e della società.

Qui bisogna insistere nel non identificare Stato e società. La collabo­razione dello Stato con i gruppi religiosi organizzati ha come premessa che questi godano di uno statuto civile adeguato, che garantisca loro di poter sviluppare il proprio operato specifico in libertà e sicurezza. Ciò senz'altro non richiede dallo Stato il ricorso al modello contrattuale; la via della concer­tazione presenta tuttavia alcuni vantaggi, tra cui l'adeguamento alle esigenze di ogni confessione37.

Ciò ha un logico riflesso nei sistemi concordati: il primo argomento da trattare è appunto lo statuto giuridico della Chiesa, sia che si tratti di concor­dati (Polonia 1993, Portogallo 2004), di accordi di carattere generale come quelli con i Lànder tedeschi38, oppure di intese specifiche più limitate39, che spesso precedono e preparano l'avvento di altri successivi accordi.

Il nostro accordo riunisce, a mio avviso, le caratteristiche di quelli che vengono definiti accordi generali o di base (dal 2000 in qua ne sono stati stipulati una quindicina), anche se in pratica sono abbastanza diversi fra loro. Non si tratta soltanto di accordi di massima: essi si occupano altresì delle principali materie di comune interesse, pur nella consapevolezza che alcune di queste potrebbero essere meglio sviluppate in accordi successivi. In proposito si osserva che l'Accordo brasiliano auspica o prevede due tipi di sviluppi negoziati: quello degli accordi di integrazione (ajustes) attraverso accordi complementari e quello delle intese (convènios) di esecuzione. I primi verranno eventualmente stipulati fra le Alte Parti Contraenti, le seconde fra le autorità pubbliche competenti e la Conferenza episcopale debitamente autorizzata dalla Santa Sede (Art. 18).

Di conseguenza, l'accordo oggetto del nostro studio si iscrive in un pa­norama concordatario che, attraverso varie vicissitudini, ha conosciuto una crescente attività da ormai quasi un secolo, se si tiene conto della cosiddetta rinascita dei concordati promossa da Benedetto XV.

8. Conclusione

Oggi come sempre il concordato (sia come sistema che nella sua at­tuazione riferita a un paese specifico) continua a essere oggetto di lodi e di critiche che, logicamente, rispecchiano le personali convinzioni di chi le so­stiene40. Taluni vedono ancora lo Stato come una sorta di apparato onnipo­tente e assoluto, pago della sua formale democraticità, isolato dalla società e impermeabile a essa, una sorte di voce di comando estranea e impassibile che regge dall'alto la vita della gente. Altri lo vedono piuttosto come una forza di coordinamento e di collegamento tra le persone e le comunità che compon­gono il tessuto sociale e al servizio di esse41. A mio avviso, la prima visione sottopone ancora la libertà e i diritti delle persone a una ormai usurata idea di sovranità, in base alla quale s'interpreta come un vulnus qualsiasi impegno con i sudditi; la seconda invece mi sembra vada al passo con i tempi.

C'è poi chi mescola ancora queste due visioni in una sorta di democrati­cità selettiva: così, mentre non trova difficoltà ad accettare il dialogo e la trat­tativa tra Stato e forze sociali varie, vorrebbe ergere una barriera invalicabile quando si tratta di dare spazio alla religione nella vita pubblica, opponendovi un'idea di laicità escludente (volta a confinarla nel privato), di fronte alla quale la libertà religiosa diventa semplice tolleranza, sopportazione. Una li­bertà religiosa che, dovendosi inoltre piegare ad una esasperata eguaglianza o ugualitarismo, finisce per favorire tutto tranne che la religione.

Da quanto ho detto potete a ragione dedurre che io sia un convinto fautore del sistema concordatario. Lo sono certamente e penso che esso vada esteso congruamente alle altre confessioni; tuttavia, mi preme ribadire il ca­rattere nettamente strumentale di tali accordi e il fatto che gli stessi risultati si possono ottenere per altre vie. Ma sono un assertore ancor più convin­to del primato della libertà, soprattutto religiosa, e ritengo che in questo campo, in sé cosi estraneo alle capacità pratiche dello Stato, il patto può assicurare l'effettività dell'affermazione conciliare: "all'uomo va riconosciuta la libertà più ampia possibile, e non deve essere limitata se non quando e in quanto è necessario" (DH 7). Tuttavia la libertà, come la verità e il bene, non si possiede mai definitivamente e va riconquistata ogni giorno.



 
 
 
 
 
 
Martín Carbajo Núñez - via Merulana, 124 - 00185 Roma - Italia
Questa pagina è anche attiva qui
Webmaster