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Informazione sulla pubblicazione:
Miscellanea: Né “ritorno” né “consenso differenziato”. A proposito di talune reazioni alla Dominus Jesus

 
 
 
Foto Garuti Adriano , Miscellanea: Né “ritorno” né “consenso differenziato”. A proposito di talune reazioni alla Dominus Jesus, in Antonianum, 76/3 (2001) p. 551-560 .

Summary: Drawing from certain criticisms of Dominus Iesus, the author demonstrates first how, on the basis of the phrase subsistit in of Lumen Gentium 8, the Declaration reasserts that there is only one Church of Christ, and it subsists in the Catholic Church. From this follows the recognition of the status as Churches, though wounded, of the Orthodox Churches, as well as the impossibility of such a recognition, in the proper sense of the term, of those ecclesial communities which derive from the Protestant Reformation. In both cases, though with different emphases, there is the problem of the ways and conditions necessary for the reestablishment of full communion.  The author concludes that, given the elements of truth and sanctification present in the above-mentioned Churches and ecclesial communi­ties, one cannot speak sic et simpliciter of their ‘return’ to the Catholic Church. But given the presence of true doctrinal divergences touching on matters of faith, the path of ‘differen­tiated consensus’ it is not a possibility either, since, while respecting legitimate theological pluralism, it does not lead to a common profession of faith in its integrity.

Dopo la pubblicazione, da parte della Congregazione per la Dottrina della fede, della Nota sulle “Chiese sorelle” e della Dichiarazione “Dominus Iesus” si è scatenata una campagna di reazioni critiche, rimbalzate come sul rullio del tam-tam in tutto il mondo, con slogans predefiniti e ripetuti, ancor prima che i battitori avessero trovato il tempo di leggersi i testi.

Al di là degli stereotipi sul tono e sul linguaggio astratto e dottrinario, sembrano meritare una considerazione approfondita le critiche che attingono problematiche dottrinali di fondo.

Limitandomi al campo ecumenico, vorrei precisare innanzi tutto che il problema viene sfiorato solo indirettamente: non si tratta infatti di testi destinati all’ecumenismo, ma interni alla Chiesa Cattolica. Nel contesto del Grande Giubileo la Congrega­zione ha ritenuto necessario rinvigorire i fedeli nella loro fede, richiamandoli ai principi fondamentali della dottrina cattolica su Cristo e sulla Chiesa. Solo di riflesso tale richiamo poteva risultare utile anche per preservarli dal rischio di perdere la propria identità cristiana e cattolica.

Un breve accenno si può fare alle accuse di inoppportunità dei due documenti, che avrebbero bloccato il dialogo ecumenico, anche perché non sarebbero stati tenuti presenti i risultati positivi finora raggiunti[1].

I punti nodali della critica riguardano però temi fondamenta­li di ecclesiologia, con evidenti riflessi in campo ecumenico. Sostanzialmente si tratta della ferita di cui, seppure con diverse accentuazioni, parla la Lettera Communionis notio riguardo alla ecclesialità delle Chiese ortodosse e delle Comunità cristiane nate dalla Riforma. In entrambi i casi, sempre con diverse accentuazioni, si pone il problema delle modalità e condizioni per il pieno ristabilimento della comunione. Come conseguenza, riaffiorano dunque gli annosi temi della cosiddetta “teologia del ritorno” e della natura del consenso cui deve portare il dialogo in materia dottrinale.

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Riaffermata solennemente l’unità e universalità del mistero salvifico di Gesù Cristo, la Dominus Iesus nella seconda parte passa a trattare dell’unicità e unità della Chiesa, istituita da Cristo stesso “come mistero salvifico”, nel senso che egli “continua la sua presenza  e la sua opera di salvezza nella Chiesa e attraverso la Chiesa”. Ne consegue “che deve essere fermamente creduta come verità di fede cattolica l’unicità della Chiesa”; infatti “come c’è un solo Cristo, esiste un solo suo Corpo, una sola sua Sposa: «una sola Chiesa cattolica e apostoli­ca»”[2]. Infine il testo, offrendo ancora una volta l’esatta interpretazione del “subsistit in” di Lumen gentium 8, conclude: “Esiste quindi un’unica Chiesa di Cristo, che sussiste nella Chiesa Cattolica, governata dal Successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui”[3].

La conclusione, per quanto dolorosa, è necessaria in un documento dichiaratamente di carattere dottrinale: “Le Chiese che, pur non essendo in perfetta comunione con la Chiesa Cattolica, restano unite ad essa per mezzo di strettissimi vincoli, quali la successione apostolica e la valida Eucaristia, sono vere Chiese particolari... Invece le comunità ecclesiali che non hanno conservato l’Episcopato valido e la genuina e integra sostanza del mistero eucaristico, non sono Chiese in senso proprio”[1].

E’ soprattutto quest’ultima conclusione che ha ferito i non cattolici, ma (per solidarietà) anche alcuni cattolici[2], ed è stata dichiarata semplicemente “deplorevole perché è un’uscita infelice ed è equivoca”[3] e, d’altronde, non fa che ripetere la posizione tradizionale della Chiesa cattolica, senza tenere in considerazione la più profonda comprensione raggiunta nel dialogo[4].

In effetti la dottrina tradizionale della Chiesa a questo riguardo, confermata dal Vaticano II, viene posta in questione specialmente nel dialogo ecumenico[5].

Sorprende però che, mentre si protesta per tale mancato riconoscimento di ecclesialità, si pretenda di poter partire da un diverso concetto di Chiesa e dalla non accettazione di essere Chiesa nel senso cattolico, rifiutando gli elementi - essenziali nella visione cattolica - della successione apostolica e del ministero petrino[6]. Si sarebbe pertanto sviluppato di fatto “un nuovo tipo di Chiese”, con una formulazione preferibile “all’alt­ra in cui si afferma che le Chiese uscite dalla Riforma non sono Chiese vere e proprie”, vere Chiese anche se mancano loro “elementi che sono essenziali per la concezione cattolica della Chiesa” Come sottolinea il Cardinal Ratzinger la pretesa di voler essere Chiesa “a proprio modo” è contraddittoria[1], assurda[2] e illogica[3]. Il dialogo, infatti, può essere autentico e proficuo solo se si parte dalla conoscenza esatta della posizione dottrinale del partner. In questo senso ancora una volta la Dominus Iesus ha avuto il merito di ribadire la dottrina cattolica, espressa dal Vaticano II il quale al riguardo, al n. 4 del decreto Unitatis redintegratio, parla esplicitamente di “Chiese e comunità separate”, distinzione ripresa sistematicamen­te dal successivo Magistero della Chiesa[4]. Lo stesso Cardinal Ratzinger così sottolinea la fedeltà al Concilio e al magistero: “Vorrei che non ci fosse bisogno di precisare che la Dichiarazio­ne della Congregazione per la Dottrina della Fede ha solo ripreso i testi conciliari e i documenti post-conciliari, senza aggiunge­re o togliere nulla”[1].

Non vi è dunque nessun motivo per sentirsi feriti od offesi, se la Chiesa cattolica non riconosce una ecclesialità del genere[2]. Un tale riconoscimento non può andare oltre ad una “concessione diplomatica”[3] per rispettare la necessaria parità nel dialogo.

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Strettamente collegate al riconoscimento dell’ecclesialità delle Comunità nate dalla Riforma si trovano le questioni del cosiddetto “ecumenismo del ritorno” e del “consenso differenzia­to”. Esse non sono minimamente accennate nella Dominus Iesus, che però è stata occasione per risollevarla, per indicare il giusto cammino da percorrere nell’ecumenismo[4], alla luce della novità apportata dal Vaticano II: “L’elemento decisivo dell’approccio ecumenico del concilio Vaticano II è proprio il cristocentrismo. Questa era una novità, poiché fino ad allora si partiva dalla Chiesa. Vigeva la concezione dell’ecumenismo del ritorno. In breve, si affermava che la Chiesa cattolica era la vera Chiesa di Gesù Cristo, per cui l’unità era possibile solo come ritorno degli altri Cristiani in seno alla Chiesa cattolica. Il concilio Vaticano II ha abbandonato questa impostazio­ne”[5]. Il fondamento di tale abbandono è costituito dalla scelta di Lumen gentium 8 della formula “subsistit in” in luogo di “est” per affermare una vera “realtà ecclesiale” al di fuori della struttura visibile della Chiesa cattolica, e dalla affermazione di Ut unum sint 15 che “oltre i limiti della comunità cattolica non c’è il vuoto ecclesiale”[1]. La conclusione è chiara: “Il fine dell’attività ecumenica non è quindi l’annessione delle altre Chiese, bensì la realizzazione della piena communio e della pienezza dell’unità, che non può essere una Chiesa unica, ma solo un’unità nella diversità”[2].

Occore però distinguere tra mancanza di “vuoto ecclesiale” e “ecclesialità”. La stessa Dominus Iesus riconosce che anche le altre “Chiese e comunità separate”, nonostante le loro carenze, “nel mistero della salvezza non sono affatto spoglie di signifi­cato e di peso”, in quanto “lo Spirito di Cristo non ricusa di servirsi di esse come strumenti di salvezza”[3].

Come già scrivevo in altro contesto[4], effettivamente il Vaticano II riconosce la presenza di elementi di santificazione e di verità nelle Chiese e comunità ecclesiali separate, che però sono “doni propri della Chiesa di Cristo”, la quale “in questo mondo  costituita e organizzata come una società, sussiste  nella Chiesa cattolica governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui”[5]. É vero dunque che tutti i battezzati sono “cristia­ni” e “uniti con Cristo”; ma sono pienamente incorporati a Cristo soltanto coloro che “accettano integra la sua [della Chiesa] struttura e tutti i mezzi di salvezza in essa istituiti, e nel suo organismo visibile sono uniti con Cristo - che la dirige mediante il sommo pontefice e i vescovi - dai vincoli della professione di fede, dei sacramenti, del governo ecclesiastico e della comunione”[6]. La sostituzione di «est» con «subsistit in» ha dato “l’impressione che la chiesa desista dalla pretesa di essere l’unica vera chiesa di Cristo”; ma in realtà “è posssibile riconoscere qui non l’abbandono di questa pretesa, bensì un’apertura della chiesa alla particolare richiesta dell’ecumenismo e delle comunità ecclesiali separate”. In virtù degli elementi di santità e verità presenti in esse non si può negare loro “un certo carattere ecclesiale. Ma «ecclesialità» non è ancora «chiesa»[7].

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Il riconoscimento dell’ecclesialità delle Comunità ecclesiali nate dalla Riforma e il conseguente rifiuto della “teologia del ritorno” portano automaticamente alla domanda: “Chiedo solo: come Chiese dobbiamo concordare fin nei minimi dettagli su tutte le questioni teologiche? Non possono continuare a esistere, sulla base di un sostanziale accordo, differenze che sono teologicamen­te importanti, ma che non hanno necessaria­mente un carattere tale da dividere le Chiese? non basta un consenso differenziato, una diversità riconciliata o comunque la si voglia chiamare?”[1].

Ma altrettanto spontaneamente sorge un’altra serie di domande: come si deve intendere il consenso differenziato? o l’accordo sostanziale? O ancora l’unità nella diversità? Quando non si tratta più di “minimi dettagli” o di “questioni teologiche”, qual è il cammino che deve riproporsi il dialogo ecumenico?

Lo stesso Cardinal Kasper accenna all’ “unico «osso duro» che ancora permane” dopo la Dichiarazione congiunta sulla giustifica­zione, cioè “la questione della Chiesa e, in essa, la questione del ministero”[2]. In realtà la Dichiarazione, limitandosi ad un concetto astratto di giustificazione, si è accontentata di un semplice richiamo in nota alla questione della Chiesa, cui almeno in parte aveva accennato il Documento Chiesa e giustificazione della Commissione congiunta cattolico romana - evangelica luterana (1993). Pertanto il problema centrale della “sacramenta­lità della Chiesa in rapporto alla questione dell’unicità mediatrice di Cristo... continua a vedere contrapposte le due ecclesiologie: quella luterana della giustificazione per la sola fede, e quella cattolica della sacramentalità della Chiesa”[3]. Inoltre, occorrerebbe precisare meglio la “questione del ministero” parlando espressamente della questione del primato del Vescovo di Roma, comune denominatore di divergenza in tutti i dialoghi, sul quale  “finora non sono stati compiuti grandi progressi”[1].

Di fronte a questi problemi, che evidentemente non sono “dettagli” o “questioni teologiche”,  quale tipo di consenso ci si dovrà attendere dal dialogo futuro? E’ possibile che ciascuna parte si trinceri nella propria posizione, oppure tali verità fondamentali della fede cattolica dovranno in qualche modo essere recepite dai partner?

Indubbiamente il riconoscimento degli elementi di verità e di santificazione presenti nelle altre Chiese e Comunità ecclesiali non consente di parlare sic et simplicter di “ritor­no”. Anzi ci può essere un effettivo arricchimento reciproco attraverso lo scambio dei doni di cui anch’esse sono depositarie[2]. Resta comunque necessario che esse giungano alla pienezza di professione di fede e di comunione. Lo stesso Giovanni Paolo II, pur sottolineando la necessità dello scambio dei doni, non è meno esplicito nel sottolineare “le divergenze dottrinali da risolvere”, “vere e proprie divergenze che toccano la fede” e che “sono di ostacolo alla piena comunione dei cristiani tra di loro”[3]. Pertanto l’unità voluta da Dio “può realizzarsi soltanto nella comune adesione all’integrità del contenuto della fede rivelata”, poiché in materia di fede “il compromesso è in contraddizione con Dio che è verità”[4].

Soffermandomi in particolare sulla questione del primato, resto della convinzione che, a parte la doverosa ricerca comune di nuove forme di esercizio in risposta all’invito di Giovanni Paolo II, “finché non saranno affrontati e risolti [i problemi] di fondo della sua esistenza e natura, il primato continuerà ad essere il più grave ostacolo sulla via dell’ecumenismo”[1]. In questo caso non è sufficiente un “consenso differenziato”, ma è necessaria una accettazione completa di fede, perché si tratta di un elemento costitutivo della Chiesa. Quindi, pur con tutte le sfumature e con il riconoscimento dei valori di salvezza delle altre Chiese e comunità ecclesiali, si può e si deve parlare di “ritorno”, affinché “diventi possibile a tutti riconoscere il permanere del primato di Pietro nei suoi successori, i vescovi di Roma, e vedere realizzato il ministero petrino, come è inteso dal Signore, quale universale servizio apostolico, che è presente in tutte le Chiese dall’interno di esse e che, salva la sua sostanza di istituzione divina, può esprimersi in modi diversi, a seconda dei luoghi e dei tempi, come testimonia la storia”[2]. Non è sufficiente riconoscere nel ministero petrino semplicemente un punto di riferimento o un portavoce[3]

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L’imperativo del dialogo ecumenico resta un cammino irrever­sibile per la Chiesa Cattolica. La Nota sulle “Chiese sorelle” e soprattutto la Dichiarazione Dominus Iesus, lungi dal costitu­irne un ostacolo, hanno offerto ai Cattolici sicuri punti di riferimento perché esso possa svolgersi in maniera costruttiva e feconda, e portare ad una comune professione di fede nella sua integrità e alla piena comunione, pur nel rispetto del legittimo pluralismo e nel riconoscimento dei doni propri di ciascuna Confessione. Ciò non significa un semplice “ritorno”, ma neppure un vago “consenso differenziato”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 



 
 
 
 
 
 
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