È stato dedicato a “La vita e la testimonianza dei cristiani sulla penisola araba” l’incontro conclusivo del ciclo di conferenze promosso dalla Cattedra di spiritualità e dialogo interreligioso “Mons. Luigi Padovese” e dall’Istituto francescano di spiritualità della Pontificia Università Antonianum, dedicato al 25° anniversario dello storico incontro di Giovanni Paolo II ad Assisi con i rappresentanti delle altre religioni. L’appuntamento si è svolto a Roma, martedì 27 marzo, presso lo stesso Ateneo.
La forza della testimonianza. Il ciclo di conferenze, aperto da mons. Mariano Crociata, segretario generale della Cei, si è chiuso, come ha spiegato fr. Paolo Martinelli, preside dell’Istituto francescano di spiritualità, introducendo l’incontro, “con una testimonianza: quella dei cristiani sulla penisola araba”, attraverso la voce di mons. Paul Hinder, vicario apostolico dell’Arabia del Sud (che comprende Emirati Arabi Uniti, Oman e Yemen). “La parola ‘testimonianza’ – ha sostenuto il preside – è quella che ci sembra più appropriata per riassumere il senso dello Spirito di Assisi. La verità di Dio si dà nella storia e nella cultura attraverso la testimonianza; la quale non è affatto una forma debole di comunicazione, ma il modo con cui Dio stesso ama la libertà dell’uomo, fino a esporsi alla possibilità del nostro rifiuto”. Fr. Martinelli ha ricordato, poi, che il 5 giugno sarà presentato un libro di omelie e lettere pastorali di mons. Padovese del suo periodo di episcopato (2004-2010).
Una Chiesa giovane e vitale. “Mentre molte Chiese orientali nelle loro zone di origine dall’Egitto fino all’Iraq, hanno sempre meno fedeli, nei Paesi del Golfo persico si è venuta formando una Chiesa di migranti, giovane, vitale, ma strutturalmente debole”, ha raccontato mons. Paul Hinder. Il numero complessivo di questi fedeli “dovrebbe essere di circa il 50% di tutti i cattolici che risiedono nel Medio Oriente. Di essi fanno parte fedeli di più di cento nazioni, di innumerevoli zone linguistiche e di differenti riti. La quota dei fedeli di rito latino dovrebbe essere almeno dell’80%”. “Spesso non si considera che i fedeli della Chiesa dei migranti degli Stati del Golfo fanno una nuova esperienza di fede e di Chiesa”, ha sottolineato il vicario apostolico. “Anche quando la pastorale nell’ambito delle strette limitazioni, che prevalentemente sono stabilite dalle leggi del Paese relativo, cerca di tenere presenti le esigenze dei fedeli di differenti tradizioni, culture e lingue – ha chiarito –, è inevitabile una certa mescolanza e livellamento delle culture religiose”. In questo c’è “anche la possibilità di superare i limiti etnici, razziali e linguistici e di crescere dentro una nuova identità realmente cattolica. Per questo possiamo addirittura considerare una Chiesa di migranti quale quella del Golfo come una specie di laboratorio di come la Chiesa può crescere e prosperare in un ambiente dove ci sono soltanto poche solide strutture ed esiste soltanto una labile sicurezza sociale e politica”. Nei sette Paesi della Penisola arabica per circa tre milioni di fedeli cattolici ci sono una novantina di sacerdoti, perciò il vicario apostolico ha voluto evidenziare “il forte impegno dei laici, uomini e donne” nella catechesi dei bambini, negli incontri di preghiera nei “Labour-Camps” (complessi residenziali dei lavoratori stranieri), nelle visite negli ospedali e nelle prigioni, nell’assistenza spirituale ai marinai, nella vita parrocchiale.
La grande sfida. Malgrado il peso della storia e la mancanza di eguaglianza di diritti, “le relazioni fra cristiani e mussulmani sono caratterizzate anche da reciproco rispetto e dall’impegno e la comprensione nei problemi della convivenza concreta. Ci sono iniziative di dialogo interreligioso in diversi Paesi e a differenti livelli”. Ma, ha ammesso mons. Hinder, “la mancanza di un autentico rapporto fra eguali rende spesso difficile, se non addirittura impossibile, un serio dialogo alla pari. D’altra parte nella convivenza quotidiana e nella ricerca di superare i problemi comuni ci sono sufficienti punti di contatto per coltivare il dialogo della vita. Le sfide morali, economiche, politiche e culturali sono poste a tutti: cristiani, mussulmani e membri di altre religioni”. Nei Paesi arabi dell’Africa del Nord e del Medio Oriente si sta anche vivendo un tempo di radicali cambiamenti. “Proprio perché in diversi Paesi ai cristiani non è riuscito tenersi sufficientemente a distanza dal relativo sistema politico – ha avvertito il presule –, esiste il pericolo che dopo un rivolgimento politico siano chiamati a rendere conto e debbano subire ritorsioni. Per cui le Chiese del Medio Oriente necessitano della fraterna solidarietà di tutta la Chiesa cattolica per non sprofondare nel circolo vizioso degli scontri politici della regione e nelle meschine gelosie fra di loro”. “Noi tutti – ha concluso – ci dobbiamo proporre un cambiamento di mentalità e apprendere un autentico stile di vita cristiano e cattolico. Questa è la cura migliore per le ferite, di cui soffre tutta la regione del Medio Oriente. È una sfida alla nostra fede, una fede che tuttavia può spostare le montagne dell’odio e aprire lo spazio alla riconciliazione e alla pace”.
a cura di Gigliola Alfaro