Nobile Marco ,
Recensione: Klaus Seybold, Poetica degli scritti narrativi nellAntico Testamento,
in
Antonianum, 86/1 (2011) p. 163-165
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K. Seybold ci ha già offerto un volume dedicato a La poetica dei Salmi. Questo e il secondo dei quattro volumi che egli ha scritto sulla poetica della letteratura anticotestamentaria; il terzo e il quarto, che la Editrice Paideia farà uscire prossimamente, riguardano rispettivamente la poetica degli scritti profetici e quella degli scritti sapienziali. Il programma dell’autore e di notevole rilievo ed opportuno nel quadro dell’attuale approccio all’AT, cosi sensibile alla natura linguistica e letteraria dei testi. Si tratta di un atteggiamento metodologico a nostro parere ineliminabile, che oggigiorno si accompagna all’uso del metodo storico-critico in senso stretto; anzi, quest’ultimo ne viene arricchito e vitalizzato. Con il presente studio, S. si propone di “indagare le strutture testuali e le forme stilistiche dell’opera narrativa veterotestamentaria, di cogliere, di delineare e di evidenziarne i profili caratteristici” (dalla Premessa, p. 9). L’intento si articola perciò in quattro parti. Nella prima parte egli introduce il suo metodo e tratta della natura del racconto come peculiarità della cultura ebraica (p. 26). Nella seconda parte presenta le forme fondamentali dei racconti veterotestamentari. Si tratta di un discorso generale sui generi, le espressioni stilistiche e le modalità mediante le quali si può costruire un racconto. La terza parte si occupa invece dei racconti allorché sono passati dalla fase orale a quella scritta, un fatto che implica strategie e quindi letture diverse rispetto a racconti differenti. L’analisi va dai racconti brevi alle più ampie opere storiche. La sezione culmina con la considerazione molto sintetica e affrettata (in nota si rimanda alle Introduzioni all’AT, p. 205) delle fonti classiche della teoria documentaria (jahvista, elohista, deuteronomica e sacerdotale). La quarta ed ultima parte del libro, la piu stimolante dell’intero studio, affronta questioni che da un lato disegnano conclusivamente il senso della ricerca del S., dall’altro si offrono come i parametri linguistici ed ermeneutici che dovrebbero essere alla base (quindi introduttivi) del tipo di indagine narrativa che egli prospetta. Il saggio di S. e senza dubbio un “masterpiece” della manualistica esegetica che sa conciliare metodologia passata ed esigenze ermeneutiche contemporanee. Proprio per questa operazione conciliativa, tuttavia, esso non può sottrarsi all’impressione di un’ambivalenza metodologica. Lasciamo stare quel paio di affermazioni (ad es., a p. 26) circa la superiorità e l’unicità della capacita narrativa d’Israele, che suona come una nota apologetica datata: l’originalità propria dell’ars narrandi dell’antico Israele, indubitabile, non ha bisogno di paragoni letterariamente non appropriati. In realtà, l’autore sembra voler ricalcare nella seconda e terza parte del libro la tradizionale via storico- critica, partendo dalle forme e dai generi (II parte) e concludendo con le classiche fonti della teoria documentaria (l’opera jahvistica, quella elohistica, il Deuteronomio e la fonte sacerdotale). Nella premessa l’autore offre una chiave per spiegare tutto ciò. Egli afferma: “l’esposizione rinuncia in generale a una propria giustificazione della situazione di partenza dei testi secondo la critica letteraria, alla ricerca piuttosto di posizioni tradizionali, ancorché discutibili agli occhi dell’autore, per trarne considerazioni poetologiche” (p. 9). Nonostante il suo percorrere la strada metodologica tradizionale mediante un’attenta e sensibile analisi letteraria nel senso della filologia e della lingui stica, il S. scopre tuttavia che il piano su cui egli lavora e quello della “performance” e non quello della “competence”, per usare i termini della linguistica, come del resto lascia intendere a p. 205, nella nota 1, la dove, trattando delle grandi composizioni narrative (JEDP), per la loro strutturazione rimanda alle introduzioni. Invece, sono proprio le grandi creazioni letterarie (i macrotesti) che vanno studiati adeguatamente per offrire una grammatica poetologica completa, che certamente non deve coincidere con le teorie documentarie di distribuzione del materiale narrativo. Una vasta opera letteraria lavora certo anche con materiale previo, i cui “pezzi” possono e devono essere analizzati anche per se stessi; tuttavia il loro reimpiego nella macrostruttura spesso li rielabora, li manipola, addirittura ne cambia il significato originario. Quindi, non e sufficiente il commento filologico ed estetico delle parti e del tutto, cioè della “performance”. E necessario anche e soprattutto esaminare i meccanismi attraverso i quali si costruisce il racconto, dalla sua fase minima a quella massima, all’interno della cornice semiotica immutabile suggerita dal linguista russo R. Jakobson, che lascia crescere la diacronia, senza mai farla uscire dal quadro sincronico (“competence”). Pensiamo al Nuovo Testamento che, nel quadro di uno stesso universo semantico-letterario, le Scritture,cioè l’Antico Testamento, narra tutta una nuova storia. Dobbiamo pero ammettere che l’autore tocca questo argomento nella quarta parte: questo e il motivo per cui essa ci appare più rispondente alla tematica prefissata, più stimolante e attuale. Ad ogni modo dobbiamo salutare la comparsa di questi studi come la vittoria di quell’esigenza che riconosce ai testi biblici il loro statuto di opere letterarie: quello che era il programma di Luis Alonso Schokel, peraltro studioso iratamente citato dal nostro autore.
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