Guidi Remo L. ,
«Laudatio». I francescani del quattrocento, protagonismo e contestazione.,
in
Antonianum, 82/2 (2007) p. 377-388
.
Nel parlare di padre Cesare Cenci una cosa deve valere come premessa: egli è una delle massime espressioni della filologia francescana e non solo di quella contemporanea, così suggerisce la sua corposa bibliografia premessa, molto opportunamente, da A. Cacciotti e P. Sella, ai due volumi in cui sono rifluiti i saggi offertigli da amici ed estimatori per i suoi 50 anni di sacerdozio. Ed è proprio scorrendo quell’amplissimo ventaglio di pubblicazioni, tutte di sigla minoritica, che risalta da subito la predilezione del dotto padre per le questioni legate, o riconducibili, al secolo XV, epoca di grandi fermenti nei campi della cultura e dello stesso Francescanesimo; muovendomi, pertanto, con molta libertà attorno a un manipolo di frati, sui quali p. Cesare ha avuto modo di soffermarsi con i suoi scavi di archivio, farò delle libere considerazioni, come tra amici, spinto dalla curiosità di scoprire cosa può celarsi nei loro ambiti. Dirò, tuttavia, che la serietà e lo scrupolo che regnano nei contributi di p. Cesare garantiscono, fin dall’inizio, che il muoversi nei suoi ambiti non produrrà noia in alcuno, mentre di certo interesserà gli specialisti.
I frati nel secolo XV ebbero una visibilità notevolissima, lo ricordava, quasi disperandosene, Antonio de Ferrariis (detto Galateo) nel Commento al pater noster, e infatti stavano sui pulpiti, negli ospedali, sui campi di battaglia, fondavano perfino banche e monti frumentari; lo sdegno di cui l’umbratile e scontroso umanista si diceva preda («non è cosa da morir vider la ignorante ippocrisia e presuntuosa audacia de’ fraticelli, aver abbrazzato […] lo governo de lo mundo?») non era dovuto ad allucinazione: i frati si facevano teorici della milizia (Angelo da Leonessa), andavano in guerra (Capestrano, Domenico da Ponzone, Francisco Ximenes), li mandavano dal sultano di Babilonia (Francesco da Pistoia), li mettevano sui passi dei vescovi ribelli per assicurarli alla giustizia (Emerico di Kemel fece mettere nei ceppi Andrea Zamometić), riuscivano a confessare in punto di morte uomini «vivuti con contraria professione» (fra’ Matteo da Stia amministrò gli estremi sacramenti al Machiavelli); inoltre al loro arrivo in città il popolo si abbandonava a un entusiasmo incontenibile (ricordo il delirio dei Bresciani all’arrivo del roccioso Capestrano nel 1451), perciò finirono per essere oggetto di contesa tra i vari principi per assicurarseli come quaresimalisti. E qui il caso più eclatante è quello di Bernardino Tomitano da Feltre, soffocato da una ridda di ordini contrastanti sì da non sapere più come comportarsi, per cui Innocenzo VIII (stando a una carta pubblicata dal Cenci) lo sciolse da ogni vincolo: «tibi permittimus [...] ut in eo loco [...] praedices, ubi maiorem animarum fructum facere te posse confidis».
Si potrebbe sospettare che tanta attenzione per i Francescani fosse dettata dalla facilità con cui i principi potevano plagiarli, facendoli megafoni della loro politica presso il popolo per renderlo più arrendevole; ma l‘ipotesi sembra essere fatta più per stupire che per essere creduta, perché i rappresentanti più in vista dei Mendicanti espressero, insieme all’autorevolezza, un piglio così poco arrendevole da rasentare la temerarietà; e non mi riferirei solo a Simone Fidati che dopo una tragica alluvione dell’Arno prese di petto cittadini e signoria con veemenza inaudita («bibisti calicem ire dei, sed nec ad feces usque, quia adhuc restat tibi mors ventura civium tuorum ex corrupto aeris elemento»), perché Giovanni Dominici denunciava «i moderni cittadini rettori, i quali non sanno altra legge che la testa loro […]; e col bicchiere a bocca e stomaco rovesciante di ghiotti cibi e vini, e offuscata mente da fummi soperchianti, danno sentenzie Dio sa chenti e quali»; Bernardino, predicando a Siena, metteva in guardia dai reggitori che avevano le unghie, «come ha il nibbio o come l’astore, così aroncinate», il cui becco non «beie mai acqua, ma strappano la pelle e beiono il sangue»; l’impetuoso Caracciolo tuonava a Napoli: «dati, adunque, o tiranni avari, o crudeli robbatori, dati al povero del bene che Dio ve ha dato. La robba non è vostra, non mia, ma è de tutti»; sic stantibus rebus i signori non stettero alla finestra e li cacciarono dalle loro città: da questi provvedimenti furono colpiti, tra gli altri, Tomitano (espulso da Firenze) e Carcano (da Milano, Padova, Firenze e Mantova). Ma i frati non temevano nemmeno i condottieri, per cui Braccio da Montone volle dare loro una lezione ad Assisi: «decem et octo monachorum qui contra se senserant, percuti atque atteri super incude test mandavit»!
I rapporti dei Mendicanti con gli Umanisti furono molto variegati, passandosi dalla collaborazione, alla venerazione per giungere alle inimicizie più viscerali come quelle del Valla con Antonio da Rho e, poi, con Antonio da Bitonto, di Antonio da Rho e il Panormita, del Sarteano con Poggio; la storia di questi contatti riserva anche sorprese per la sintonia su argomenti nodali della vita spirituale: dall’una parte e dall’altra, ad esempio, si insisté sui vantaggi di rimettersi a un maestro di spirito che, necessariamente, poteva anche non essere un frate, infatti Pier Paolo Vergerio voleva le suggestioni di Coluccio Salutati, il canonico Giovanni di Reims e Donato Acciaioli facevano riferimento a Poggio; Feo Belcari e Lancillotto De Mercuriis raccomandavano vivamente ai loro figli in convento di fare molta attezione alle sue direttive; ma bisognava essere oculati nello scegliere la propria guida, lo ricordavano Pier Paolo Vergerio nel De ingenuis moribus insieme a s. Bernardino («ma se tu vuoi buon consiglio, non andare a frate da Grosseto»), al Savonarola (che sconsigliava di appellarsi «a frate Dolcino e frate Bonino») e Bernardino Tomitano da Feltre («heu, che inveniuntur de quelli bestioni che habent cossì pocha consciencia, che absolvant!»), le cui vivacissime metonimie tradiscono la confusione che poteva regnare in materia. Io non credo che gli Umanisti e i frati derivassero queste convinzioni da fonti comuni, trattandosi insomma, di buonsenso: chi voleva imparare un’ arte non poteva non mettersi a scuola, lo disse con estrema chiarezza Cennino Cennini («e quanto più tosto puoi, incomincia a metterti sotto la guida del maestro a imparare; e quanto più tardi puoi, dal maestro ti parti»), preceduto per tempo da Seneca con l’avallo di Epicuro: «aliquis vir bonus nobis diligendus est, ac semper ante oculos habendus».
Ma questa consonanza ritengo non possa risolvere una domanda di fondo, che formulerei in termini di estrema semplicità: i frati, che entravano nel privato dei laici valutandone il vissuto su base morale, erano davvero in grado di capirli?
Il Dominici nel Trattato delle dieci questioni e nelle lettere a Bartolomea degli Alberti, insieme Paolo Maffei nell’ Epistola exhortatoria ad spiritualem et religiosam vitam in saeculo commorantium (1434), ritenevano che la vita nel secolo avesse i suoi meriti, consentendo anche l’eroismo, cioè la santità; tuttavia in altri scritti i due accreditati maestri si mostravano assai meno inclini ad offrire nuove conferme; si potrebbe obiettare che i Mendicanti valorizzarono forme di santità maturate all’esterno del chiostro, quali, tra le tante, quelle di Fina di San Gimignano (zoppa), Margherita da Cortona (ragazza madre), Margherita di Città di Castello (orfana e cieca), Zita di Lucca (donna di servizio), Lucchese da Poggibonsi (pizzicagnolo). Ma non bisognerebbe tralasciare qui gli sforzi che i claustrali fecero per ‘mettere a norma’ queste esperienze sia quando i servi di Dio erano in vita, sia quanto tentarono di storicizzarli con le agiografie (si ripercorrano, per uscire dal generico, le vicende di Osanna Andreasi e Stefania Quinzani), cose peraltro non sempre facili, come ampiamente documentano gli scontri avutisi con Domenica Paradiso. Quanto qui si recupera potrebbe situarsi in un’area intesa a difendere il tradizionale concetto della santità, dal quale si dilungò il Francescanesimo dei primordi, visto come il suo fondatore aveva espresso un modello di eroismo assai poco convenzionale, stando all’autorevolezza del Celano (Francesco traboccava di giubilo alla maniera giullaresca) e della Leggenda perugina (Francesco voleva che, dopo la predica, si dicesse al popolo: noi siamo i giullari del Signore).
A fianco delle difficoltà reali dei frati ad accettare moduli di vita diversi da quelli del chiostro ci fu, invece, la conoscenza non epidermica dei laici su come dovevano vivere i frati, e lo stesso Machiavelli ne aveva letto le regole («che hanno del buono») e, anzi, si riprometteva di avvalersene «a qualche proposito». Quando essi alzarono la voce contro i disordini dei claustrali, lo fecero, pertanto, a ragion veduta; d’altronde i litterati conoscevano bene anche i compiti dei vescovi, e a ricordarglielo nel loro ingresso in città ci pensarono Sicco Polenton, Elio Lampridio Cerva, Antonio Beccaria Guarino Guarini, Isotta Nogarola; né sarebbero da omettere le lettere ricche di sensibilità pastorale di Poggio a Filippo de’ Medici (vescovo di Arezzo), a Scipione Mainente (vescovo di Modena) e ad Angelotto Fusco quando ricevette la porpora.
Curioso a dirsi, ma dopo aver così ben capito gli obblighi degli ecclesiastici, gli Umanisti faticavano non poco a spiegare (e difendere) quello dei laici in seno allo Stato; questo è quello che si ricava leggendo i trattati de obeundo magistratu o de principe (con riguardo a quelli di Alessandro Maggi, Giovanni Pontano, Raffaele Maffei, Diomede Carafa), dove disegnarono un ideale così prossimo ai compiti del vescovo che si stenterebbe a crederlo, ma ad ispirarli c’erano Dione Crisostomo (il cui De regno era stato tradotto da Giorgio Merula), Isocrate (l’Oratio ad Nicoclem la tradusse Alamaro Rinuccini), oltre alle Verrine di Cicerone.
Quando, poi, il discorso si fece diretto, allora le sintonie con la visione politica dei Francescani divenne ancora più immediata, e il re invece dello scettro parve impugnare il pastorale, mentre la reggia si trasformò in una sorta di vescovado; Roberto Valturio, proprio in uno scritto a sigla militare raccomandava a quel poco di buono di Sigismondo Malatesta di essere «tamquam optimus populorum pastor», vigilando sui sudditi «<ut> habeant illud semper in animo vetus preceptum deum sequere»; la rievocazione che Ermolao Barbaro fece del Doge Niccolò Marcello (1474), è tutta improntata a presentarlo in una prospettiva di rigida moralità, fino a destare il sospetto di essersi lasciato andare per indulgere ai cliché cari all’establishment e alla famiglia del defunto; però se si legge nell’Urbinate latino 1246 il profilo che del doge lasciò un anonimo memorialista, assolutamente privo della cultura del futuro patriarca di Aquileia, ci si accorge che l’umanista avrebbe potuto calcare ancora di più le tinte pietistiche del doge, assiduo alle sacre funzioni, difensore dei deboli, dedito al restauro degli edifici sacri ecc. ecc.
Gli Umanisti, e stiamo alla vigilia del Principe machiavelliano, caldeggiavano un modello che, deposto lo scettro, prendeva il vincastro per farsi pastore a somiglianza di Cristo; Cristoforo Landino, dedicando la traduzione di Plinio Secondo a Ferdinando d’Aragona (1474), gli portava l’esempio del pastore «el quale mette la vita per le sua pecore»; si potrebbe addirittura scrivere che l’idealismo umanistico si spingeva verso proiezioni non considerate, a volte, nemmeno dai frati. In tal senso potrebbe risultare non privo di interessi un riscontro con quanto auspicato, ad esempio da s. Bernardino nel sermone De regimine principum, o nella predica De’ reggimenti delli Stati, mai dimenticando quello che ben faceva risaltare L. Bruni a Eugenio IV: «[…] accedit quod pars haec philosophiae, quae circa mores [..] versatur, eadem fere sit apud gentiles philosophos et apud nostros <christianos>».
Invece era il senso cristiano degli Umanisti a fargli prendere posizione contro il collasso della Chiesa, perciò essi, pur senza un piano concordato, mossero in connessione con i maestri di spirito contro il disordine, e reclamarono una riforma in capite et in membris: Coluccio Salutati, Zaccaria Trevisan, Antonio Loschi intervennero con eloquenti documenti in proposito; una delle carte a più alto gradiente abrasivo di Poggio prese di petto l’Antipapa Felice V, e una delle sue orazioni più intrepide la rivolse ai Padri del concilio di Costanza, esortandoli a farsi carico del restauro disciplinare e a risanare, prima di ogni altro, se stessi. Il problema era così sentito che anche l’ umile maestro di s. Bernardino, Giovanni di Spoleto, volle dire la sua, senza, peraltro, potersi mettere sul piano di quanto divisato da Francesco Zabarella nel De schismate.
Quanto detto non richiede documentazioni aggiuntive, perché è cronaca, ma non mi esimo dal ricordarlo perché quando gli interpreti soffocano (o sostituiscono con sé) i protagonisti, queste evenienze sembrano perdere il potere di vincolo; tuttavia se si proseguono le indagini si trova ben altro, perché lo scontro sulle arti liberali i maestri di spirito le fecero non per difendere il loro ispido latino, ma l’ortodossia, e se si conosce bene il movimento umanistico (non questo o quel letterato) si deve ammettere che il loro allarmismo non era immaginario.
I Francescani vissero in uno stato di continua tensione, e l’animosità che raccolsero all’esterno fu assai poca cosa, se messa a confronto con quanto accadde tra di loro: infatti Osservanti e Conventuali si dettero battaglia, senza esclusione di colpi, per il diverso modo di intendere la regola, e in particolare il voto di povertà; la querelle fu così viscosa e profonda da resistere a qualsiasi tentativo di composizione, sia da parte dei pontefici che dei concili. Ritenere che lo stato di belligeranza dei Francescani finisse per disorientare i laici, e renderli diffidenti nei loro confronti, perché rischiavano di non sapere più dove stessero gli autentici figli di s. Francesco, sembra assai probabile; altra turbativa tra le due parti la produsse il diverso modo di intendere i classici; in realtà in alcuni strati dei Francescani era la scienza a trovarsi sotto processo già da tempo, sicché gli inneschi polemici contro le humananae litterae risultavano il prolungamento o, se si vuole, l’emersione di un disagio interno mai sanato, e che, nella fattispecie, poteva assumere toni di sfida («o Roma ubi sunt tui fortissimi imperatores […], omnia […] in pulverem redata propter Romanorum superbiam») lanciata proprio agli Umanisti, i quali stavano sempre sul piede di guerra.
A rimettere insieme questo puzzle si parte da screzi al tutto superficiali, come quelli avvertibili nelle proteste di fra Cherubino da Spoleto, contro la tendenza a conformare i nomi al gusto classico (Giovanni-Gioviano, Domenico-Domizio, Luca-Lucio, Pietro-Petreio), quasi a rifiutare la propria appartenenza cristiana: «christiani vocant filios suos nominibus paganorum: illum vocant Iulium, istum Caesarem […], et aliquando mutant sibi ipsis nomina que fuerunt eis imposita in baptismo»; si prosegue e si scoprono le differenze sul modo di pregare: Pico della Mirandola diceva al nipote che non erano le parole ad accreditare l’orazione («nec curo quam longa sit oratio tua, sed quam efficax, quam sit ardens, interrupta potius suspiriis quam perpetua quadam serie dictionum numeroque diffusa»; Tristano Caracciolo si spingeva più in là: l’eccesso delle suppliche e delle pratiche esterne comportava una familiarità con il sacro da cui doversi difendere: «audire, insuper, sacros sermones quotidie, saepiusque ad se expiandum admissorum confessione sacerdotes convenire, non adeo licenter permittebant [gli uomini del buon tempo antico] asserentes crebram sanctorum adstationem illius reverentiam et timorem demere».
Dall’altra sponda si avevano convinzioni di polarità diversa, che possono essere esemplificate presentando i suggerimenti offerti ai devoti da fra’ Mariano da Firenze nel Tractatus coronae b. Marie: la Madonna elargisce 60 grazie perché visse 60 anni, e siccome il numero risulta dalla ripetizione di 5 volte il 12, si dicono 12 pater noster in onore dei 12 privilegi della Madonna, dei suoi 12 gaudi, dei 12 apostoli ecc.; e visto come le prerogative della Vergine sono 63, si aggiungono 63 avemaria, che equivalgono ad altrettante pietre preziose le quali si aggregano in 12 quinari, «iuxta numerum duodecim stellarum ut legenti patebit […]». Ma anche nel campo agiografico gli Umanisti finirono per distinguersi: le rievocazioni di s. Bernardino a firma di Matteo Vegio e fra’ Sante Bonocor divergono non solo per ampiezza di orizzonti mentali, ma per la scelta delle parti da enfatizzare; l’agiografia di s. Eustochio da Messina della clarissa Iacoba Pollicino non si pone le domande esistenziali, che pullulano in quella di Leon Battista Alberti per s. Potito.
Quando, poi, si parlò della vita nel chiostro le posizioni parvero più uniformi, sia a livello di gruppi che dei singoli: il chiostro quale luogo posto al riparo di ogni fastidio mise d’accordo Savonarola e l’anonimo dell’epistola Ad Florianum alla Biblioteca Ambrosiana con i vari Francesco Petrarca (De ocio religioso), Francesco Filelfo, Giorgio Valagussa, Antonio Cremona (già del circolo di Panormita e finito francescano) e Maffeo Vegio; Coluccio Salutati, e converso, fornì nel De seculo et religione una visione dinamica e piena di contrasto di quella esperienza, e in quelle pagine si potrebbero vedere degli anticipi, nemmeno troppo acerbi, delle Constitutiones Martinianae ispirate dal Capestrano..
Se ci si superano queste schermaglie, o meglio, se le si guardano attentamente, non si tarda ad avere il sospetto che maestri di spirito e Umanisti stessero maturando una radicale diversità sul modo di configurarsi l’uomo: per gli uni egli era una creatura debole e malferma, chiamata a vivere in un mondo denso di seduzioni da cui evadere con la rinuncia e le lacrime; per gli altri la fragilità e l’inquietudine, la depressione e lo sgomento erano ostacoli contro cui l’individuo doveva battersi per difendere quanto gli piaceva e, in ragione della sua estrema dignità, per imprimere sulle cose e gli eventi il sigillo della propria supremazia. Così proclamarono Buonaccorso da Montemagno, Giannozzo Manetti e, soprattutto, Pico della Mirandola («magnum, o Asclepi, miraculum est homo»); i maîtres-à-penser francescani erano di avviso assai diverso: s. Bernardino disse, con graffiante icasticità, che la ‘mondana grandezza’ era «una schiava asinerìa», e il corpo, idolo di tanti uomini e donne, per il forbito Roberto Caracciolo fu solo «corpazzo»; ma le chicche più succose qui risalgono a Bernardino Tomitano da Feltre, che passò da «mondazo» a «golaza», da «corpazo» «carnaza», «mundanazo», a «mondanaze» e «mondanazi», da «bestialazo» a «animalazo»; da ultimo anche lui volle dare una definizione dell’uomo: «tu, qui es? Porcus, brodoso carnalazo, a la stalla! […]. O porcazo!». Ma anche s. Antonino, rispondendo allo stesso assunto, rischiò di perdere l’aplomb: «nonne tu ipse est vermis?», per non rifarmi all’agostiniano Filippo degli Agazzari al quale davano fastidio anche le feste ‘mondane’, e nel condannarle non fu affatto più diplomatico: «dice Idio ne la Santa Scrittura contra quelli che fanno le feste mondane: le loro feste sono sterco putrido, lo’ gittarò ne la faccia loro».
Probabilmente il fermarsi a questi aspetti linguistici del fenomeno, finirebbe per fornire una immagine incompleta e distorta del confronto Francescani-Umanisti, perché i laici mostravano una intraprendenza al tutto compatibile con i frutti delle humanae litterae, perseguite per avere una spiccata autonomia di giudizio, come ribadì, con chiarezza, il carmelitano Battista Spagnoli («eas, ut saepe a puero quoque audivi, maiores nostri artes liberales appellabant, tum quod solae liberum animum aut requirant aut faciant»). E questa libertà di spirito li spinse in aree che i teologi gelosamente ritenevano loro riserva, ecco il perché della vivace ostilità contro Aurelio Lippi Brandolini al quale non perdonarono di essersi introdotto nella Bibbia; ma l’umanista, finito, poi, tra gli Agostiniani, reagì vivacemente nella prefazione alla In sacram Hebreorum historiam («desinite igitur tam grave, tam honestum, tam sanctum in nobis scribendi studium criminari, quoniam neque a nostra dignitat, neque a nostra professione alienum est, et christiani hominis officio ac pietate dignissimum»); ma non andò meglio al pio Giannozzo Manetti, il quale «pro multis et magnis ac piis et devotis laboribus lucubrationibusque» sofferti per tradurre i Salmi dall’ebraico, riportò solo critiche ingenerose e pungenti. Sarà forse una coincidenza, ma il pugnace Valla non pubblicò né la Collatio né le Adnotationes in Novum Testamentum, uscite entrambe postume.
Certo in questi impegni i litterati evidenziavano un atteggiamento mentale assai diverso, da quello che il servita Ambrogio Spiera era disposto a concedere nel de dignitate sacre scripture, una delle farraginose divisioni del sermone De sapientia et scientia; ma c’erano altri, tra cui Francesco da Fiano, canonico di s. Maria Maggiore, al quale la sola lettura dei Salmi dava un fastidio indicibile; a dirla tutta, però, anche a s. Bernardino da Siena, in gioventù, «veniva dormito» quando apriva la Bibbia, perché «nelle sante Scritture non v’è quella scorza gentile, come è nelle scritture de’ poeti; ma evvi molto midollo».
Ricordando questo clima si potranno se non giustificare, forse capire, le esitazioni del collegio dei canonici del duomo di Milano, che negarono la cattedra di teologia a fra’ Antonio da Rho, per essere uno degli Umanisti lombardi più in vista, dal che ne dedussero, in modo automatico, la sua impreparazione in materia; il frate, però, se l’ebbe davvero a male ed affidò il suo sdegno una vivacissima denuncia, adversus diaconum quempiam complicesque sycophantas taeterrimos, con dedica al ministro generale Antonio da Massa.
La disinvoltura degli Umani nei confronti della Scrittura, e l’autonomia di giudizio da loro reclamata a gran voce, tracimarono in proposito revisionistico della religione, alla quale alcuni preferivano la mitologia (essi, stando allo scandalizzato Cino Rinuccini, «ardiscono dire che quegli dei erano più veri che questo»), e se per Giacomo della Marca Maometto era ‘porco’ e per il Savonarola «al tutto irrazionale, scelerato, adultero, predatore de' popoli», per quelli dell’Accademia Romana sarebbe stato da preferirsi a s. Francesco (‘ypocrita’) e allo stesso Cristo (‘seductore’); inoltre Callimaco Esperiente, Galeotto Marzio e Bartolomeo della Fonte ipotizzavano un confuso sincretismo, indizio più dello smarrimento in cui si aggiravano che di una riflettuta capacità, in grado di promuovere una improbabile concordia fidei con le altre professioni.
Ma alla base di simili avventure di acerba eterodossia c’era una mancanza evidentissima di informazione religiosa; la cultura classica, in proposito, non poteva soccorrere gli Umanisti, ed essi erano troppo infatuati dell’antichità per poterlo ammettere; ed è strano come proprio quando il secolo stava per chiudersi, Pico della Mirandola alzò la voce per difendere la ripudiata cultura scolastica di fronte ad Ermolao Barbaro, decretandone l’ energia e l’attualità, non nei circoli degli esangui epigoni di Cicerone, «sed in philosophorum coronis, in conventibus sapientum, ubi […] de humanarum divinarumque rerum rationibus agitur et disputatur». L’esperienza di Poggio in Inghilterra, d’altronde, avrebbe dovuto fare scuola: lì egli, per mancanza di alternative, era stato costretto a inoltrarsi in un contesto di letture spirituali che gli tolsero non poco della vecchia infatuazione: «libri sacri, quos legi, et quotidie lego, refrixerunt studium pristinum humanitatis cui deditus fui, ut nosti, a pueritia».
La ricerca dell’autonomia, la riscoperta delle potenzialità socio-caritative della ricchezza e quella delle benemerenze conseguibili nel matrimonio, non furono rivendicazioni fatte a fior di labbra, o per via di pallide allusioni: Bruni con la traduzione degli Economici pseudoaristotelici, aveva contribuito a togliere il senso di colpa che gravava sulle ricchezze («sunt vero utiles divitiae, cum et ornamento sint possidentibus et ad virtutem exercendam suppeditent facultatem»), Alberti, Francesco Barbaro, Poggio avevano rilanciato il pregio della famiglia; e se Giacomo della Marca nei Sermones domicales aveva esalto l’umiltà e la sanata obbedienza, Pico rivendicava, per bocca della stessa divinità, l’indipendenza dell’uomo («tu nullis angustiis coërcitus, pro tuo arbitrio, in cuius manu te posui, tibi illam <naturam> praefinies»); non andrebbero trascurate, poi, le mille incidenze negative che gravavano sulla vita dei religiosi, per lo scarso filtro nell’accogliere le reclute (Tommaso di Eccleston lo aveva rilevato fin dal secolo XIII), la mancanza di una adeguata formazione, l’allargamento delle maglie disciplinari, il continuo insistere sui meriti dello stare in chiostro quasi bastasse indossare il saio per diventare impeccabili (per Niccolò da Osimo era più meritevole lavare le scodelle in convento che essere re), per cui quando l’epicureo Lorenzo Valla, non certo per difendere i buoni religiosi e condannare i corrotti, scrisse il De professione religiosorum, non bocciò questo o quel frate, ma la vita dei religiosi in sé e per sé. Lo scaltro umanista si andò a mettere dentro una sorta di camera degli specchi, per frastornare il povero frate con cui fingeva di dialogare, ma non riuscì a illudere Roberto da Lecce il quale, senza tanti complimenti, gli dette dell’eretico nei Sermones quadragesimales de peccatis: «prima species heresis, seu hereticorum secta, est Vallistarum».
Da ultimo mi preme chiarire una cosa: il fatto che gli Umanisti ritenessero superata la cultura dei frati, non era necessariamente riconducibile a malanimo, o a prevenzione, venendo essi da una propedeutica diversa; ci furono, poi, rigidità dall’ una e dall’altra parte: se i papi, ad esempio, stavano spendendo cifre incalcolabili nel mecenatismo, i maestri di spirito potevano, con tanta sicurezza e tranquillità, ignorare le ricadute positive di quella scelta? Forse che la promozione dell’arte sacra, i servizi resi dagli Umanisti alla Chiesa nella segreteria apostolica e nei concili, l’attenzione da essi riservata ai testi sacri, alla patristica (scoperta, traduzione, illustrazione e diffusione delle opere) e alla letteratura spirituale (agiografie, guide sacramentali, recupero e valorizzazione dell’osservanza cristiana nelle biografie e negli elogi funebri), a non mettere nel conto i loro attacchi contro la corruzione, gli interventi per sollecitare la composizione dello scisma, forse queste iniziative, dicevo, non erano compatibili con la religione dei padri? E perché non riconoscere agli Umanisti il merito di avere, con il rilancio dell’etica classica, contribuito a mantener vivo l’obbligo di esprimere una rettitudine di vita già dei pagani, ma che i cristiani esitavano a riproporre con analoga generosità, come ebbe a rilevare obtorto collo il Traversari?
Certo i maestri di spirito avversarono gli studia humanitatis e le condanne, perfino scomposte, comminate da Dominici, Cherubino da Spoleto, Savonarola, Girolamo da Raggiolo e altri son troppo note per doverle ripetere, anche perché ebbero la contestazione interna di Timoteo Maffei, Lorenzo Guglielmo Traversagni, Filippo da Strada, Francesco Micheli, Raffaele da Pornassio ecc.; però l’avversione agli studi accestì tra i Francescani fin dai primordi, in modo diverso non ci sarebbe stata la riprovazione di Jacques de Vitry (†1240) contro i frati ‘pigri et vecordes’, convinti «quod multae litterae faciunt insanire»; quello era, certo, un modo goffo di difendere i propri convincimenti, ma i sostenitori della sancta rusticitas, tra i quali il veemente Angelo Clareno, avevano ragioni da vendere, e potevano rifarsi alle stesse parole di s. Francesco, che vantava la sua incoltura («quia ignorans sum et idiota»; «et eramus idiotae et subditi omnibus»; «pura sancta simplicitas confundit omnem sapientiam huius mundi et sapientiam corporis»), e metteva in guardia dalla sapienza mondana («non debemus secundum carnem esse sapientes»); né la Compilatio Assisiensis e lo Speculum perfectionis edulcorarono queste posizioni.
Vanno fatte, comunque, delle precisazioni: la polemica contro le arti liberali non la promossero, come si seguita a riproporre, i Mendicanti, ma alcuni maestri di spirito delle loro file; gli indotti non potevano prendervi parte, e gli altri che non avevano una adeguata statura mentale si limitarono a ripetere le preclusioni dei corifei, non di rado esasperandole e involgarendole anche; insistere, poi, sull’ignoranza dei frati come istituzione è negare l’evidenza dei fatti: essi ebbero una cultura diversa e siccome non risaliva ai classici, fu ignorata e anche negata provocatoriamente dagli Umanisti. A capacitarsene basterà ricordare che Poggio Bracciolini quando intese a Roma le prediche di Bernardino sull’avarizia, non le comprese affatto, né maggiore attrattiva su lui avrebbero avuto le pagine di Guglielmo Centueri, Tomitano, o Nicolò da Osimo quando trattarono di mercatura, operazioni bancarie e usura; Poggio con il De avaritia, in sostanza, ricercava un altro target ed esprimeva un’altra sensibilità. Ci sarebbe, inoltre, un altro aspetto che chiede riflessione: nonostante i divieti e gli anatemi, proprio dentro i chiostri dei Mendicanti, c’erano, e da tempo, frati dediti con entusiasmo e successo agli studia humanitatis o alle altre discipline, anche quelle più tipiche dei laici. Proprio a Firenze un giorno la signoria inoltrò una richiesta generalibus ordinum predicatorum et heremitarum utriusque eorum capituli diffinitoribus per ottenere un pronunciamento sulla moralità del ‘monte comune’. Né trascurerei il fatto significativo che una figura così eminente nel campo della matematica e del calcolo quale fu Luca Pacioli vestisse in saio francescano; e al suo fianco, a buon diritto, ci sta fra’ Giovanni Giocondo da Verona (che qualcuno seguita a ritenere domenicano) architetto, filologo, o, per dirla con Vasari, «uomo rarissimo ed universale in tutte le più lodate facoltà». E, se può valere qualche cosa, ricorderò che a Roma lo stipendio di fra’ Giocondo era di 400 scudi, mentre a Sangallo e Raffaello ne davano ‘solo’ 300.
E allora, per concludere questa rapida rassegna di fatti operata sui percorsi cari a p. Cesare, non furono i maestri di spirito i i più temibili nemici dell’Umanesimo, il quale decadde non per le loro armi spuntate, ma perché vennero meno i principî ideali e la grande autonomia di spirito che lo avevano promosso; e a ben leggere nel secolo, dal Salutati fino ad Antonio de Ferrariis (passando per Sicco Polenton, Poggio, Alberti, Vegio, Gregorio Correr, Pico e ben oltre), l’adesione agli studia humanitatis non fu senza riserve e interiori lacerazioni degli stessi capicordata delle lettere, quasi che una parte non trascurabile del loro spirito non vi aderisse se non con riserve, pronte ad emergere quando le asprezze della vita o le crisi (anche economiche) imponevano, a quegli uomini generosi e innamorati di ogni sapere, di stilare un bilancio delle proprie azioni, e di quello che di stabile avevano saputo concretizzare.
|