Bartoli Marco ,
Stefano Molina e la riforma francescana nel Lazio (sec. XVI) ,
in
Antonianum, 81/3 (2006) p. 585-589
.
"Considerando al stato nel quale si trova la povera Chiesia de' Christiani, ricuperata da la eterna dannatione con el preciosissimo sangue di Iesu Christo, et in quanti travalgi et spirituali et temporali è venuta, essendo dilungata da quella charità verso Dio et verso el proximo, sopra la qual la ha fondata quel vero lume de le humane et angelice mente [...] et che di ciò bona causa era stata el poccho religioso affecto et exemplo di quelli che ne li passati anni hanno governato la Chiesia di Dio, il che però iudieo esser stato permesso di sopra per li peccati del populo christiano [...] cominciò nel mio pecto reacenderse un desiderio, el qual già molti anni è di tanto ardore ne la mia mente quanto alguno altro, immo più di ogni altro: cioè di vedere che una volta la clementia divina drizzasi gli occhi su questa povera sua navicella la qual fluctua in tanta tempesta et che suscitasse qualche homo dabene el quale, posposta la sua comodità propria, volesse et potesse torre qualche carigo di questa famiglia christiana, la qual da li inimici sui, mali angeli, è in diverse maniere per in strumento di mali homini dilaniata”.
Queste parole del card. Contarini, citate da Giovanni Miccoli nel corso del suo intervento, ben illustrano il clima in cui visse la sua esperienza cristiana un francescano del XVI secolo, Stefano Molina, cui è stato dedicato il IV Convegno di Greccio, che si è tenuto il 6 maggio 2006 presso il santuario reatino, promosso dal Centro Culturale Aracoeli e dalla Scuola Superiore di Studi Medievali e Francescani dell’Antonianum con il contributo delle province dei Frati Minori del Lazio e di Abruzzo. Il titolo del convengo di quest’anno era infatti: “Stefano Molina e la riforma francescana nel Lazio (sec. XVI)”. Si è voluto in questo modo ricordare una delle figure più interessanti (anche se scarsamente studiate) del variegato mondo francescano dell’inizio del XVI secolo, che ha avuto un’influenza duratura non solo nel Lazio, ma a livello europeo.
Dopo i saluti dei due Ministri Provinciali e di Alvaro Cacciotti, che del convegno è stato l’ideatore ed il realizzatore, hanno preso la parola Giovanni Miccoli, Pacifico Sella e Vincenzo Criscuolo. Miccoli ha tratteggiato la situazione della Chiesa nel primo Cinquecento, evidenziando le attese di una riforma che sembrava a molti improrogabile. Il titolo della sua relazione era infatti: L’attesa di una riforma che preme: la Chiesa del primo Cinquecento. Le parole del card. Contarini, citate all’inizio, ben esprimono questo stato d’animo, che era proprio delle personalità più avvertite del momento: da un lato il disagio, se non proprio la sofferenza, davanti allo stato in cui si trovava la Chiesa, tormentata da travagli et spirituali et temporali, dall’altro un’attesa, un desiderio di vedere apparire qualche homo dabene che possa, se non riformare, almeno togliere qualche peso dalle spalle della Chiesa stessa. Miccoli ha così delineato, con la maestria che gli è propria, il quadro di quell’evangelismo soprattutto italiano, che cercò di contrapporsi sì, a Lutero, ma in termini che escludevano ogni ricorso alla forza. Come scrisse lo stesso card. Contarini: “Non di concilii, di battaglie verbali, di sillogismi o di citazioni bibliche v’è necessità per acquietare i tumulti luterani, ma di buona volontà, d’amore per Dio e il prossimo, e d’umiltà dell’anima, che ci liberino da avarizia e lussuria, da grandezza di casati e di corti e ci riportino entro i limiti prescritti dal Vangelo. Di questo v’è bisogno per correggere i disordini luterani. Non dunque con masse di libri avanziamo contro di loro, né con orazioni ciceroniane o sottili argomenti, ma con vita esemplare e umile mente […] nel solo desiderio di Cristo e del bene del prossimo”.
Nel momento del contrasto, come sempre accade, si delinearono le posizioni contrapposte: da un lato quella di coloro che furono disposti a schierarsi con Lutero e a far proprie le sue posizioni, giungendo alla rottura esplicita con la sede romana, dall’altro lato coloro che, come il card. Carafa, credevano nella necessità dello scontro diretto: “l’heresia - egli scriveva - è da esser perseguitata con ogni rigor et asprezza come la peste del corpo, perché ella è la peste dell’anima. Se si appartano, si abbrugiano, si consumano li lochi e robbe appestate, perché non si dee, con l’istessa severità, estirpar, annichilar et allontanar l’heresia, morbo dell’anima che val senza comparazione più del corpo?”. In mezzo vi era il variegato mondo di coloro che credevano nella necessità di una riforma della Chiesa, senza però voler rompere con l’obbedienza a Roma. Questi ultimi sembrarono avere la peggio, quando il card. Carafa divenne papa con il nome di Paolo IV. Questi, come ha ricordato Miccoli “guardava con sospetto a quanti tra i cardinali e i prelati non erano alieni dal far propri alcuni temi e istanze dei riformatori d’oltralpe, non esitando.. a far spiare dai suoi teatini, per raccogliere prove della loro presunta eterodossia, uomini come il card, Pole e Morrone, gettando in carcere a Castel Sant’Angelo quest’ultimo, non appena divenuto papa. Ma diffidava anche dei gesuiti e dei cappuccini, i primi perché troppo lontani dalle tradizioni e dalla disciplina conventuale… i secondi per essere stati guidati per alcuni anni da un personaggio come Bernardino Occhino, visto come prototipo della subdola penetrazione eretica tra le file cattoliche”. Alla fine, questa linea repressiva prevalse (soprattutto nell’ultima periodo del Concilio di Trento), portando alla dispersione degli uomini dell’evangelismo (di cui alcuni salirono al patibolo, altri si rifugiarono nell’esilio); in ogni caso la speranza di una riscossa cattolica, non venne meno, e furono uomini come il card. Morone, che Paolo IV aveva voluto incarcerare, a portare a termine il Concilio, e furono i nuovi ordini religiosi – gesuiti, cappuccini, barnabiti e somaschi - a dare l’impronta alla età successiva della vita della Chiesa.
Dopo il panorama tratteggiato da Miccoli, Padre Pacifico Sella, che attualmente è direttore dell’Archivum Franciscanum Historicum, ha ripreso quanto aveva scritto nel suo volume su Leone X e la divisione dell’Ordine dei Minori (OMin.): la bolla Ite vos (29 maggio 1517), Quaracchi, Grottaferrata, 2001, delineando un vero e proprio mosaico di tutte le “osservanze” francescane tra XV e XVI secolo. Il punto di partenza prescelto è stato fornito da due bolle di Eugenio IV, la Vacantibus sub del 23 dicembre 1446 e la Dum preclara del 3 febbraio dell’anno successivo. Con questi due documenti il papa sanciva la sottomissione e l’assorbimento di tutte le esperienza di osservanza sub ministris agli Osservanti de familia (altrimenti chiamati sub vicariis). L’iniziativa papale mirava all’unificazione ideale di tutti i gruppi osservanti, garantendo ad essi «maggior forza e coerenza» per imprimere «un impulso acceleratore alla riforma dell’Ordine». In realtà l’iniziativa incontrò fortissime resistenze nei diversi gruppi di Coletani, Vilacresciani, ecc. che non avevano la minima intenzione di lasciarsi assorbire dagli Osservanti italiani. Questi ultimi, al contrario, vedevano con grande favore, e forse avevano essi stessi sollecitato, un’iniziativa pontificia che conferiva loro non solo prestigio, ma una certa potestà morale nei confronti di tutti gli altri gruppi riformati e di tutti i frati dell’Ordine.
In realtà, come è ben noto, nel 1446 gli Osservanti de familia erano divisi tra cismontani (che comprendevano le province italiane, ma anche l’est europeo e la Terra Santa) e ultramontani, con le province di Francia, Spagna e Germania, che avevano un proprio vicario. Anche all’interno della vicaria ultramontana si registrano, nella seconda metà del XV secolo, almeno due importanti tentativi di riforma. Il primo, nel 1485, coinvolse probabilmente il frate segretario del Vicario provinciale di Strasburgo, fra Gaspar Walter; il secondo invece si sviluppò tre anni dopo in Castiglia. Un caso particolare è poi rappresentato da Filippo Berbegal (chiamato Barbagallo dalle fonti italiane), che, rifiutando le costituzioni martiniane del 1430, di fatto assunse atteggiamenti fraticelleschi. La stessa nascita di tali riforme è probabile indice del fatto che l’Osservanza ultramontana, sul finire del XV secolo, aveva affievolito la sua propulsione riformista. In ogni caso, la risposta degli Osservanti de familia fu di una decisa e dichiarata intolleranza. Qui si pone anche un problema di fonti, giacché molto spesso abbiamo notizia di questi gruppi dissidenti solo dai loro avversari, come nel caso del Barbagallo, le cui idee conosciamo solo per il tramite della confutazione che ne fece Giovanni da Capestrano.
Ma è soprattutto l’Italia a presentare, in quegli stessi anni, tutto un fiorire di nuove “osservanze”, che si manifestarono in tutte le regioni e in tutti i contesti della Penisola. Così fra Serafino da Squillace operò soprattutto nelle Puglie, fra Filippo da Massa in Emilia, fra Antonio da Castel S. Giovanni in Toscana, fra Andrea Vistarono a Genova, fra Matteo da Tivoli nel Lazio, mentre fra Pietro Capriolo da Brescia operò nei territori della Lombardia allora sotto il dominio di Venezia. Le modalità e le ragioni teologiche di tali gruppi furono tra loro diverse. Quel che Sella ha messo in evidenza, in ogni caso, è che la reazione degli Osservanti sub vicariis fu di assoluta chiusura: essi non accettarono di avere gruppi riformati al loro interno. Al contrario i frati, che in seguito verranno chiamati conventuali, avevano previsto, con le costituzioni di Lione del 1351 e poi le costituzioni Farineriane del 1354 e le costituzioni Alessandrine del 1500, l’accettazione di riforme al loro interno, concedendo ad esse alcuni loci purché si armonizzassero con il resto della comunità. Fu questo il motivo per cui questi gruppi di osservanti preferirono a lungo restare sub ministris e non passare a far parte degli Osservanti de familia. Tutto ciò non sarà più possibile dopo la bolla Ite vos del 1517, con la quale non solo si risolveva a favore degli Osservanti la querelle che li aveva fino ad allora opposti ai conventuali, ma si imponeva a tutti gli altri gruppi osservanti, quale che fosse il loro nome, la loro storia e la loro consistenza, di aderire alla Osservanza de familia.
È questo il contesto in cui visse ed operò fra Stefano da Molina, di cui ha parlato specificamente Vincenzo Criscuolo dell’Istituto Storico Cappuccino. Ed il punto di partenza è rappresentato proprio dalla bolla Ite vos, salutata da alcuni come bulla unionis, ma in realtà apparsa a molti come bulla divisionis. Come che sia, nel 1517 l’Osservanza aveva abbandonato alcune delle caratteristiche iniziali. Si pensi ad esempio alle costruzioni conventuali le quali, dopo il convento di S. Bernardino a L’Aquila, voluto da Giovanni da Capestrano, avevano conosciuto i noti accrescimenti degli insediamenti di S. Maria degli Angeli. Proprio tali mutamenti spinsero alcuni frati a intraprendere, ancora una volta, la via della riforma. Tra questi ultimi un posto non secondario è occupato da Stefano da Molina, che era nato in Aragona probabilmente nel 1497 ed aveva in un primo momento aderito all’esperienza dei girolamini. In seguito, nel corso di un pellegrinaggio, si era recato a Roma e qui aveva chiesto di entrare a far parte dell’Ordine dei Minori, nella provincia romana. Già nel 1518 si segnalano in varie province le prime case di recollezione cioè di ritiro, in cui potevano risiedere quei frati che, non volendo lasciare l’Osservanza, desideravano però vivere una vita francescana più radicale. Nel 1519, su richiesta dello stesso Stefano Molina, la provincia romana concesse che Fontecolombo diventasse una casa di recollezione. Anche il ministro generale Francesco Quiñones favorì le domus recollectae, anche nel capitolo generale di Assisi del 1526. In quello stesso anno Stefano Molina seguiva il suo provinciale in una delicata missione in Ungheria, che si protrasse per 4 anni. Al suo ritorno, nel 1530, erano già nati i Cappuccini, ma Stefano da Molina non volle mai rompere con l’Osservanza, continuando a chiedere però garanzie giuridiche per le esperienze riformate. Fù così che il card. Carafa intervenne presso il papa a questo scopo e, il 16 nov. 1532, la decretale In suprema militantis disponeva la costituzione di alcune custodie riformate (composte ognuna di 4 o 5 conventi) per i fraters strictiorem observantiam observantes. Subito dopo, Stefano da Molina venne inviato in missione presso il re d’Etiopia, ma il viaggio si arrestò in Portogallo per la sopravvenuta morte del pontefice. Nel 1535 il capitolo generale di Nizza stabilirà una custodia riformata per ogni provincia. Stefano Molina ottiene in quello stesso anno il primo documento ufficiale, in cui il ministro provinciale riconosceva la custodia riformata di Rieti, comprendente alcuni loca paupercula come Greccio, Fontecolombo e Poggio Bustone. Di tale custodia, per tre decenni, fra Stefano fu il custode. Nel frattempo, la sua fama aveva superato i confini dell’Ordine, come attesta una lettera di Carlo Borromeo. Nel 1562 venne nominato provinciale della Provincia Romana, poi Definitore Generale e visitatore. Quindi il papa Pio V lo fece provinciale di Terra di Lavoro (Napoli), dove incontrò molte resistenze, fino ad essere accusato come nemico degli Osservanti. Dal 1571 al 1574 fra Stefano poté tornare nella sua custodia reatina per vivere una vita di preghiera. In quell’anno venne richiesto come confessore dal nuovo governatore dei Paesi Bassi e, a 77 anni di età e nonostante un’incipiente cecità, affrontò il viaggio. Nel 1576 tornò definitivamente in Italia e nel 1578 nella provincia romana dove morì, dopo una vita di studio, penitenza e contemplazione, nel 1579.
La fonte più importante, che è una biografia scritta dal confratello Juan Francisco Nuño, narra che, al momento di morire, Stefano da Molina abbia voluto che fosse recitato il cosiddetto simbolo di Atanasio, che inizia con le parole Quicumque vult salvum esse. Se la notizia corrisponde al vero, e non vi è ragione per dubitarne, la sua morte sarebbe il sigillo di tutta una vita: una scelta di campo per una piena e veneranda ortodossia, in uno spirito di riforma capace di dare nuova espressione alla fede evangelica e francescana.
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