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Recensione: SUSAN BROOKS THISTLETHWAITE (ed.), Adam, Eve, and the Genome. The Hu-man Genome Project and Theology

 
 
 
Foto HARSÁNYI Pál Ottó , Recensione: SUSAN BROOKS THISTLETHWAITE (ed.), Adam, Eve, and the Genome. The Hu-man Genome Project and Theology , in Antonianum, 80/1 (2005) p. 178-181 .

Il progetto di decifrare il codice genetico umano è stato largamente proclamato come un risultato epocale con una promessa notevole anche nel campo della medicina. Tuttavia, questo progetto, oltre le ormai note difficoltà della sua applicazione pratica, è carico di ambiguità e, come afferma Susan Thistlethwaite, costituisce un potenziale danno alla società. Il libro associa un primo approccio alle ricerche genetiche dal punto di vista etico, scritto da un’equipe interdisciplinare ad un esame più approfondito, alla luce delle risultanze di questa ricerca, sul significato della stessa ricerca in quanto essa riguarda la nostra umanità.

La prima parte del libro delinea la prospettiva storica della ricerca genetica, presentando il non facile rapporto tra scienza e religione. Questi studi trattano, inoltre, come ci si è arrivati a partire dei pionieristici esperimenti con i piselli del religioso agostiniano, Gregor Mendel, all’odierno Progetto Genoma Umano (Human Genome Project).

Nella seconda parte incontriamo varie problematiche sorte dai test genetici, dalla ricerca sulle cellule staminali, dagli abusi legati all’identificazione genetica, dai gruppi etnici e dalle persone omosessuali.

La terza parte tenta di ricostruire l’identità umana per un’«epoca biologica» che sta per venire.

Scienza e teologia sono due discipline che non hanno avuto mai un rapporto facile. Per questo non ci si meraviglia che questi due saperi si confrontino di nuovo e affrontino gli argomenti assai complessi legati al Progetto Genoma Umano e alla decifrazione del codice genetico umano. Mentre la comprensione più profonda della genetica offre agli scienziati e ai clinici nuove vie di cura e una nuova comprensione di varie malattie umane, tale nuova conoscenza, allo stesso tempo, solleva una serie di pesanti problemi di carattere legale ed etico. Negli ultimi anni teologi e scienziati si sono occupati della questione del significato dell’essere umano, delle possibilità dell’ingegneria genetica, nonché delle implicazioni sociali delle recenti scoperte. Come indica la curatrice del volume, i processi decisionali poggiano sul fatto che il protocollo proposto rispetti o meno la “dignità umana”. Tuttavia, il problema è, spiega Thistlethwaite, che il concetto di “dignità umana” non è stato mai sufficientemente definito e chiarito. Visto il groviglio di problemi che circondano il Progetto Genoma Umano questa raccolta di studi costituisce un apporto gradito alla letteratura in merito, offerto dai membri del «Chicago Theological Seminary» e della «University of Chicago Medical School».

Nel campo della genetica clinica emergono spesso le seguenti domande: Chi sono le persone autentiche che possono prendere le decisioni? Quali test genetici sono richiesti, incoraggiati, permessi o sconsigliati? Quali interessi devono essere presi in considerazione? L’informazione genetica è diversa o meno da altri tipi d’informazione medica? Esiste un obbligo di svelare un’informazione genetica concreta? In quale grado esiste la «privacy» riguardo a tali informazioni?

La base di queste domande si trova in un contesto più ampio: le relazioni genetiche tra le persone costituiscono o meno, e in quale grado, degli obblighi morali? In altre parole, il puro fatto che io sia biologicamente legato a qualcuno conferisce a me il dovere di prendere in considerazione i suoi interessi quando decido di sottopormi a un test genetico? È un dato di fatto che il risultato del test eseguito su di me sarà importante anche per il mio fratello gemello e, inoltre, dirà qualcosa anche su genitori e figli.

Questi problemi si radicano in un modello bioetico tradizionale in cui si tratta soltanto di una relazione singolare medico-paziente. Questo modello non funziona in molte decisioni sostiene Lainie Friedman Ross, direttrice del Centro per l’Etica Medica presso l’Università di Chicago. Infatti, i rapporti interpersonali possono costituire obblighi morali anche al di fuori del campo dei test genetici. Basti pensare ai trapianti d’organo: siamo obbligati a offrire un rene al nostro fratello che è immunologicamente simile a noi? Secondo Ross esiste un certo grado di obbligo morale all’interno della famiglia, ma anche qui si tratta soltanto di un obbligo limitato e non di un «obbligo perfetto» (perfect duty). La stessa autrice trova maggior difficoltà nell’argomentare a favore di un obbligo anche «imperfetto» di donare un organo a persone sconosciute.

Un altro argomento interessante è il caso in cui una relazione genetica non corrisponde a una relazione sociale. Prendiamo come esempio la diagnosi predittiva della distrofia muscolare Duchene (DMD) nel caso di due sorellastre che vivono in città diverse. Una di loro ha un figlio affetto da DMD. Dal fatto che questa malattia è legata al cromosoma «X» risulta che la madre è una portatrice sana del gene difettoso. Emerge la domanda: che tipo di obbligo morale ha questa signora nei confronti della sua sorellastra ad essa personalmente sconosciuta?

Nella filosofia e nel diritto si parla del concetto di «obbligo di avvisare». In base a tale obbligo, io devo avvisare l’altro quando costituisco un pericolo per lui. Tuttavia, dobbiamo chiederci se, nel caso in cui una delle due sorellastre mettesse al mondo un bambino con una malattia congenita, ciò rappresenti un pericolo. Se la madre fosse stata informata della probabilità di una certa malattia forse il bambino non sarebbe nato. Si deve, inoltre, prendere in considerazione il possibile danno che un’informazione predittiva può causare. La madre potenziale può preferire non sapere tutti i possibili problemi del suo nascituro ed accettarlo così com’è. Altre domande rimangono aperte: fino a che punto si estende l’obbligo di avviso in materia genetica tra i parenti più vicini o lontani. In questo contesto diventa più chiaro che i risultati del Progetto Genoma Umano concernono non soltanto certi individui ma anche i loro parenti. Il vecchio paradigma dell’etica medica che si focalizzava prevalentemente sul rapporto medico-paziente è diventato inadeguato e, di conseguenza, deve essere allargato.

Theodore Jennings, professore di teologia biblica presso il «Chicago Theological Seminary» cerca di avvicinare la teologia al Progetto Genoma Umano quando parla di tre analogie tra scienza e teologia: la solidarietà, la speciazione e l’individuazione. La solidarietà qui significa la coesione tra la vita umana e altre forme di vita. Gregorio di Nissa mette in guardia contro la separazione dell’antropologia teologica dalla riflessione teologica sulla natura. Le conoscenze genetiche affermano che la differenza tra il patrimonio genetico umano e quello dei primati è inferiore al 2%. La categoria della «creaturalità» si presenta di rado come argomento a se stante. San Gregorio riconosce che la creatura umana è sempre una creatura e, inoltre, afferma che il nostro essere uomini non ci separa dalle altre creature. Egli, nella sua opera che porta il titolo «De opificio hominis» (La formazione dell’uomo), sottolinea la nostra dipendenza sulle altre creature nonché la nostra responsabilità nei loro confronti.

Un’altra prospettiva, legata alla solidarietà, può essere spigolata dalle ricerche genetiche contemporanee. A livello dei geni ciò che distingue i diversi gruppi di uomini è irrilevante. Una persona europea, ad esempio, differisce geneticamente poco meno che dal suo fratello rispetto a una persona Navajo oppure Zulu. Da questo fatto deriva che la «razza» come categoria, inventata dagli europei all’inizio dell’epoca moderna, è una fantasia con l’intenzione di dominare gli altri.

Le teorie sulla supremazia, da un punto di vista teologico, sono state sempre considerate eresie. Il cuore della dottrina cristiana poggia sull’eguale dignità di tutti gli esseri umani. Senza questa unità del genere umano, l’incarnazione non avrebbe effetto per tutti. Sant’Anselmo getta luce su questa verità nella sua opera «Cur Deus Homo». Alla fine del suo trattato egli spiega perché la morte e risurrezione di Cristo non ha salvato gli angeli. S. Anselmo afferma che ogni angelo costituisce una specie propria, di conseguenza ciò che ha effetto su uno non può avere effetto su tutti. Contrariamente, gli esseri umani appartengono alla stessa specie. Senza questo principio l’universalità del peccato, l’effetto dell’incarnazione e della redenzione non potrebbero essere comprensibili. L’unità del genere umano non nega la solidarietà dell’uomo con il resto del creato, anzi la rafforza.

Il concetto di individuazione significa la straordinaria varietà tra gli uomini e si riferisce anche all’insostituibilità delle singole persone. Inoltre, esso ha delle conseguenze per l’etica. La diversità genetica tra gli uomini appartiene alla natura dell’uomo e per questo è secondo la volontà di Dio. La stragrande maggioranza delle varie diversità genetiche è benigna. Il principio di integrità sarà in pericolo quando la conoscenza genetica verrà applicata a un settore non patologico, come, ad esempio, la scelta del colore degli occhi, della statura ecc., afferma Matt Ridley.

Un ulteriore elemento importante dell’antropologia teologica è il concetto dell’imago Dei, secondo il quale gli esseri umani sono creati a immagine e somiglianza di Dio (Cf. Gn 1,26). Gregorio di Nissa rifiuta, unitamente ai teologi della sua epoca, l’idea che la somiglianza divina nell’uomo sia un potere unilaterale di dominio e considera la responsabilità partecipata come un segno concreto di quest’immagine. Secondo Jennings alla luce dei risultati del Progetto Genoma Umano si può affermare che la chiamata, la predisposizione dell’uomo ad una vita cosciente di essere responsabile per tutte le altre forme di vita è iscritta, in un certo senso, nel patrimonio genetico. In questa vocazione di tutela per gli altri e per il creato si notano i segni dello stesso concetto teologico dell’imago.

Nel settimo e penultimo capitolo la curatrice del volume, che è anche la Preside del «Chicago Theological Seminary», esamina la violenza umana da un punto di vista nuovo, rispondendo ai vari determinismi che presentano, per esempio, l’esistenza del “gene della violenza” (gene for violence) e che ci ricordano il celebre titolo di Richard Dawkins: The selfish gene (1976). Thistlethwaite mostra come gli uomini commettono i peccati usando la loro intelligenza. Tale prospettiva costituisce una sfida anche per le correnti teologiche più recenti, le quali cercano di vedere l’uomo come una totalità unificata, un’unità di anima e di corpo senza ridurre l’humanum a un insieme di geni.

Il Progetto Genoma Umano parla in modo molto espressivo della solidarietà tra gli uomini e su quella che esiste tra l’uomo e il creato. Tuttavia, né la scienza né la religione sono riuscite a riconoscere la serietà con cui ci costruiamo o distruggiamo gli uni con gli altri quando rafforziamo o indeboliamo le nostre comunità. Il desiderio di vivere una relazione sana con gli altri non è nuovo. La novità è la consapevolezza che la nostra salute fisica e spirituale dipende, innanzitutto, dalle stesse relazioni con gli altri e con il creato.