Nobile Marco ,
Recensione: Garbini Giovanni, Dio della terra, Dio del cielo. Dalle religioni semitiche al giudaismo e al cristianesimo,
in
Antonianum, 87/2 (2012) p. 391-393
.
Con il presente studio, il Prof. Garbini ci regala ancora un’opera sorprendente.
Il libro offre una vasta quanto succosa sintesi degli sviluppi storici delle religioni semitiche, abbracciando un arco di tempo che va dal periodo neolitico al giudaismo ed al cristianesimo, con accenni finali all’avvento dell’islam. Circa cinquemila anni! Come ormai ci ha abituati, egli dipana la sua disamina con uno stile rapido ed accattivante, mettendo a frutto la sua magistrale perizia nel campo della filologia semitica comparata (da lui insegnata per decenni all’università di Roma “La Sapienza” dopo un periodo di docenza all’Istituto Orientale di Napoli).
Intento chiave dello studio del Garbini è quello di delineare e disegnare le concezioni del divino così come si sono sgomitolate nella storia dell’antico Vicino Oriente. Difatti, nel primo capitolo egli parte proprio da un’analisi dell’idea del divino così com’è venuta emergendo dall’incontro tra popolazioni semitiche di nomadi/seminomadi ed etnie indoeuropee e non, quali i sumeri.
Relativamente alle evoluzioni delle idee religiose, le antiche tribù seminomadi degli Amorrei che sarebbero dilagate prima in Mesopotamia (III millennio a.C.) e poi avrebbero dato vita a nuove forme socio-linguistiche e culturali in Siria-Palestina (popolazioni aramaiche e nordarabiche: II-I millennio a.C.), avrebbero coltivato originariamente una religione di divinità ctonie e gli dei principali del loro pantheon sarebbero stati dei re degli inferi. Solo il processo sincretistico del mescolamento con i sumeri da un lato e con etnie anatolico-indoeuropee dall’altro, avrebbe prodotto una mutazione del dio/dei principale/i (El, Athtar) in divinità celesti o al confine tra il cielo e la terra come l’El cananeo o ugaritico. Tuttavia, nonostante tali trasformazioni, le genti semitiche avrebbero conservato un filo rosso che si sarebbe mantenuto fino all’epoca romana.
Una testimonianza fondamentale sarebbe data dal concetto semitico di regalità così come si realizzava nel sacrificio umano (molk) di un “sosia-re” (dawidum/ dawida) a favore del re vivente: si creava mediante tale atto di culto la restitu- zione del re dei morti al suo regno, affinché potesse regnare felicemente sulla terra il re dei vivi. Questo filo rosso avrebbe attraversato varie epoche, addirittura fino al giudaismo. Il Garbini afferma con perentorietà che Zorobabele, a suo giudizio l’ultimo re davidico, al ritorno dall’esilio babilonese sarebbe stato ucciso nella congiura ordita contro di lui dal sommo sacerdote Giosué proprio in coincidenza di un’esecuzione del culto che riandava all’antico molk (p. 235.241s).
L’autore discetta su queste evoluzioni del pensiero religioso con piena padronanza degli strumenti filologici, anche se ci si sarebbe aspettato un più abbondante supporto bibliografico a sostegno di tesi che talvolta lasciano fortemente perplessi, specialmente nei capitoli dedicati rispettivamente ad Israele ed al giudaismo ed ancor più nel rocambolesco capitolo dedicato al cristianesimo, dove vengono ignorati largamente lo sfondo storico-sociale e la relativa ricca letteratura specialistica. Tuttavia l’autore svolge in modo disinvolto il suo disegno sistematico, passando dalla disamina filologica ed archeologica delle divinità semitiche nel periodo formativo dal III al II millennio a.C. alla descrizionedelle religioni di Ugarit, di Canaan e d’Israele. Poi egli dedica un capitolo alla religione successiva a quelle precedenti, ovvero il giudaismo, che costituisce una discontinuità nella continuità. L’elemento nuovo sarebbe la nascita di quell’idea che gli studiosi di solito definiscono come “monoteismo” e che sarebbe invece il concetto di un dio unico ( Jahwè) appartenente ad un popolo unico, Israele, al quale la nuova teocrazia sacerdotale postesilica avrebbe trasferito il carattere regale. In altri termini, il cosiddetto monoteismo giudaico sarebbe una scelta politica escogitata dal clero gerosolimitano dopo la caduta della monarchia davidica. L’idea “monoteistica” sarebbe poi stata sussunta dal cristianesimo nascente, al quale Garbini dedica il penultimo capitolo. Il cristianesimo, non quello delle origini gesuane, ma quello della chiesa (l’autore ha un concetto di chiesa impreciso e piuttosto occidentale), avrebbe poi saputo far fruttare il “monoteismo” giudaico in funzione politica, come erede dell’Impero romano. L’ultimo capitolo è dedicato infine alle etnie nomadi dell’Arabia, alla loro storia senza scrittura (ma con ampie testimonianze epigrafiche) ed alla loro evoluzione religiosa fino alla nascita dell’Islam.
Il carattere sintetico della presente recensione non rende giustizia alla congerie di temi affrontati dal Garbini ed alla sua acribia analitica che, come in altre opere dello stesso autore, è di grande stimolo euristico. Desideriamo tuttavia fare almeno qualche osservazione critica. Ormai siamo a conoscenza della metodologia tutta personale che Garbini usa impiegare. Essa è fatta di analisi filologica puntigliosa, resa in modo talvolta colorito, spesso in tono inappellabile. Le disamine dell’autore sono sempre stimolanti, anche se pos sono spiazzare, ma bisogna tener conto di quella sua libertà “laica” di affrontare argomenti spinosi, a volte non pienamente sviscerati per inconsce remore confessionali. E tuttavia, proprio per il rispetto verso la ricerca scientifica che l’Autore sa condurre, non si può tacere la “confessionalità” laica che egli tradisce quando accosta discutibili e perentorie affermazioni ad un’analisi acribica. Sia sufficiente quanto egli afferma, ad esempio, circa l’operato ideologico-religioso di un settore del clero giudaico all’epoca della teocrazia giudaica: “Lo Yahweh della Genesi è presentato come un dio (sic) pieno di difetti umani e, dopo un confronto diretto, più debole dell’uomo; in tale prospettiva acquista ben altro significato il fatto che per creare il mondo dio (sic) ha avuto bisogno di due esseri femminili, lo Spirito e la Sapienza (secondo il Garbini si è di fronte all’antefatto dell’idea trinitaria). Quando un salmista si lamentava perché vi erano alcuni che affermavano «dio (sic) non esiste»…, aveva pienamente ragione: un settore del clero giudaico, partito da premesse epicuree (magistralmente illustrate dal libro di Giobbe [e il Garbini cita a sproposito il peraltro bel libro di C.G. Jung su Giobbe, nel quale il medico svizzero stesso scindeva con modestia la propria trattazione dalla esegesi del testo biblico]), era pervenuto a teorizzare l’ateismo [e viene citato a sostegno ancora un estraneo, E. Fromm]” (p. 265). La problematicità della ricerca scientifica esigerebbe una coerenza dei piani di discussione e maggiori nuance nelle affermazioni, specialmente se si è a conoscenza della complessità dei problemi e dei dibattiti specialistici in corso da decenni.
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