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Recensione: Cunningham Conor, Darwin’s Pious Idea: Why the Ultra-Darwinists and Creationists Both Get It Wrong

 
 
 
Foto Oviedo Lluis , Recensione: Cunningham Conor, Darwin’s Pious Idea: Why the Ultra-Darwinists and Creationists Both Get It Wrong, in Antonianum, 87/3 (2012) p. 614-617 .

Uno dei campi più fecondi di sviluppo teologico va ricercato nell’interfaccia tra scienza e teologia. Come la ricezione del pensiero aristotelico rinnovò radicalmente la produzione teologica del Medioevo, così pure la ‘nuova scienza’ fornisce l’impulso per una riflessione sulla fede più radicale e più attenta ai risultati della ricerca scientifica, al suo metodo e alle sfide che essa pone.

Il dialogo con l’evoluzionismo, o l’eredità di Darwin, è senz’altro al centro degli sforzi per aggiornare la teologia e renderla più adatta a questo nuovo contesto intellettuale. Non è affatto facile fare i conti con i diversi aspetti di questo nuovo paradigma sorto nelle scienze naturali, ma le cui conseguenze vanno molto oltre, anche a livello filosofico, fino a interessare il campo delle scienze umane e sociali.

Il volume in esame propone un approccio teologico assai peculiare al tema dell’evoluzionismo. Il libro ha ottenuto numerose recensioni e ha attratto l’attenzione di molti; il suo stile è volutamente polemico, rapsodico e vivace. Anche se si iscrive nella lunga serie di saggi provocati dalla discussione con i ‘nuovi atei’, la sua strategia e il suo modo di riproporre la fede ‘dopo Darwin’ sono del tutto originali, forse anche al di là di certi limiti. Una valanga di autori e citazioni compongono spesse volte un collage di riferimenti che conferiscono un senso di autorità e legittimazione alle proposte avanzate, in un clima di rivendicazione della fede e della tradizione cristiana.

Uno dei punti più sorprendenti in un testo che non smette di stupirci scaturisce dalla pretesa che, per fare i conti col darwinismo, non è necessario ricorrere a manovre di ‘modernizzazione’, ma ad un ritorno alla tradizione patristica, nella quale si scorge una visione sapienziale della fede in grado di misurarsi con l’evoluzionismo. Non è questo l’unico paradosso che offre questa estesa trattazione: la visione scientifica evoluzionista non è una sfida per la fede, ma un’occasione per affermarla meglio; i creazionisti sono più vicini ai nuovi atei che ai credenti tradizionali; la fede cresce con il darwinismo, invece di diminuire; esso “offre un grande servizio alla religione cristiana”; il darwinismo radicale non minaccia tanto la fede quanto la stessa scienza; esso non è che una ‘eresia cristiana’.

Per quanto riguarda il contenuto, il libro si articola in sette grandi capitoli.

Nei primi quattro, l’autore propone una revisione approfondita del paradigma darwiniano. Dopo aver esposto le sue idee fondamentali, l’Autore descrive i dibattiti interni presenti in questa ampia cornice: sulle unità di selezione; sulla portata del meccanismo di selezione naturale nel processo evolutivo; e sulla ‘direzione’ che può assumere l’evoluzione. In questi casi l’autore assume le proprie posizioni partendo da un ventaglio di possibili scelte: la selezione opera a vari livelli; la selezione naturale ha una portata limitata, dunque non è universale, ed esiste una direzione nell’ambito dell’evoluzione, al di sopra di un certo livello di arbitrarietà. Se non altro, questi capitoli offrono una buona introduzione allo studio dell’evoluzionismo inteso come orientamento pluralista, e non come un blocco monolitico o meccanicistico.

I tre capitoli seguenti portano avanti un dibattito filosofico e teologico sul significato e la portata del modello darwiniano. Il sottofondo è sempre segnato da riferimenti al pensiero di Dawkins. Difficile trovare una pagina in cui questi non venga citato, persino più volte, come una specie di cifra di tutti gli aspetti peggiori del darwinismo. Ma anche il creazionismo diventa facile vittima di dure critiche. Il capitolo quinto mette in atto una revisione mirata delle varie estensioni o applicazioni dell’evoluzionismo biologico ad altri campi sociali ed umani, come nel caso della psicologia evoluzionista, i cui effetti perversi vengono evidenziati. Il capitolo sesto costituisce un allegato contro il naturalismo metafisico, conseguenza di un allargamento del metodo scientifico e della certezza che pare conferire la spiegazione in chiave evoluzionista della realtà nelle sue dimensioni più svariate. Qui l’autore rende un ottimo servizio di sintesi e di divulgazione dei dibattiti in corso su un punto tanto sensibile per la fede.

Il tono apologetico assunto evidenzia i limiti dell’approccio più riduzionista.

Particolarmente brillanti sono le pagine spese a favore dell’argomento di ‘coscienza’: la coscienza riflessiva nella sua irriducibilità manifesta una dimensione che caratterizza l’umano al di sopra di ogni visione meramente biologica; la sua assenza impedisce non solo di capire tale natura ed identità, ma si rende altresì complice di ogni forma di nichilismo, soprattutto morale, e alla fine rende impossibile la stessa scienza che lo informa.

L’ultimo capitolo è più teologico, nel senso che propone la rilettura di alcuni testi della Bibbia, in particolare dei primi capitoli, e delle dottrine cristiane alla luce degli sviluppi darwiniani, per mettere in luce una comprensione di essi che vorrebbe riprendere il loro senso originale radicato nell’elaborazione patristica. Cunningham richiama la dimensione cristocentrica dei racconti della Genesi; rifiuta le interpretazioni letterali o fondamentaliste; fornisce una lettura minimalista del peccato originale (“il peccato originale non esiste”, p. 383); si rifà ad una concezione della grazia in continuità con la natura. Addirittura, egli rivendica la visione scotista dell’incarnazione come autonoma rispetto alla caduta, anche se cerca nel contempo di trovare nell’Aquinate uno spiraglio aperto a favore di tale visione. La salvezza diventa allora un processo di vera ominizzazione che viene completata in Cristo; la natura umana è meno stabile e più risultato di una crescita nella grazia e nella storia. Forte dei propri paradossi, l’autore punta a Dio come realtà propriamente ‘naturale’ e agli umani come ‘soprannaturali’ (p. 394).

Di solito segnalo nei libri che recensisco i punti più salienti con una riga al margine, e i punti problematici con un segno interrogativo. Non ricordo un altro libro da me recensito sulle cui pagine abbia accumulato tanti punti interrogativi.

Cunningham appartiene apertamente al movimento della ‘Radical Orthodoxy’ e questo saggio si presenta come un tentativo da parte di tale programma di fare i conti con la scienza, il che era stato auspicato anche da me, quando in passato ho ricevuto alcuni impulsi da questa proposta teologica.

Tuttavia non sono convinto che tale modello sia il più adeguato per affrontare le sfide poste dalla scienza, e in modo particolare dal darwinismo. Parte del problema è riscontrabile nella retorica postmoderna, nel metodo decostruttivo, nella mancata precisione e nell’abuso del paradosso. Non sono convinto che questo sia il modo migliore per dialogare con i nostri colleghi scienziati, né di far loro rispettare la teologia come un’elaborazione dotata di un proprio rigore riflessivo. In questo punto la proposta della ‘Radical Orthodoxy’ perde di vista quello che è stato un suo riferimento fermo, Tommaso d’Aquino, il cui formato teologico si avvicina molto di più all’ideale di rigore scientifico e di chiarezza espositiva che risulta necessario nel dialogo con la scienza. Non trovo del tutto giusto avvalersi di una sorta di immaginario ‘bypass’ per ovviare alle questioni più frontali nel rapporto con le scienze. Come che sia, forse questa è la prima volta che un aderente alla ‘Radical Orthodoxy’ dice qualcosa di positivo nei confronti di Scoto, e l’Autore va ringraziato per questo.

Sono inoltre numerose le questioni puntuali che meriterebbero un trattamento a parte. Prendiamo ad esempio il caso del peccato originale. Mi pare sia fuorviante ignorare tutta la tradizione che da Sant’Agostino in poi ha informato la dottrina cattolica – più ancora la protestante – in merito, per proporre una lettura che si vorrebbe radicata in una tradizione anteriore. Le cose sono assai più complesse, e ritengo che il saggio di Domning Original Selfishness sia quello che è davvero riuscito a proporre un’interpretazione del peccato originale che nello stesso tempo si adatta alle cornici evoluzionista e genetica.

A mio avviso il libro si colloca tra i molti tentativi teologici di fare i conti con la scienza attuale; esso rappresenta una possibilità e forse anche un modello strategico; almeno l’autore ha la lucidità di accettare tale sfida; esistono molte altre proposte e strategie possibili; ogni teologo dovrebbe fare la propria scelta ed attendere per verificare quale funzioni meglio.