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La congregazione dei canonici regolari di Santa Croce di Mortara: una sintesi del percorso storico secondo la storiografia contemporanea

 
 
 
Foto Corti Valeria , La congregazione dei canonici regolari di Santa Croce di Mortara: una sintesi del percorso storico secondo la storiografia contemporanea, in Antonianum, 85/3 (2010) p. 479-493 .

La storia dell’Ordine canonicale di Santa Croce di Mortara è presentata in un volume di Cristina Andenna, pubblicato in anni recenti, intitolato Mortariensis Ecclesia. Una congregazione di canonici regolari in Italia settentrionale tra XI e XII secolo, nel quale l’autrice, analizzando la formazione e l’evoluzione dell’istituzione mortariense, compie una ricostruzione storica attraverso lo studio dei documenti pontifici. Gli altri materiali storiografici di particolare importanza utilizzati nella ricerca sono l’opera Generalis totius sacri ordinis clericorum canonicorum historia tripartita, composta negli anni Venti del Seicento dal Canonico lateranense Gabriele Pennotto e i contenuti del codice ii-12 della Biblioteca Civica Bonetta di Pavia, conosciuto anche con la precedente segnatura di codice B/28 ms. 146 del Museo Civico di Storia Patria di Pavia.

Attraverso lo studio del volume intendo disegnare un sommario percorso storico, in cui a parlare siano i puri dati documentari, limitandomi a seguire lo sviluppo diacronico di quelle vicende, determinate dalle azioni concomitanti dei Pontefici e dei prepositi mortariensi, per illustrare innanzitutto la dimensione istituzionale della incipiente congregazione nella compagine organizzativa della Chiesa Romana, a quel tempo fermentante di sperimentazioni innovative. Andenna cita e riporta soprattutto documenti cancellereschi, in gran parte già editi, emessi dalla Curia Romana o dagli Arcivescovadi interessati dalla presenza dei Mortariensi, di notevole importanza storiografica accentuata dalla scarsità di ulteriore documentazione, dovuta alle vicende fortunose che interessarono la ecclesia mater di Santa Croce1, dove si trovavano la documentazione archivistica e la biblioteca della congregazione. Mediante le notizie desunte da Gabriele Pennotto, le icastiche informazioni riportate nei documenti cancellereschi si inseriscono in una fattualità storica attinta da un patrimonio documentario oggi in gran parte perduto, rappresentato soprattutto da un’antica Cronica, un tempo depositata a Santa Croce, da alcuni manoscritti e dai documenti presenti a Santa Maria della Pace al tempo in cui l’erudito svolgeva le sue ricerche2. Oltre all’opera di Andenna sono state raccolte dagli studi di altri esperti della realtà canonicale le spiegazioni utili a costruire una cornice più generale ai fatti particolari presenti nella storia dei Mortariensi.

Una fondazione di canonici riformati

La chiesa di Santa Croce di Mortara fa parte della storia del movimento canonicale, emerso nel panorama della vita religiosa ufficialmente a partire dall’ viii- ix secolo, quando venne imposto al clero di condurre vita comunitaria al fine di disciplinare gli obblighi liturgici e le possibilità economiche dei singoli. La primitiva Regola di Aquisgrana dell’816 lasciava spazio alla proprietà personale dei beni, al punto che si generarono abusi, contro i quali il Sinodo lateranense del 1059 giunse ad abrogare tale diritto ed a moderare quest’uso secondo lo statuto benedettino. Da tale provvedimento nacque una distinzione nella condizione canonicale, ossia del clero, per cui si parlò di clero secolare e di clero regolare. Al primo tipo vennero ascritti i membri delle canoniche che seguivano unicamente le norme della liturgia delle ore e, dopo il 1059, i membri di quelle che professavano la Regola di Aquisgrana, al secondo i chierici delle canoniche aderenti alla riforma del 1059, che facevano vita comune e rinunciavano a possedere in proprio, allo scopo di riproporre la forma vitae della comunità apostolica. Le canoniche regolari riformate, ampiamente diffuse dopo il 1080, ebbero la fioritura più espressiva nell’Italia nord-occidentale, dove Santa Croce di Mortara fu uno dei centri maggiori, situata a nord del Po nella Lomellina pavese, in una zona di transito verso i Paesi dell’Europa occidentale3.

Pennotto rende noto che la chiesa di Santa Croce di Mortara fu edificata nel 1080, durante il pontificato di Gregorio vii (1073-1085), dal chierico Adam, che vi annesse un monastero per adibirlo all’assistenza dei pellegrini, che transitavano per Mortara percorrendo l’itinerario in direzione di Compostella. Nei primi tre anni vi abitarono alcuni monaci cistercensi provenienti da San Michele presso Avigliana, e in seguito alcuni chierici che vivevano secondo la Regola di Sant’Agostino. Secondo il resoconto seicentesco, la comunità di Santa Croce fu posta da Gregorio vii sotto la speciale tutela della sede apostolica, ma gli storici non dispongono di alcuna documentazione in merito, dato che esiste una lacuna negli atti della cancelleria pontificia tra il 1080 e il 1085, come Kehr segnala in Italia Pontificia4. Non si conserva traccia neppure della bolla del 1096, in cui i privilegi concessi da Gregorio vii venivano confermati e altri ancora venivano concessi da parte di Urbano ii (1088-1099), che in quell’anno visitò la chiesa di Mortara e ne consacrò l’altare maggiore, durante la sosta che fece in Langobardiam di ritorno dal concilio di Clermont, come attesta il Chronicon di Bernoldo di Costanza e la datazione topica dei documenti papali emessi tra i mesi di settembre e ottobre di quell’anno5.

Pennotto ci informa che il primo preposito di Santa Croce fu Gandolfo di Garlasco, cui succedette Airaldo Guaracco di Caltignana, personalità rilevante tra i canonici regolari dei secoli xi-xii6, consacrato vescovo di Genova nel 1099. La notizia erudita acquista credibilità dal fatto storico che, nel 1100, come vescovo di Genova, Airaldo fu autore o mediatore della donazione a Santa Croce di Mortara di tre chiese, poste nelle località dei possedimenti dei conti di Pombia, cui egli era imparentato per via collaterale7.

Il suo legame con il mondo dei canonici è palesato inoltre dal fatto che a Genova consacrò la chiesa di San Teodoro di Fassolo, affidandola a due sacerdoti chiamati a condurre una vita regolare di tipo canonicale. Cristina Andenna sostiene che egli, nei due anni seguenti all’elezione, espletò sia la funzione vescovile sia quella prepositurale a Mortara, fondando l’ipotesi su un documento dell’anno 1100, emesso da Anselmo iv arcivescovo di Milano, sottoscritto anche da un certo Adam, menzionato con la qualifica di mortariensis electus, probabile successore di Airaldo, che in quell’anno non aveva ancora deposto la carica di preposito di Mortara8. Proprio la subscriptio di tipo vescovile utilizzata fa supporre che con essa si sia voluto solennemente dare risalto all’elezione di Adamo alla carica di preposito. Nella cronotassi dei prepositi mortariensi la presenza di Adam risponde a una perfetta diacronia, ponendosi dopo quella di Airaldo e prima di Bernardo, citato come preposito in un documento del 1102 e ancora in uno del 11059.

La prima espansione della Mortariensis Ecclesia

La tradizione riconosce in Bernardo il vescovo di Pavia, eletto nel 1118 e durato in carica fino al 1130, di cui parla san Bernardo di Chiaravalle in una sua lettera, annoverandolo tra i presuli schierati con Innocenzo II10. È interessante per identificare il preposito con il vescovo pavese un documento del 1119 circa la donazione di due chiese da parte del vescovo Bernardo di Pavia ai Mortariensi, che venivano pure esentati dal pagamento delle relative decime11. A lui nel 1115 il papa Pasquale ii (1099-1118) affidava la chiesa di San Matteo di Tortona, donata dal suo fondatore Alberto alla Chiesa Romana12. Beneficando i Mortariensi, il papa si poneva in continuità con il predecessore Urbano ii nel favorire gli ordini dei canonici regolari, curando anche di porli sotto la protezione della Santa Sede. Cosimo Damiano Fonseca fa notare che, nella bolla del 1115, Pasquale ii si rivolgeva ai Mortariensi per la prima volta esplicitamente come a una comunità di canonici utilizzando l’espressione canonici ordinis religio13. La comunità di Mortara veniva descritta con i termini ecclesia e unitas, solitamente riferiti agli ordini monastici più diffusi e organizzati, come i Cluniacensi. Cristina Andenna sostiene a questo proposito che, in riferimento ai Mortariensi, quei vocaboli delineavano una istituzione centralizzata, composta da chiese affiliate a una chiesa caput, nelle quali tutti i membri vivevano in base a norme condivise e comuni a tutti, ma esclude che tale organizzazione fosse regolata da uno statuto elaborato secondo una vera e propria accezione giuridico-normativa.

Giova qui ricordare come Pasquale ii, che era stato un Canonico regolare, fu attivo nell’incentivare l’articolazione delle congregazioni regolari canonicali in organismi unitari, in Italia, in Francia, in Germania e in Inghilterra. Cosimo Damiano Fonseca asserisce che la strutturazione di aggregazioni estese di canoniche si rafforzò nella seconda metà del xii secolo, contestualmente a sopraggiunte necessità di tipo sia spirituale, sia socio-economico e politico, di pari passo con l’affermazione dei Comuni, l’affievolimento dell’autorità dei vescovi nelle città e il consolidamento del potere economico dei maggiori enti monastici14.

Il papa Callisto ii (1119-1124), successore di Pasquale ii, cedeva una chiesa donata alla Santa Sede nella diocesi di Torino ai Mortariensi mediante Alfano, il quinto preposito di Santa Croce, continuando così il regime delle donazioni.

L’attestazione documentaria della donazione si trova nel privilegio del 1134 di Innocenzo II (1130-1143), che tramanda altre fondamentali informazioni per la storia della congregazione di Mortara. Questo privilegio è “il primo atto formale di riconoscimento ufficiale da parte del papato della Mortariensis Ecclesia”15, secondo la prassi stabilita dal diritto canonico di approvare pro vera religione le esperienze di vita canonicale attraverso la formula firmamus ut ordo canonicus, concedendo anche la protezione apostolica. La conferma dell’incorporazione alla congregazione delle quindici dipendenze elencate, fra i priorati, le chiese e le cappelle, presenti nelle diocesi di Milano, Pavia, Novara, Acqui, Asti, Alba, Torino, Tortona e Genova fissa un altro passaggio considerevole del rescritto papale, che statuisce subito dopo la piena libertà di ciascuna dall’Ordinario locale a fronte del loro legame: nec episcopis aut personis quibuslibet eas ab ecclesie vestre unitate ac subiectione subtrahere16, clausola che risale a quella già utilizzata dalla cancelleria di Pasquale ii, da cui sono mutuati identicamente i termini ecclesie e unitati. Se non si può ancora parlare di una specifica modalità organizzativa17, tuttavia Innocenzo ii riconosceva alla congregazione l’unità messa insieme tramite le donazioni vescovili e vincolata dall’osservanza unanime delle consuetudini di Mortara.

La mancanza dell’attribuzione di una specifica regola in cui l’ordo canonicus potesse giuridicamente riconoscersi è il terzo punto notevole del privilegio.

Non si può motivare questo aspetto senza riferirsi alla politica pontificia nei confronti dei canonici regolari, considerando come i pontefici del secolo xii misero a punto per tappe graduali un diritto proprio per la vita comune e regolare del clero, servendosi degli atti ufficiali della cancelleria per stabilire gli orientamenti di una vera e propria forma di vita religiosa, posta alla fine sotto “il patrocinio e il nome della Regola di Sant’Agostino”18. Se la prima attestazione della formula ordo canonicus secundum beati Augustini regulam si trova, ma saltuariamente, nei documenti della cancelleria di Callisto ii, tuttavia non fu usata per precisare indistintamente tutte le esperienze di vita regolare canonicale19, nemmeno dopo l’ordinamento più puntuale voluto da Onorio

II (1124-1130), uscito dalle fila dei canonici regolari, soprattutto se le consuetudines delle congregazioni garantivano un sistema di norme confacente per sancire l’appartenenza alla Chiesa, come nel caso della canonica di Mortara. Il privilegio ricorda poi la visita di Innocenzo ii a Mortara nel 1132, di ritorno dall’esilio francese, al tempo dell’antipapa romano Anacleto II, a ribadire i legami del papato con la recente fondazione canonicale, circostanza che depone a favore dell’identificazione del presule pavese Bernardo con uno dei prepositi di Mortara, come vuole la tradizione20. Cristina Andenna, infatti, coglie tra le righe l’indicazione di un atto di riconoscenza del Pontefice, che fu Canonico regolare di San Giovanni in Laterano, verso il vescovo di Pavia, Bernardo, per essergli rimasto fedele nella controversia con l’antipapa.

La particolarità normativa dell’Ordine canonico mortariense.

All’incirca dopo un decennio, probabilmente nel 1144, durante il suo breve pontificato Lucio ii (1144-1145), già Canonico regolare di San Frediano di Lucca, si occupò dei Mortariensi almeno in due occasioni, quando creò Cardinale col titolo della chiesa suburbicaria di Palestrina il Canonico Guarino, che sarebbe stato canonizzato nel 1159 e ancora quando inviò a Oberto, il preposito succeduto a Bernardo, una conferma alla Mortariensis Ecclesia attraverso una lettera21, di cui abbiamo notizia nel privilegio di Eugenio iii del 1145.

Con questo privilegio Eugenio iii confermava quanto Innocenzo ii e Lucio ii avevano concesso ai Mortariensi riguardo alla proprietà dei beni, alle decime, alle prerogative pastorali e all’esercizio del culto. L’elenco delle chiese confermate saliva a diciotto, con una presenza anche nella diocesi di Vercelli22.

Nel protocollo e nel tenor compaiono i vocaboli e le formule particolari presenti nei privilegi precedenti: la conferma ut ordo canonicus viene nuovamente concessa senza nominare la Regola di Sant’Agostino. Questa omissione non casuale determina un’eccezione di indubbia importanza storica per la Chiesa Mortariense, di cui fu riconosciuta ufficialmente la regularem vitam.

L’eccezionalità risulta più evidente quando si considera che il privilegio fu concesso in una fase avanzata della riforma e si tiene presente la bolla di Eugenio iii del 1149, che segnò l’inizio della prassi pontificia di distinguere tra il modello della vita communis, da osservarsi da tutti i canonici, e quello della vita regularis, prescritto a chi era entrato a far parte di un ordo canonicus secundum Regulam beati Augustini23.

Cristina Andenna, studiando il documento da un punto di vista strettamente diplomatico, ritiene di poter imputare l’omissione circa il tipo di regola da seguire alla consuetudine della cancelleria papale di stendere i rescritti aggiungendo protocollo ed escatocollo alle minute presentate dai richiedenti, senza mutare le formule che erano state espresse nella richiesta. Nel caso del privilegio di Eugenio iii, la studiosa ipotizza all’origine una petizione ispirata al formulario di Gregorio vii o di Urbano ii ma, per correttezza storica, avverte che nel 1145 a una fisionomia giuridica ormai definita della vita religiosa corrispondeva una uniformità delle clausole cancelleresche impiegate per approvare le esperienze di vita canonicale, pertanto arricchisce la sua ipotesi di ulteriori spiegazioni. Innanzitutto afferma che “la curia romana aveva approvato la ‘particolare percezione giuridica’ dei petenti reputandola una eccezione” e soprattutto trae la conclusione che i Mortariensi attingevano i valori basilari della normativa e della progettualità della loro vita religiosa da altre auctoritates paritetiche a quella dell’Ipponense. Sembra opportuno qui accennare all’esistenza del codice ii-12 della prima metà del secolo xii della Biblioteca Civica Bonetta di Pavia, conosciuto anche con la precedente segnatura di codice B/28 ms. 146 del Museo Civico di Storia Patria di Pavia, perchè fornisce la documentazione completa e ordinata per appurare il verificarsi dello sviluppo da una fase “preistituzionale” a quella istituzionale di una canonica regolare dell’Italia settentrionale.

Cristina Andenna lo presenta nel suo lavoro costruendo un lungo excursus, vi si sofferma Carlo Egger nel suo contributo circa “Le regole seguite dai canonici regolari nei secoli xi e xii”24 e ne tratta Cosimo Damiano Fonseca nel suo studio “Canoniche regolari riformate nell’Italia nord-occidentale”.

Il codice assembla tra gli altri testi quello della Regula beati Augustini e della Regula sanctorum Patrum, entrambi di tipo normativo-disciplinare, un Martyrologium e le Consuetudines mortarienses, ambedue di tipo liturgico. Egger afferma che nei secoli xi e xii, nel processo di riforma della vita canonicale regolare, modificando la primitiva regola di Aquisgrana dell’816, si scrissero regole del genere della Regula sanctorum Patrum, redatta componendo tra loro passi desunti dal Vangelo, dagli scritti apostolici e patristici. In esse si dava largo spazio alle consuetudines liturgiche in vigore nelle zone dove erano ubicate le canoniche e entrate nell’uso della comunità. La Regula beati Augustini era citata oppure trascritta integralmente, ma solo nella fase successiva dell’azione riformatrice, intorno agli anni Trenta del secolo xii, essa venne imposta come l’“elemento giuridico per identificare i canonici regolari”25, perché era stata sciolta dall’Ordo monasterii, quindi era scevra delle norme strettamente monastiche.

Nelle regole dell’xi secolo in genere si impiegava la frase “secundum regulam Sancti Augustini” in rapporto alla vita comunitaria, nel senso che sant’Agostino aveva attuato con successo l’ideale proprio della vita apostolica, quello della perfetta vita comune.

I rapporti con la Sede pontificia e i Vescovi locali

Durante il pontificato di Adriano iv (1154-1159) non ci sono documenti che dichiarino il nome del preposito di Mortara dal 1153, anno in cui Oberto, sesto nella serie dei prepositi, lasciò l’incarico, fino al 1159, anno in cui iniziò la prepositura di Bonifacio. Abbiamo comunque la notizia che in quegli anni Adriano iv affidò ai Mortariensi la chiesa di San Nicola di Capodimonte appartenente al Patrimonio di San Pietro nel genovesato26, provocando in tal modo una vertenza con i canonici francesi di San Rufo, di cui lui stesso aveva fatto parte in qualità di abate, avendo destinato la medesima chiesa anche a loro, a distanza di tempo27.

Un altro documento del 1155 testimonia di un intervento del Pontefice per decidere di un contenzioso circa il versamento delle decime, aperto dal Capitolo della cattedrale di Novara contro due monasteri e due chiese mortariensi situati nel suburbio. Adriano iv riconosceva il diritto ab antiquo dei canonici della cattedrale a ricevere le decime, obbligando i quattro istituti implicati nella querela a versarle secondo la consuetudine, fatta eccezione per i prodotti dei novali. Alle due chiese mortariensi veniva imposto un onere non contemplato dalle antecedenti direttive papali indirizzate alle chiese della congregazione, che usufruivano di una esenzione molto ampia. I mortariensi ne beneficiavano in base alla comune normativa per le canoniche riguardo alle decime ritenute sui proventi delle terre lavorate dai canonici stessi o fatte lavorare a loro spese, ma godevano singolarmente di una copertura più larga accordata nei privilegi, a partire da Innocenzo ii fino a Eugenio iii, con la formula generica laborum vestrorum, che appariva raramente nei provvedimenti verso altre istituzioni e poteva alludere alle attività legate all’assistenza spirituale dei fedeli e alla celebrazione del culto, per le quali già il papa Leone iv (847-855) e successivamente Pasquale ii avevano permesso ai sacerdoti di ricevere le decime da parte dei laici. Prima di Adriano iv i Papi avevano assicurato ai Mortariensi l’esenzione in tutte le diocesi in cui sorgevano le loro chiese, ma le formalità convenute per la ecclesia mater subivano adattamenti in loco, specialmente se le chiese avevano stretto da tempo rapporti particolari con la sede vescovile. La decisione di Adriano iv va forse contestualizzata all’interno di questi usi locali, oltre che interpretata come un atto sintomatico della sua politica di riordinamento della materia delle decime nel diritto canonico, nel quale confluirono poi ufficialmente le chiarificazioni dettate da lui e dal suo successore circa i limiti e le possibilità delle esenzioni.

Alessandro iii (1159-1181), infatti, proseguendo negli orientamenti decisi da Adriano iv, tra il 1160 e il 1176, ingiunse a Bonifacio preposito di Mortara e ai canonici dei priorati liguri di corrispondere alla diocesi di Genova le decime dovute per i terreni delle canoniche messe a coltura per conto di terzi, ridimensionando in parte per queste canoniche le prerogative offerte dalla formula abituale laborum vestrorum 28. Nel 1168 il Pontefice prese altre misure di carattere organizzativo e istituzionale per la congregazione di Mortara, inviando in date ravvicinate due privilegi indirizzati a Bonifacio29, nei quali si prescriveva l’adozione della Regola di Sant’Agostino conformemente allo status di ordo canonicus accanto alle instituciones ordinis Mortariensis, veniva dichiarato il legame nullo mediante con la Chiesa Romana e data conferma della protezione apostolica; non si faceva menzione dei diritti sulle decime, tralasciando quindi la formula consueta laborum vestrorum. Il riconoscimento

ottenuto mediante la clausola nullo mediante svincolava di fatto le canoniche mortariensi dalla potestà vescovile circa la consacrazione degli altari, l’ordinazione dei chierici, la consegna degli olii santi e le affrancava dalla visita canonica dell’Ordinario che non poteva più comminare alcun provvedimento disciplinare nei loro confronti.

Più volte il papato aveva ulteriormente manifestato la sua benevolenza per i Mortariensi elevando qualche membro alla dignità ecclesiastica, come nel caso del preposito Oberto, ricordato in un documento quale vescovo di Tortona, quando ricevette una donazione a favore dell’ospedale di San Rainerio30 e di Bonifacio, nominato nel 1172 vescovo di Novara e ricordato dalla documentazione coeva fino all’anno 119131.

Il successore di Bonifacio alla prepositura fu Nicolao che, eletto nel 1172, effettuò nel medesimo anno l’annessione dell’ospedale di San Rainerio alla canonica mortariense di San Teodoro di Genova32. Ancora in quell’anno giunse la conferma di Alessandro iii alla soluzione di assegnare la chiesa di San Nicola di Capodimonte di Genova ai canonici francesi di San Rufo, sottraendola ai Mortariensi, ponendo fine a un contenzioso durato un decennio. Una serie di documenti informano sull’azione svolta dal preposito Nicolao negli anni successivi alla sua nomina, circa l’acquisto di un terreno a Mortara nel 117933 e l’istituzione nel 1182 di una messa periodica di suffragio per il nobile genovese Angelerio de Camilla34, così come parlano della sua presenza con altri autorevoli personaggi religiosi e laici all’atto tradito da un documento del 118335 in cui si compose la controversia intercorsa tra l’arcivescovo di Genova e il prete di una nuova canonica mortariense della città. Un documento successivo di qualche mese tramanda che Nicolao dovette pilotare l’accordo stipulato tra i canonici della cattedrale di Asti e i Mortariensi della chiesa di Santa Maria

Nuova della stessa città, riguardo alla imposizione delle decime sulle terre in possesso di questa chiesa: i canonici della cattedrale rinunciavano alla decima, dietro un compenso annuale di sedici soldi36.

La Curia Romana fu nuovamente attiva verso i Mortariensi nel 1184, allorché Lucio iii (1181-1185) confermò la donazione di un terreno alla chiesa di Santa Croce di Mortara, ponendo fine alla vertenza sorta con il monastero di San Benigno di Capodifaro nel genovesato.

Il privilegio del 1187 di Urbano iii (1185-1187)37, indirizzato a Nicolao si presenta come il punto di arrivo del percorso compiuto dalla congregazione di Mortara per acquisire la propria personalità giuridico-istituzionale ed assumere le coordinate di una forma di vita regolare. Veniva confermata la protezione apostolica, il legame nullo mediante con la Santa Sede, l’ordo canonicus secondo la Regola di Sant’Agostino, per cui i canonici rinunciavano ad avere proprietà personali dopo la professione e non potevano abbandonare la vita regolare senza il permesso del preposito. Di seguito erano elencati le dipendenze e i possedimenti, fino a quarantadue, tra priorati, chiese e cappelle e due ospedali, ormai dislocati anche nelle diocesi di Ivrea, Piacenza e Parma. Nel privilegio appare mutato l’ordine di sequenza nella designazione delle diocesi e accresciuto considerevolmente il numero delle chiese associate, rispetto al prospetto contenuto nel privilegio del 1145. Veniamo a conoscere un organigramma ideale della fase di maggior espansione della Chiesa Mortariense, che comprendeva per la maggior parte chiese appartenenti al patrimonio di San Pietro.

Nel 1196 Celestino iii (1191-1198) si rivolse con un documento ufficiale a Nicolao chiedendogli di giudicare circa il contrasto esistente tra l’arcivescovo di Milano e il Capitolo di Varese38. L’istanza frequente da parte della Curia romana per coinvolgere i Mortariensi nei casi di pertinenza giuridica ha fatto supporre agli storici una loro provata competenza nel diritto ecclesiastico.

Sappiamo che il preposito di Mortara nel 1198 era Palmerio – come palesa il documento probante la donazione di un terreno a lui fatta da parte dell’arcivescovo di Genova39 - noto conoscitore delle norme canoniche stabilite per la riforma della vita religiosa, come si può dedurre da alcune vicende.

Innocenzo iii (1198-1216) nel 1203 lo associava al vescovo di Vercelli, uno dei priori della congregazione di Mortara salito alla cattedra episcopale, e a un abate bolognese per attuare il processo di riforma dei monasteri esenti di proprietà della curia romana40. Nel 1217 Onorio iii (1216-1227) lo inviava con un abate e il preposito mortariense, titolari a Vercelli, a riformare l’abbazia di Breme in decadenza41.

La riforma del monastero di San Pietro in Ciel d’Oro di Pavia

Palmerio fu un personaggio coinvolto in avvenimenti decisivi per la svolta organizzativa e normativa della congregazione che, sotto l’impulso dei Pontefici esecutori del Concilio Lateranense iv del 1215, si tramutò da ecclesia in ordo, affrontando la riforma auspicata dai padri conciliari per le tradizionali forme di vita religiosa. Nella serie di provvedimenti pontifici in cui fu attore Palmerio emerge, per la gravità dell’intervento, la fama del cenobio implicato e le ricadute sulla stessa congregazione di Mortara, il riordinamento affidato dal papa Onorio iii al Cardinale legato Ugolino d’Ostia, il futuro Gregorio ix, e da questi imposto al monastero di San Pietro in Ciel d’Oro di Pavia, che versava in una pesante crisi economica, finanziaria e religiosa.

Nell’anno 1221 il presule presentava al Pontefice la proposta di trasferire i monaci in monasteri esterni alla città e di affidare San Pietro in Ciel d’Oro ai Mortariensi, perché questi canonici, che avevano consuetudine con gli ambienti della curia romana, erano apprezzati per il rigore di vita e seguivano la regola di Sant’Agostino, le cui spoglie erano conservate proprio in quel monastero pavese42. Ottenuta l’autorizzazione papale, Giacomo di Carisio, vescovo di Torino, su incarico del Cardinale Ugolino, consenzienti gli ecclesiastici, le autorità e il popolo della città, nell’agosto consegnava a Palmerio la chiesa e il monastero con tutti i possedimenti e i diritti, a patto di mantenere le obbligazioni di subordinazione alle entità sovraordinate, cui il cenobio già sottostava. Nel documento, tra le clausole che legittimavano il passaggio di consegne al preposito Palmerio, una stabiliva che l’abbazia sarebbe diventata caput illius ordinis Mortariensis43, decisione fondata sul fatto che in quel luogo prestigioso della città si custodivano i resti mortali dell’Ipponense e su un’istanza di Onorio iii, che considerava la chiesa di Santa Croce di Mortara non più funzionale per cause belliche al buon andamento dell’osservanza regolare, al punto che alcune canoniche dipendenti si erano ribellate. Il Papa stesso sarebbe tornato su questa clausola per confermarla, insieme a tutte le operazioni di riforma poste in essere nell’ardua vicenda, inviando una lettera nel mese di novembre44, mentre già da settembre Giacomo di Carisio otteneva dal Cardinale Ugolino di unificare l’abbazia alla canonica di Santa Croce di Mortara45.

In un documento dell’ottobre dello stesso anno 1221 Palmerio era menzionato come prepositus ecclesiarum Sanctorum Petri et Augustini in Celo Aureo et Sancte Crucis Mortariensis46, adottando nel caso del monastero propriamente il titolo di “abate”: occorre comunque riferirsi agli atti redatti nel 1225 per trovare documentata la presenza dei canonici nel monastero. Se insieme a questa circostanza si considera la lettera che Onorio iii inviò nel mese di settembre del 1225 al vescovo di Vercelli, perché trovasse una sistemazione ai monaci di San Pietro in Ciel d’Oro e li dividesse, dando diverse destinazioni, eliminando risolutivamente la possibilità da loro agognata di tornare in possesso della loro antica sede47, si deve dar credito a Cristina Andenna nel ritenere che “il completamento della riforma dovette durare alcuni anni”, ostacolata dalla “delicata situazione cittadina” e da “una crisi interna alla congregazione” di Mortara48.

La studiosa chiarisce che la riforma decisa per l’abbazia pavese coinvolse anche la Mortariensis Ecclesia in un processo di ristrutturazione dei fondamenti normativi e organizzativi, che suscitò in vari casi una risposta reazionaria. Non a caso, infatti, nei documenti emessi dai vescovi e dal Papa durante l’esecuzione dei vari mandati di riordinamento, la congregazione di Mortara viene indicata coi termini ordo Mortariensis49, già usati nel 1168 da Alessandro iii in luogo della formula preesistente ordo canonicus quem in eadem professi estis ecclesia. Il passaggio da ecclesia a ordo era deciso in base all’istituzione di un nuovo sistema giuridico, funzionante legittimamente attraverso gli istituti di controllo del visitatore e del capitolo generale, secondo una forma istituzionale nata presso i cistercensi. Fu Innocenzo ii a prospettare per la prima volta nei confronti delle congregazioni canonicali della Germania la creazione del capitolo generale, i cui membri effettivi erano i superiori di ciascuna canonica, che sceglievano il superiore del capitolo.

Quest’assemblea doveva riunirsi annualmente con il compito principale di occuparsi della disciplina della vita regolare della congregazione, ma non della singola canonica, perché ogni priore o preposito era sottoposto alla visita del superiore della canonica di cui aveva fatto parte prima di essere elevato in autorità, seguendo una modalità di affiliazione di tipo cistercense50. Ciò che Innocenzo ii aveva consigliato alle canoniche tedesche, nel 1215 fu ripreso e imposto agli ordini canonicali dal Concilio Lateranense iv, perché effettuassero un capitolo a scadenza triennale51.

Nell’ordine Mortariense la modificazione organizzativa incise tanto più sui rapporti “complessi e a volte anche molto differenziati”52 tra la chiesa principale e le chiese dipendenti, in quanto si trovò coniugato al trasferimento a San Pietro in Ciel d’Oro del titolo di caput, sottratto a Santa Croce, che avanzò rivendicazioni tali da richiedere alcuni interventi da parte di Gregorio ix, il Cardinale responsabile di tutta la cessione. Nel 1228 in ottobre, con una lettera inviata a tutti i priori e i canonici della Mortariensis Ecclesia53, il papa riaffermava che il trasferimento della sede della chiesa caput era stato indotto dalle devastazioni provocate a Mortara dalle guerre, causa per Santa Croce della perdita di vitalità e credibilità, per cui alcune dipendenze avevano tentato una scissione. Persistendo le resistenze, soprattutto da parte dei canonici di Santa Croce, Gregorio ix autorizzò il vescovo di Piacenza ad aprire un’inchiesta per appurare le cause del rifiuto e portarle a conoscenza della Curia romana, prima di porre fine alla vertenza con una risoluzione definitiva54. Essa arrivò nell’aprile del 1229 con una lettera in cui Gregorio ix stabiliva di porre il caput dell’ordine nel monastero di Pavia, sotto la reggenza del suo abate, cui avrebbero obbedito tutte le chiese dipendenti dal cenobio prima della unificazione con i Mortariensi e di affidare alla domus di Mortara il governo dell’ordine e la diretta giurisdizione su tutte le dipendenze di origine mortariense, dando facoltà all’abate pavese di intervenire per correggere l’operato del preposito e del capitolo di Mortara, ma negandogli in condizioni ordinarie questa funzione di controllo nei confronti delle canoniche dipendenti da Mortara55.

Le ultime difficoltà emerse nel riordino istituzionale e normativo furono superate con le disposizioni comunicate da Gregorio ix con una litterae del 1237 circa la celebrazione del capitolo generale annuale e l’elezione dell’abate e del preposito, e quelle circa l’esercizio del ruolo di visitatore da parte del preposito di Mortara presso l’abbazia di San Pietro in Ciel d’Oro.56 Gli ultimi atti del lungo processo riformatore risalgono al 1238, quando il preposito di Santa Croce riceveva da Gregorio ix il privilegio dell’anulum e del baculum, che gli dava il potere di amministrare ai confratelli gli ordini minori del sacerdozio57 e la chiesa-madre di Mortara recuperava il titolo di caput, senza nulla togliere comunque al prestigio del monastero di Pavia, “poichè attorno ad esso ruotavano gli interessi non solo della Chiesa pavese, ma al tempo stesso anche delle famiglie più nobili della città”58.

Notizie sull’epilogo dell’Ordine

Se verso la metà del xiii secolo la stabilità istituzionale era raggiunta, si complicava la situazione economica dopo l’acquisizione di San Pietro in Ciel d’Oro e non cessavano le vicissitudini della chiesa di Santa Croce di Mortara sottoposta ad eventi bellici e evacuata col trasferimento dei canonici a Zeme, in diocesi di Pavia, ma poi probabilmente ripristinata, come si può arguire dal fatto che esistono documenti pontifici posteriori al 1255 ad essa indirizzati.

Mentre gli episodi di belligeranza continuarono a creare disorientamento anche all’interno delle case religiose, si imponeva la nuova proposta evangelica degli ordini mendicanti, animata dallo stesso intendimento innovatore e riformatore che nei secoli precedenti aveva incoraggiato il moltiplicarsi delle esperienze di vita “regolare”, ora chiamate ad un confronto non sempre vincente. Per l’ordine Mortariense tutto ciò si rispecchiò nel decremento numerico dei membri, cui seguì un generale declino dell’organizzazione, che causò la pratica di affidare varie canoniche al clero secolare o a laici a titolo di commenda. L’ultimo atto ufficiale fu il capitolo generale di Tortona del 1448, convocato nel tentativo di risollevare le sorti della congregazione, ma l’iniziativa non ebbe successo. Nel 1449 il preposito di Mortara otteneva l’annessione dell’ordine alla Congregazione del Salvatore Lateranense da parte del superiore generale di questi canonici. Nel 1451 Nicolò v concedeva formalmente l’annessione e nel 1457 Callisto iii la confermava59. I Mortariensi furono considerati una filiale dei Lateranensi e furono ad essi equiparati nei rapporti con la Curia romana60.