Buffon Giuseppe ,
Recensione: Peter Turchin and Sergey A. Nefedov, Secular Cycles,
in
Antonianum, 85/3 (2010) p. 495-497
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Quali sono le forze che determinano la dinamica storica? Thomas Robert Malthus, in An Essay on the Principle of Population (1798), fu forse uno dei maggiori propugnatori della teoria dei cicli storici, mirando a dimostrare la dipendenza delle fluttuazioni demografiche da fattori di ordine prettamente economico e finanziario. La sua fortuna è dovuta in parte alla reperibilità relativamente facile di fonti a carattere economico. Alla fine del XVI secolo già si dimostravano disponibili di fatto delle compilazioni sulle fluttuazioni dei prezzi. Diversi storici, da Michael Postan a Emmanuel Le Roy Ladurie, approvarono a loro modo la teoria maltusiana, contrapponendosi alla linea seguita in genere dagli studiosi di orientamento marxista. A loro avviso, sono i fattori economici e biologici, piuttosto che la ‘lotta di classe’, a concorrere nel determinare il flusso della storia! Robert Brenner fu uno dei maggiori critici delle posizioni maltusiane di Le Roy Ladurie, mettendone in evidenza gli effetti di alcuni elementi di carattere sociale. Le due posizioni meritano di essere integrate, tramite la ricerca di una sintesi tra fattori demografici correlati alla dimensione economica e componenti di marca relazionale sociale.
Una delle maggiori omissioni sia della teoria marxista dei cicli storici sia di quella maltusiana è costituita senz’altro dal fattore ‘stato’. Lo stato non è formato solo dal prodotto delle classi dominanti o da quello delle élites economiche. Storici di valore quali Tuchman (Iron century), Hobsbawn (Age of revolutions) e ultimamente Jack Goldstone hanno chiaramente dimostrato la connessione tra decrescita demografica e crollo delle istituzioni statali. Gli autori dell’opera in esame – sulla base dell’assunto che studiosi di demografia, storia economica, storia sociale e scienze politiche danno ormai per assodato la presenza di oscillazioni cicliche nella storia europea; che il concetto di ciclicità degli eventi già indicato dai greci, è presente in tutta la tradizione cinese e islamica – intendono “…examine the hypotesis that secular cycles – demographic-social-political oscillations of very long period (centuries long) – are the rule rather the exception in large agrarian states and empires” (5). Gli stessi, avanzando ragioni di tipo formale, intendono giustificare le accuse di eccessiva schematicità della teoria proposta. Una teoria, a loro parere, per essere tale non sopporterebbe l’inclusione di un numero eccessivo di fattori, pena la perdita della sua efficacia ermeneutica.
La tabella riassuntiva presentata a p. 33 schematizza le componenti vettoriali a cui fa riferimento la loro ricerca, ossia gli elementi statistici sulla base dei quali verificare l’ipotesi da essi formulata: demografia, struttura sociale, forze statali, elementi di stabilità sociale. Gli autori ritengono naturalmente di essere pervenuti ad una conferma empirica della loro ipotesi teorica (303): fasi integrative prevedono in genere una demografia in aumento, al contrario di quanto succede in fasi disintegrative; per le fasi di declino in sostituzione dei dati demografici di scarsa reperibilità è sembrato utile far ricorso all’elemento degli stipendi (parametro che subisce uno sconvolgimento durante la cosiddetta rivoluzione industriale); le dinamiche delle élites sono state rilevate mediate la verifica della componente edilizia (templi, chiese, edifici lussuosi etc.); la salute dello stato è stata verificata con il controllo della tassazione (guerre civili incoraggiano le élites al versamento di maggiori tasse rispetto ai periodi di pace); la instabilità sociopolitica è risultata una variabile chiave per la teoria della struttura demografica. Alcuni risultati raggiunti grazie alla verifica empirica sono sintetizzabili nei seguenti termini: in periodi in cui si verifica una crescita della popolazione (in un sistema agrario) è riscontrabile anche un aumento dei prezzi dei generi basilari – cibo, energia, terra – con una conseguente diminuzione degli stipendi; un aumento della popolazione conduce ad una maggiore produzione, ma anche ad una crescita dei consumatori, con il conseguente incremento della ricchezza a tutto vantaggio delle élites dominanti (proprietari terrieri); una sovrapproduzione invece impoverisce le medesime élites; l’instabilità sociale appare costituita da almeno tre fattori di cui il primo corrisponde alla sovrapproduzione, mentre la sovrappopolazione causa miseria ma non necessariamente instabilità, qualora le élites risultino compatte; il secondo fattore, la sovrapproduzione, produce invece concorrenza tra le élites e quindi formazione di gruppi opposti, con il pericolo di provocare rivolgimenti popolari; il terzo fattore coincidente con la crisi degli apparati statali si rivela il meno incisivo. In conclusione, gli autori professano una convinta fiducia in uno studio della storia volto a costruire una teoria, ossia orientato secondo i canoni del positivismo scientifico applicato nelle scienze cosiddette esatte, quali la biologia, la chimica, e non ultimo naturalmente la statistica, che costituisce praticamente la loro esclusiva risorsa metodologica. La formulazione di una teoria, a loro giudizio, benché strumento euristico parziale, provvederebbe allo studioso almeno un punto di partenza perfettibile mediante ulteriore verifica empirica. La lettura dei risultati e delle correlate argomentazioni sembra lasciare insoluta però una questione, che si dimostra fondamentale, ossia quella della specificità del metodo storico. Dalla soluzione di tale problema dipende infatti, non solo l’originalità dell’apporto dato dalla storia alle conoscenze, ma il senso stesso del mestiere dello storico.
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