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Recensione: Frank Donoghue, The Last Professors: The Corporate University and the Fate of the Humanities

 
 
 
Foto Oviedo Lluís , Recensione: Frank Donoghue, The Last Professors: The Corporate University and the Fate of the Humanities, in Antonianum, 84/3 (2009) p. 623-626 .

Tempi duri per i professori universitari: e la prima impressione che si ricava dalla lettura di questo volume, che ci aiuta a fare una diagnosi della situazione attuale nelle università americane, un panorama che si mostra particolarmente incerto per i giovani che aspirano per vocazione a diventare docenti.

Anche se il libro riduce la sua analisi all’ambito nordamericano, molti dei motivi di crisi possono riscontrarsi anche in altri paesi, almeno in Europa.

La cosa non stupisce, se teniamo conto della situazione di precarietà dei docenti e della loro difficoltà a accedere a posti stabili, soprattutto nelle facoltà umanistiche. La carriera accademica diviene dunque un’impresa ardua e dall’esito incerto, oltre che scarsamente redditizia sotto il profilo economico.

La svalutazione del professore universitario non e, seguendo le analisi di Donoghue, un fatto recente, ma il risultato di una serie di processi che risalgono all’inizio del secolo XX e che precipitano nell’ultima decade di quel secolo, con conseguenze sempre più critiche per l’identità e la funzione dei docenti.

Il primo passaggio della crisi si può descrivere come un processo di disaffezione – da parte di imprenditori, figure dell’industria americana e uomini politici – nei riguardi delle università, verificatosi all’inizio dell’ultimo secolo. Si succedono le accuse e i manifesti contro un’istituzione che e ritenuta inefficace o poco operativa riguardo ai bisogni reali di formazione di nuove leve di tecnici, e in rapporto a sistemi di gestione che mostrano grande produttività in altri settori. Gli studi umanistici e i professori responsabili del loro insegnamento sono sempre più sotto mira da parte di una visione molto più efficientista della società, essenzialmente volta al progresso. Chiaramente, come segnala già il sottotitolo del libro, l’intervento della “cultura corporativa” o della gestione efficace determina i cambiamenti in corso e la profonda crisi del ruolo del docente e del ricercatore.

Nel corso del ventesimo secolo si rintracciano poi altre tendenze, che puntano a una definitiva imposizione del modello manageriale nell’università moderna. Un primo caso e l’incremento della competitività nei campus: si riducono sempre più le cattedre, e dunque s’inasprisce sempre più la concorrenza per accedere a posti tanto ambiti, il che crea situazioni di grande difficoltà e un futuro incerto, che scoraggiano molte delle possibili carriere accademiche. Infatti molti studenti s’indebitano per poter proseguire gli studi, e l’ipotetica prospettiva di riuscire a ottenere un posto fisso rende sempre meno fattibile il recupero delle spese investite. Il dottorato diventa un traguardo quasi impossibile che richiede molti anni, e che si rinvia a causa dell’obbligo di insegnare parecchie ore avvertito da molti giovani ricercatori, sia per motivi finanziari che per esigenze delle Facoltà. Il precariato diviene quindi la situazione di fatto di molti professori nella maggior parte delle università.

Un’analisi a parte merita quel processo di precariato accademico e di erosione del sistema di accesso a posti stabili, che in America viene chiamato tenure. Diversi motivi concorrono a creare tale tendenza. Alcuni sono di ordine culturale, come la perdita di prestigio che subiscono i professori stabili a causa della loro scarsa produttività e dei loro privilegi. Inoltre, l’obbligo di pubblicare diventa un impegno frustrante date le condizioni attuali delle edizioni universitarie. Ma forse la tendenza che incide maggiormente e di carattere economico: la possibilità di “dislocare” il lavoro di insegnamento dai professori fissi o cattedratici a quelli aggiunti, che costano molto meno alla istituzione e possono essere rimpiazzati senza grandi difficoltà.

Certamente in tutto questo processo viene meno la ricerca, che molte università non ritengono parte essenziale della loro attività e missione; piuttosto, essa e orientata a conferire titoli e garantire l’accesso ai migliori posti di lavoro. La cosa diventa più drammatica nelle facoltà umanistiche, dove i benefici degli investimenti nel settore della ricerca sono molto meno palesi che in altri settori scientifici o tecnici.

Comunque, la tendenza attuale a rendere le università ditte di servizi redditizie, gestite con criteri di massima efficienza, sta ridisegnando la mappa accademica e sta dando luogo a un modello di educazione superiore for-profit. In questo schema i professori-ricercatori hanno uno spazio molto limitato, e le umanità sono in via di estinzione, per ovvi motivi, data la loro mancanza di spazio entro uno schema educativo che punta a valori agli antipodi di quelli che definiscono le discipline classiche. Tale propensione si accentua ancor di più con l’introduzione dell’insegnamento on-line, o dei programmi educativi a distanza e computerizzati, che rendono ancor meno necessaria la figura del professore.

L’ultimo capitolo del libro affronta la questione del prestigio e della relativa invidia. Negli USA il prestigio viene misurato attraverso ranking che classificano le università conferendo loro un dato valore. Il significato di tale ordinamento non e soltanto accademico, ma altresì economico: diversi studi dimostrano che i titolati presso centri di maggiore prestigio guadagnano di più nella loro vita professionale. Tali procedure hanno un effetto perverso, che spesso porta a un distacco tra diversi modelli di università, nonché tra i loro preventivi. Pare che le discipline umanistiche resistano soltanto in alcune università di elite e in un ambiente esclusivista, il che non è molto consolante.

Le ultime pagine del libro lasciano un sapore alquanto amaro riguardo il futuro degli studi umanistici e dei loro professori, specialmente a causa dell’incapacità di molti di essi di comprendere i processi nei quali si trovano immersi e di adeguarsi alle nuove circostanze; essi sono chiamati a rinunciare all’idea che le loro discipline abbiano un certo “privilegio” e siano in grado di sopravvivere all’attuale crisi a causa del loro intrinseco valore.

Non troviamo quindi soluzioni, ma un appello a diventare consapevoli della crisi e delle sue cause, a cogliere i segnali che provengono dalle tendenze in atto, e a reagire cercando di fare i conti con la situazione. Si legge tra le righe che anche i professori di questo campo minacciato dovrebbero essere in grado di “vendere” il loro prodotto e di impegnarsi nel rivendicare il suo valore in un mercato sempre più concorrenziale.

Non sono sicuro riguardo alle linee tracciate per il futuro e di quanto le società avanzate possano fare a meno delle discipline umanistiche, dei loro professori e ricercatori, e a quale prezzo. La questione si pone in termini simili a quella della sopravvivenza della religione in ambienti molto secolarizzati, che sembrano poterne fare a meno senza che i singoli e i gruppi ne risentano troppo. Certamente, sia la religione che le materie umanistiche devono reinventarsi in un ambiente divenuto non tanto ostile quanto indifferente alla loro presenza e al loro contributo, segnatamente quando la società si organizza – o forse si disorganizza – su altre basi e valori. Certo, non si può pretendere di conservare lo status e la rispettabilità di altri tempi: tuttavia, ci sembra che la loro perdita o venir meno costituirebbe un fatto grave, e di sicuro un impoverimento per le generazioni future, prive della ricchezza che tali discipline trasmettono.

Insomma, il libro di Donoghue costituisce non un testamento, ma un richiamo alla responsabilità di tanti colleghi che sicuramente possono fare di più per far fronte a tale crisi. Comunque sia, un’altra impressione che se ne ricava e che, almeno in parte, i bei tempi in cui gli studi umanistici fiorivano, erano riconosciuti e compensavano in tutti i sensi i ricercatori ad essi dediti sono ormai passati. Coltivare tali discipline e ricerche diventa sempre più un fatto vocazionale, dunque non legato ai compensi economici, piuttosto magri, ne a un’improbabile carriera universitaria, sempre meno accessibile. Ci auguriamo tuttavia che si continui a pubblicare al ritmo attuale, a celebrare tanti convegni, e ad offrire queste conoscenze a chi nella vita aspira a una saggezza che non si misura soltanto sulla base del capitale economico che essa riesce a procurare.