Tammaro Ciro ,
Recensione: ANTONIO VIANA, Derecho Canónico Territorial, Historia y doctrina del territorio diocesano,
in
Antonianum, 78/1 (2003) p. 387-390
.
L’Istituto Martín de Azpilcueta della Facoltà di Diritto Canonico dell’Università di Navarra si è messo in evidenza, soprattutto negli ultimi anni, per la pubblicazione di studi su temi giuridico-canonici di grande attualità, scritti da specialisti ma con un fine di ampia divulgazione.
Mai come in questo caso sembra che la scelta dell’argomento da parte dell’autore sia stata particolarmente felice.
Il Prof. Antonio Viana, docente di Diritto dell’organizzazione ecclesiastica presso la Facoltà di Diritto Canonico dell’Università di Navarra, con il presente lavoro contribuisce, infatti, in maniera significativa ad arricchire un tema quanto mai attuale, oggetto, negli ultimi anni, di molti spunti di riflessione da parte della dottrina.
Il rapporto tra principio di territorialità e principio di personalità nell’ordinamento canonico costituisce una questione fortemente dibattuta fin dalle origini della Chiesa. Viana sottolinea come, fin dai Concili più antichi (Nicea: 325; Antiochia: 341; Cartagine: 345; Costantinopoli: 381; Calcedonia: 451; Arlés: 554; ecc.), la legislazione occidentale ed orientale della Chiesa, sia a livello particolare che universale, abbia dimostrato sempre di considerare il principio di territorialità come principio-norma o principio-cardine dell’organizzazione ecclesiastica; tuttavia non nel senso di ritenerlo un modo per l’identificazione di una Chiesa particolare, coessenziale e costitutivo della stessa, o un meccanismo di delimitazione dell’attività di tale Chiesa ad uno spazio geografico definito e tassativo, bensì come strumento per disciplinare l’applicazione della potestà episcopale nei confronti dei vari gruppi di fedeli.
Si trattava, infatti, di regole concrete per la pianificazione di svariate attività canonicamente rilevanti: divieti di risiedere in un dato luogo o di ordinare sudditi altrui, obblighi di ricevere il consenso dell’autorità locale per fare alcunchè, disciplina dei luoghi di culto, ecc.
Tutto questo sforzo legislativo, a parere di Viana, promuoveva esplicitamente la territorialità soprattutto come regola per un governo efficace, a tutela della pace e del bene comune; si trattava, infatti, di un meccanismo finalizzato ad evitare i conflitti tra i Vescovi e a garantire, mediante l’istituzione di rigidi limiti territoriali, la certezza del diritto nell’esercizio della potestà di regime. E’ sufficiente esaminare gli Atti degli Apostoli e le Lettere Paoline per constatare, infatti, come, nell’organizzazione della Chiesa primitiva, il territorio venisse utilizzato, in particolare, come uno strumento o un parametro per individuare nello spazio etnico-geografico una determinata Chiesa particolare: le espressioni più usate erano, infatti, “la Chiesa che è in Roma; la Chiesa che è in Corinto, ecc.”.
Le Chiese particolari venivano, dunque, ontologicamente, considerate come comunità di persone, gruppi di fedeli, all’inizio essenzialmente nomadi, sotto la guida di un Pastore, che svolgevano la missione loro affidata da Cristo vagando nello spazio e nella storia.
D’altra parte, secondo l’autore in esame, la relazione territorialità/personalità è anche espressione della tensione tra particolare ed universale che, sempre presente nella storia della Chiesa, ha assunto forma concreta sin dal Medioevo, a partire dalla polemica medievale tra clero secolare e ordini mendicanti. Tale polemica, che ebbe luogo soprattutto tra maestri secolari e teologi appartenenti agli ordini mendicanti (tra cui S. Tommaso d’Aquino e S. Bonaventura), durante il secolo XIII° nell’Università di Parigi, si incentrò, in particolare, sulla diatriba tra la tesi secolare relativa al principio dell’unità della giurisdizione nella Chiesa particolare e della potestà immediata del Vescovo diocesano nel proprio territorio e la tesi dei mendicanti sulla dinamicità del primato universale, consistente in una potestà immediata del Papa sui fedeli di qualunque diocesi.
Fu necessaria, dunque, un’ampia serie di interventi normativi pontifici che, fornendo una soluzione giuridica al problema, assicurassero autonomia agli ordini mendicanti, tramite, ad esempio, l’istituto dell’esenzione, ma nel contempo garantissero anche ordine ed unità alle attività pastorali svolte all’interno della Chiesa particolare, mediante, tra l’altro, un sistema di relazioni territorialmente coordinate tra Vescovi e Superiori religiosi.
Con la rottura dell’universalismo politico-religioso e la fine del cosmopolitismo medievale, la persistente tensione tra particolare ed universale esigeva nuove formule giuridiche per poter raggiungere una posizione d’equilibrio. Nell’età moderna, dopo la riforma protestante e la nascita degli stati nazionali, la profonda revisione della disciplina ecclesiastica attuata dal Concilio di Trento (1545-1563) comportò, in apparenza, una forte affermazione del principio territoriale nell’organizzazione della Chiesa. Il sorgere delle monarchie assolute fece sì che il regime giurisdizionale della Chiesa si configurasse in modo analogo a quello degli stati assolutistici, ossia fondandosi su parametri spiccatamente territoriali, perché ciò forniva maggiore garanzia di sicurezza contro le minacce di aggressione di altre società politiche, e di certezza normativa nell’amministrazione ecclesiastica. Questo processo di presunta “territorializzazione” del diritto ebbe una enorme influenza sulla Chiesa ed avrebbe improntato, in seguito, l’intera disciplina organizzativa prevista dal Codice del 1917.
Tuttavia, Viana sottolinea come il primato del Sommo Pontefice, espressione massima del principio di personalità poiché il Papa è titolare di una potestà immediata di natura personale sui fedeli di qualunque Chiesa particolare in qualunque luogo essi si trovino (esercitata, certo, pur sempre su base territoriale, ossia “in territorio universi orbis”, ma a prescindere da qualunque limite territoriale specifico), abbia, in tale epoca, utilizzato l’istituto dello spazio territoriale separato o “nullius dioecesis” per neutralizzare le spinte centrifughe dei poteri episcopali nell’ambito delle singole Chiese locali.
Lo spazio territoriale separato consisteva in un territorio, non appartenente ad alcuna diocesi, con clero e popolo governato, per privilegio papale ed in nome del Pontefice stesso, da un Prelato inferiore, secolare o religioso, dotato di potestà “quasi-episcopale”, ossia di potestà di regime equiparata dal diritto a quella di un Vescovo diocesano, ma con potestà d’ordine non necessariamente di natura episcopale, giacchè il Prelato spesso non veniva consacrato Vescovo.
Il Prelato non era Vescovo nel senso sacramentale, o perlomeno non lo era finchè non avesse ricevuto l’episcopato come sacramento, ma era Vescovo in senso funzionale, dal momento che esercitava la potestà di giurisdizione propria dei Vescovi, ed era provvisto, da tale punto di vista, degli stessi “iura episcopalia”, fino al punto di essere considerato unico Ordinario del luogo sul clero e sul popolo del territorio separato.
A parere di Viana, il fondamento teologico di tale istituto era rinvenibile nella dottrina ecclesiologica classica, dominante in epoca tridentina, secondo cui la potestà d’ordine derivava da Cristo, mentre la potestà di giurisdizione era trasmessa, anche separatamente, dal Papa. Il fondamento giuridico, invece, era configurabile nella sollecitudine dell’ufficio primaziale nei confronti delle Chiese particolari: il Papa, come manifestazione di servizio alle Chiese particolari, poteva costituire uffici o istituzioni che rafforzassero o completassero le possibilità di organizzazione pastorale ordinaria, rispettando, beninteso, la potestà propria dei Vescovi nelle rispettive Chiese particolari, che formava parte della struttura costituzionale della Chiesa.
Ma la considerazione forse più interessante di Viana, in relazione all’istituto del territorio “nullius dioecesis”, consiste nell’aver rilevato come il rafforzamento dell’elemento territoriale, nel periodo tridentino, sia stato, in definitiva, puramente formale: si trattò, paradossalmente, solo di un mezzo concreto di esercizio della potestà universale, di natura personale, da parte del Romano Pontefice, per il bene di tutta Chiesa.
Il Concilio Vaticano II comportò una rivalutazione del concetto di Chiesa particolare intesa soprattutto come comunità: il Decr. Christus Dominus, n. 11, definisce la diocesi, la Chiesa particolare per eccellenza, come un “porzione del Popolo di Dio, affidata alle cure pastorali di un Vescovo coadiuvato dal presbiterio…”. Tale concetto implicò una esplicita affermazione, a livello ecclesiologico, del principio personale come parametro dell’organizzazione ecclesiastica. Il Decr. Presbyterorum ordinis, n. 10, prevedeva, infatti, la possibilità di istituire peculiari diocesi (diocesi personali) e prelature personali che potessero, tra l’altro, realizzare attività di cura pastorale speciale, a beneficio di determinate regioni o nazioni o a vantaggio di specifiche categorie sociali. Il senso di tale disposizione, come avverte Viana, va interpretato alla luce dei nuovi problemi sociali e pastorali del XX° secolo, causati dall’aumento della mobilità sociale e dal mutamento delle condizioni socio-economiche dei gruppi umani. In sostanza, si trattava di garantire una cura spirituale quantitativamente sufficiente, e, soprattutto, qualitativamente adeguata, a determinate categorie sociali che, per le condizioni particolari del loro lavoro, o per altre circostanze, subivano l’allontanamento coatto dal loro luogo di origine (profughi, emigranti, nomadi, ecc.). Ciò era possibile solo utilizzando strutture ecclesiastiche molto flessibili, costruite, dunque, su base personale.
L’affermazione dell’elemento personale veniva recepita anche dal Codice del 1983, il quale, al can. 372, dopo aver affermato che l’organizzazione della Chiesa rimanesse costruita principalmente su base territoriale (§ 1), sanciva la possibilità che la Suprema Autorità erigesse, qualora l’utilità lo suggerisse, nello stesso territorio Chiese particolari di natura personale, distinte sulla base del rito dei fedeli o per altri simili motivi (§ 2).
Viana fa osservare come tali strutture a base personale, assimilate o equiparate dal diritto, secondo i casi, alle diocesi territoriali, costituiscano, ancora una volta, mezzi promananti dalla potestà primaziale del Romano Pontefice su tutti i fedeli dell’orbe cattolico, per garantire un servizio alle Chiese particolari, per il bene di tutta la Chiesa, a norma del can. 333 § 1. Tali strutture, in realtà, svolgendo compiti pastorali speciali, completano e rendono più efficace l’ordinaria cura pastorale diocesana, soprattutto quando questa sia particolarmente carente per mancanza di mezzi e di personale.
Va, infine, rilevato che l’originalità del presente studio si evidenzia anche nel fatto che l’autore, con notevole apertura di vedute, nell’esaminare i diversi argomenti, menziona anche le principali teorie costruite dalla dottrina su ciascun tema specifico da lui trattato.
In definitiva, Viana, prendendo in esame sovente la problematica trattata non solo in chiave puramente giuridico-teorica, ma soprattutto sotto il profilo storico ed alla luce, oltre che della normativa di riferimento, anche della concreta prassi di governo nell’ambito delle Chiese particolari e delle circoscrizioni similari, dimostra una chiara vena di realismo in grado di conciliare teoria e pratica, criteri teologici e criteri giuridici, non rimanendo mai vincolato ad una sistematica astrattamente preconcetta.
Queste considerazioni rendono, tuttavia, solo parzialmente ragione della ricchezza di contenuti di questo libro e dei meriti dell’autore, poichè avrebbero richiesto una ben più ampia ed approfondita valutazione.
Concludendo, da quanto fin qui esposto pare emerga, in fin dei conti, il valore di questo studio: esso affronta, senza dubbio, un tema già molto discusso in dottrina, tuttavia lo esamina in maniera completa ed esaustiva, sia sul piano storico che giuridico, offrendo una panoramica dettagliata ed aggiornata del dibattito della canonistica sull’argomento.
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