Paggiossi Marco ,
Recensione: P. GIACOMO DA BISIGNANO, Vita, morte e miracoli maravigliosi del devotissimo et umilissimo servo di Dio e di Maria Vergine fratUmile da Bisignano,
in
Antonianum, 78/4 (2003) p. 734-736
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“Quantunque obediente, e non facesse conto delli beni temporali e robbe mondane, quando questo servo di Dio viveva nel secolo, e se pure ne possedea alcune, non vi stava altrimenti attaccato, né faceva stima anzi stimavali fango vile e pozzolente per amor del suo Signore, quale teneramente amava”. Così scrive p. Giacomo da Bisignano (libro II, cap. IV) a proposito dell’ideale di povertà espresso da fra Umile, al secolo Luca Antonio Pirozzo, il francescano nato nel 1582 a Bisignano, piccolo comune alle pendici della Sila greca, morto nello stesso luogo nel 1637. Egli, però, godette in vita di una straordinaria fama popolare non per la sua semplicità e il suo distacco dai beni effimeri, quanto piuttosto per i fenomeni estatici, le guarigioni improvvise e le profezie che lo videro protagonista dapprima nella città natale e, successivamente, nella Roma di Gregorio XV e Urbano VIII.
Il merito di aver riscoperto e proposto all’attenzione degli studiosi una fonte inedita di grande importanza per la storia del francescanesimo si deve ancora una volta agli interessi di uno studioso attento alla realtà locale, una realtà che rimane spesso ai margini della ricerca, nella quale però, come nel nostro caso, operarono uomini generalmente poco conosciuti, ma che parteciparono in modo significativo alla testimonianza di Francesco.
Dalle pagine dell’opera, che documenta vicende di grande significato per la storia spirituale e culturale della Controriforma, appare un mondo segnato da una fede vissuta con un’intensità ed una visibilità mai conosciute prima: la Chiesa post-tridentina, di cui fra Umile è figlio, sceglie di contrastare l’ideologia protestante non soltanto ricorrendo alla predicazione, ma esaltando anche il sentimento religioso popolare che si esprime attraverso riti e cerimonie di forte impatto emotivo e di grande suggestione, come nel caso delle processioni organizzate dalle varie confraternite religiose sorte in questo periodo, vere e proprie rappresentazioni teatrali.
Purtroppo la piena fruibilità e la godibilità di questo testo straordinario non è sempre agevolata dall’edizione critica curata dal Falcone, che in molti casi non brilla per metodo e rigore scientifico. La stessa Introduzione (pp. IX-XXVII) non è un esempio di chiarezza e molte deduzioni formulate dal curatore sono del tutto gratuite.
A p. XVIII egli scrive: “Nel 1882 veniva elevato alla gloria degli altari, assieme al “poverello” di Bisignano anche un altro grande figlio di Francesco d’Assisi, fra’ Carlo da Sezze, della stessa famiglia francescana, perciò [?] nel 1886, ad Anversa, veniva data alle stampe un’opera in lingua tedesca di un tale autore Verbiest, dal titolo Humilis von Bisignano und Carolus von Setia”. Ci si chiede per quale motivo il Falcone consideri scontata una pubblicazione straniera sui due francescani: basta a giustificarla il solo fatto che nel 1882 i due fossero stati beatificati?
Sempre nell’Introduzione, a p. XX, il Falcone scrive: “Sicuramente padre Giacomo intendeva raccogliere notizie esatte e circostanziate, con deposizioni giurate, in vista dei Processi di beatificazione e canonizzazione che già l’Ordine in quegli anni aveva iniziato ad approntare […]. Ce lo conferma l’autore stesso, a chiusura del Libro Primo […]”. Che tra le occupazioni di p. Giacomo ci fosse anche la raccolta di notizie su fra Umile, fornite da persone di provata fede, è facile intuirlo, ma che egli scrivesse in vista di un processo di beatificazione non è certo provato, come pretende il curatore, da quanto p. Giacomo scrive alla fine del libro primo, dove si limita a giurare che quanto è stato scritto corrisponde a verità e che tutti i testimoni ascoltati hanno dichiarato solamente il vero (cfr. p. 25).
Nulla o quasi è detto del manoscritto: il Falcone non precisa neppure di quanti fogli sia costituito. Inoltre non sembra avere le idee abbastanza chiare su cosa sia un “archetipo” e un “originale”: a p. XXI scrive che “il manoscritto così come si presenta oggi potrebbe però anche essere copia di un originale perduto, dal quale sarebbe stato trascritto il testo in nostro possesso”, mentre a p. 105, n. 39, a proposito di una lacuna contrassegnata da puntini afferma che essa è “una ulteriore conferma che non siamo in presenza dell’archetipo, ma di un testo esemplato su una copia precedente”.
A proposito del sistema grafico adottato, a p. XXVII il curatore scrive: “Fra parentesi quadra abbiamo lasciato nella trascrizione i soli interventi di altra mano di ordine linguistico che si rivelano necessari alla comprensione del testo”. Una qualche delucidazione non sarebbe stata superflua.
È indiscutibile che l’italiano usato da p. Giacomo da Bisignano non brilli per chiarezza, e infatti non mancano passi il cui significato non è affatto perspicuo (un esempio a caso, p. 12, “Dal che molto stupito rimase il servo di Dio, vedendo, come sapeva il successo don Marc’Antonio suo maestro, se che prima gli n’avesse fatto alcun motto”). Non si può dire che la punteggiatura introdotta liberamente dal curatore perché “nell’originale non esiste o è impropriamente usata” aiuti sempre.
Oltre a ciò, il Falcone sa bene che (p. XXI) “siamo in presenza di un’opera di straordinaria importanza e non solo per la narrazione agiografica, ma anche per ragioni linguistiche, di topografia locale [...]”. Ed è un vero peccato che i non pochi termini rari, taluni praticamente sconosciuti, che si incontrano nel testo, gli usi e tradizioni locali, la vita concreta in cui fra Umile testimoniò la potenza del Signore, siano rimasti senza uno straccio, non si dice di commento, ma di elementare spiegazione.
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