Oppes Stéphane ,
Recensione: T. MORETTI-COSTANZI, Dall’essere all’esistenza e dall’esistenza all’essere. Corso di Filosofia Teoretica anni 1953-54 / 1954-55 ,
in
Antonianum, 76/3 (2001) p. 589-593
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Contemporaneamente al primo dei volumi dell’opera omnia di Teodorico Moretti–Costanzi, ha visto la luce anche il 29° volume: come già il sottotitolo indica, esso contiene i corsi che il filosofo tenne negli anni accademici 1953-54 e 1954-55, i primi due corsi di Filosofia Teoretica che egli tiene nell’Università di Bologna; il Moretti–Costanzi, professore incaricato di Estetica all’Università La Sapienza di Roma, era stato infatti chiamato dalla Facoltà di Lettere dell’ateneo bolognese per l’insegnamento della Teoretica proprio nell’anno 1953, e perciò il primo corso è stato fatto precedere da una Prolusione dal titolo “Cosa significa filosofare”. Dopo l’ampia introduzione di Marco Moschini — un saggio sul metodo e i contenuti dell’insegnamento di Moretti–Costanzi — il nostro volume presenta, prima edizione, la Prolusione al corso di Filosofia Teoretica del 1953-54, le quarantasei lezioni tenute per lo stesso corso, accompagnate da degli “appunti finali”, e le quarantotto lezioni del corso dell’anno accademico 1954-55; si tratta, in verità, più che di lezioni, degli schemi su cui il filosofo, discorrendo, teneva la lezione del giorno, la cui data è riportata nella nostra edizione, accanto al numero progressivo di ciascuna lezione; ogni schema di lezione è semplicemente una scaletta, un indice, progressivamente numerato, di pensieri e ragionamenti che il professore avrebbe nell’ordine seguito e sviluppato dalla cattedra: ma tale stile spoglio ha la virtù di riportarci alla vividezza di quelle lezioni e del pensiero del loro allocutore.
Il curatore di questa prima edizione dei due corsi di Teoretica – che con una singolare acribia presenta nel testo i pur rari errori del filosofo nel numerare a modo di scaletta i pensieri per la lezione come anche le poche traslitterazioni dal greco che invece il Moretti–Costanzi generalmente utilizzava nei suoi caratteri originali –, ci offre, con la introduzione al volume, un primo e fondamentale studio monografico di tali appunti; Moschini infatti mette in luce la fecondità di tali lezioni universitarie: in esse sono già presenti, diremmo in nuce, le tematiche delle grandi opere di Moretti–Costanzi, a cominciare da La filosofia pura (1959) a cui i nostri due corsi pubblicati ci rinviano quasi automaticamente: si ricordi che la Prolusione con cui si apre il corso del ’53 porta l’inequivocabile titolo «Cosa significa filosofare»; e nella lezione prima di tale corso il filosofo esordisce: «oggetto del presente corso è la filosofia in quanto tale». Anche il tema della filosofia come ascesi, sviluppato già nella prima edizione de L’asceta moderno (1945) è presente ed in maniera rilevante nei due corsi, in quanto l’ascesa è condizione necessaria perché si giunga alla filosofia nella sua purezza. Fra i filosofi presenti in modo rilevante nei nostri appunti e ai quali il filosofo Moretti–Costanzi dedicherà saggi specifici son da ricordare Heidegger, Spinoza, Bonaventura e Anselmo.
Dall’Essere all’esistenza è il titolo del primo corso di lezioni, mentre quel-lo del secondo corso suona Dall’esistenza all’Essere: un singolare chiasmo nel quale riscontriamo i termini chiave del filosofare morettiano. Tale chiasmo descrive, nella interpretazione di Moretti–Costanzi, la parabola discendente della storia del pensiero filosofico occidentale verso la perdita di uno stato di filosofia superiore (dall’Essere all’esistenza), il livello di una filosofia che verrà in seguito definita come “pura”; e descrive altresì lo sforzo speculativo dello stesso Moretti–Costanzi per un recupero della centralità dell’Essere in seno alla filosofia (dall’esistenza all’Essere). Indugiamo ancora entro un orizzonte linguistico e mentale caro al nostro filosofo; diremmo che i due corsi tratteg-giano l’exitus del pensiero occidentale dal suo stato superiore di “coscienza dell’Essere” verso l’inferiore stato di intelligenza concettuale dello stesso Essere: un tale pensare l’Essere nelle anguste mediazioni del concetto e della scienza ha portato la filosofia e lo stesso uomo necessariamente fuori dall’Essere, “ex–sistere”; compito della filosofia morettiana è invitare l’uomo ed il suo pensiero al reditus all’Essere, invitarlo a compiere il tracciato itinerarium della mens verso l’Essere e nell’Essere: lo sforzo speculativo del Moretti–Costanzi sta tutto nel tentare una reductio ad philosophiam, riduzione/riconduzione del complessivo sapere alla vera e “pura” filo–sofia, alla «filia di quella sofia che siamo noi stessi in quanto soggetti a priori dell’Oggetto Unico di coscienza Vero–Buono–Bello» (p. 64).
L’Essere di cui insegna e scrive il nostro filosofo, con le sue note trascendentali di unità, verità, bontà e bellezza, non è qualcosa di oggettivamente posto fuori ed innanzi a me, quanto invece, come detto sin dalla prima lezione del 1953-54, “oggetto di coscienza”: è l’Essere-di-coscienza; il primo passo riportato in queste lezioni indica, molto eloquentemente, la fonte remota da cui l’essere è pensato come essere di coscienza: lo Hegel che così, all’inizio della sua Scienza della logica, spiegava “con che si deve incominciare la scienza”: «Se lo astratto pensiero di una volta s’interessava solo per il principio come contenuto, coll’avanzare della cultura si trovò spinto a prendere in considerazione l’altro lato, ossia il modo come il conoscere si conduce. Quindi è che anche l’atto del soggetto viene afferrato quale momento essenziale della verità oggettiva, dal che nasce il bisogno che il metodo si unisca col contenuto, la forma col principio. Così il principio ha da essere anche cominciamento, e quello che è il Prius per il pensiero, ha da essere anche il Primo nell’andamento del pensiero» (G. W. F. Hegel, Scienza della logica, ed. Laterza 1994, p. 52). Ma l’atto del soggetto cui qui fa cenno Hegel trova la sua più alta teoresi nel neohegelismo italiano, precipuamente in quell’attualismo gentiliano cui a diverso titolo fanno riferimento anche pensatori “cristiani” — meglio diremmo pensatori non “neoidealisti puri”: L. Stefanini, A. Carlini, M. F. Sciacca ed A. Guzzo per i loro differenti sistemi spiritualisti; o G. Bontadini e M. Gentile nelle loro concezioni di “esperienza”; o il nostro Teodorico Moretti–Costanzi nel suo “Essere-di-coscienza”. Il debito all’attualismo gentiliano è esplicitamente riconosciuto nella sopra citata Prolusione del Gennaio ’54, Che significa filosofare, a conclusione della quale il Moretti–Costanzi faceva memoria e grata menzione dei suoi tre maestri “romani”, primo dei quali «Giovanni Gentile, il cui concetto dell’attualità dell’atto di Coscienza m’aperse prospettive luminose» (p. 45).
Se la prima parola è per Hegel la seconda è per san Bonaventura; per poter pensare l’Essere di coscienza è prima di tutto necessario ammettere vari gradi o livelli di conoscenza umana, contro l’unidimensionalità entro cui la conoscenza è stata stretta dalla scienza e da vari filosofi scientisti: la coscienza come ratio, la “coscienza astratta”; tale coscienza propria della scienza e del realismo si oppone a quella della filo–sofia, concreta e comprensiva, senza la quale essa è senza fondamento. Così, sin dalla Lezione II, il Moretti–Costanzi puntualizza: «questo aveva visto benissimo, sulla scia della tradizione platonica–neoplatonica e agostiniana, il serafico Dottore S. Bonaventura da Bagnoregio, con la distinzione da lui effettuata dei piani di Coscienza di cui quello scientifico non si sorregge ed è inautorevole senza la base dell’altro, filosofico–teologico il cui organo è l’intellectus» (pp. 51-52). Al Bonaventura critico della ragione scientifico aristotelica fa eco, in epoca contemporanea, il pensiero dinamite di Friedrich Nietzsche, di cui si tratta soprattutto nelle Lezioni VII-IX del primo corso; il salto qualitativo dalla ratio all’intellectus, dalla scienza alla filosofia — per lo scarto esistente tra l’esperienza impersonale della “falsità realistica dello scientismo” ed invece l’esperienza “nell’Essere ch’è di Coscienza” — fu acutamente visto da «Nietzsche con la sua intuizione del super–uomo. E proprio Nietzsche, genialmente, coglie l’ostacolo da rimuovere. Cioè: valicare la scienza e il mondo limitato ch’essa attesta. Questo è quel qualcosa di fondamentalmente mancato che c’è nell’uomo. Dunque la filosofia vera, cui immane la sofia nella cui ricerca si definisce, si attua soltanto quando saliamo dall’uomo al superuomo o, diremo meglio, al cosciente. […] La scienza invero è una cosa umana: la filosofia che se ne distingue per qualità è del superuomo» (pp. 63-64). Nel corso del 1954-55 l’identica critica è condotta sull’insegnamento dei “maestri” di Nietzsche e Bonaventura, e cioè sull’insegnamento di Schopenhauer (Lezioni VIII-XXXI) e su quello di Agostino d’Ippona (esplicitamente le Lezioni XLIV-XLV).
L’umano abbassamento da superuomo a uomo (dalla “vera” filosofia alla scienza) è, per il nostro filosofo, rappresentabile come la caduta del primo uomo, di Adamo, sotto le insistenze tentatrici del serpente strisciante, simbolo della bassezza ontologica e gnoseologica in cui sono precipitati l’uomo e il mondo: all’originale quanto suggestiva interpretazione dei capitoli iniziali della Genesi, che occupa le Lezioni XII-XV del corso del 1953-54, son chiamati a dare il loro apporto lo Schopenhauer — da ricordare come «così nemico del giudaismo, simpatizzasse col mito del peccato originale, da cui ebbe origine questo mondo di miserie, uomo compreso» (pp. 74-75) —, Spinoza e gli stessi Veda. Di questo abbassamento si rende conto e ne testimonia, con la propria filosofia, il movimento esistenzialista: Jaspers ed in modo speciale lo Heideg-ger — a cui il nostro filosofo si era interessato già con L’ascetica di Heidegger del ’49.
Alla caduta dell’uomo segue la sua redenzione ad opera del Cristo: il Cristianesimo è la redenzione gnoseologica della coscienza dalla sua degradazione a ratio e scienza; il pensiero cristiano è, agostinianamente, la filosofia, per eccellenza: ad esso deve aspirare il filosofo contemporaneo, quasi asceta moderno; redenzione è la virtus che il Cristianesimo ha ridato all’intellectus di intus–legere, di essere ciò che esso deve essere, capacità di legger dentro, di leggere Dio nell’anima e l’anima in Dio. «Dio e l’anima mia bramo conoscere; niente altro assolutamente» diceva Agostino (commentato nelle Lezioni XLIV-XLV del corso 1954-55); in questa unità Dio–anima è preconizzato il morettiano Essere–di–Coscienza: «l’intellectus, appunto, sarebbe il piano di coscienza–essere dove Dio risulta come un è che non ha bisogno di dimostrazioni (Essere supremo) e dove proprio si forgia quella cifra, Dio, trovata bell’e fatta dal conoscere che di per sé è teologicamente incompetente» (p. 82); non si stenterà, certo, a vedere in questo passo una rilettura dell’argomento di Anselmo, filosofo a cui il Moretti–Costanzi ha dedicato diversi saggi e, in questa pubblicazione, numerose pagine (soprattutto le Lezioni XVI-XXIII). Ma è bene ricordare — volendo richiamare il titolo dei corsi come i loro toni di ascesi se non addirittura di “soteriologia” (p. 251) — che per Teodorico Moretti–Costanzi «l’ontologico essere di coscienza (coscienza implicante le tre forme esse, nosse, velle) non si riconosce né si proclama se non si è saliti dal piano dell’esistenza fisica, asceticamente, a quello dell’Essere» (p. 252); in questo passaggio, richiamandosi alla gnoseologia delle tre primalità del Campanella, il filosofo vede nella coscienza redenta del pensiero cristiano ricomporsi in unità le varie dimensioni dell’esperire dell’anima, di modo che in detto Essere di Coscienza si fondi «tutto ciò di cui è possibile parlare»; e stravolgendo la triade hegeliana dello Spirito assoluto (arte, religione, filosofia) scrive: «Tale Co-scienza che è essere e che tale è nell’implicarsi delle sue forme costitutive (intendere, sentire, volere) cui rispondono sul piano trascendentale meditazione concettuale, arte e religione, ha nella sua storia e nella sua profondità, più gradi e modi» (p. 99).
Sul francescanesimo del nostro filosofo un’ultima parola — non può non toccarci, in questa sede di Ateneo “Antonianum”. Il Moretti–Costanzi andrà via via riconoscendosi francescano, facendo coincidere il proprio sistema tout court con la filosofia francescana, particolarmente con quella di Bonaventura; anche tale tema dei due corsi pubblicati è evidenziato dall’introduzione del Moschini come linea portante del pensare morettiano: «il Moretti–Costanzi ammette un debito particolarissimo del suo pensiero a quello del francescanesimo con cui vorrà poi identificarlo totalmente. Un’adesione al francescanesimo che egli aveva compiuto sin da giovane intorno allo studio della personalità di santa Margherita da Cortona, la “terza luce” del francescanesimo, ma che solo in questi corsi assume le strutture e le condizioni di pensabilità desunte dal pensiero del Dottore Serafico» (p. 26). Se il grado superiore del sapere sta nell’Essere di Coscienza non risulterà cervellotica l’affermazione che per il Moretti–Costanzi il filosofo “puro”, il filosofo “vero” del Cristianesimo–filosofia è rappresentato da Francesco d’Assisi, del quale parlano le Lezioni XXXV-XXXVI del corso del 1953-54; in tale sua interpretazione è confortato dal matematico prima che filosofo Alfred North Whitehead, «il quale disse “La religione è l’espressione di un tipo d’esperienza diversa da quella scientificamente espressa. La scienza s’interessa ai fenomeni generali che reggono i fenomeni fisici; mentre la religione è completamente immersa nei valori morali ed estetici”. Ed è significativo che, a questo punto, l’autore suddetto citi S. Francesco: il più esteta dei santi, come tale citato in una storia dell’estetica: dal Bosanquet» (p. 125). Per quella sua “esperienza più approfondita” Francesco deve considerarsi il vero fondamento non solo della spiritualità ma anche del pensiero filosofico (e scolastico) francescani, come scrive: «comunque è un fatto (per tornare all’esempio di S. Francesco) che la religione francescana, nel suo sapio e nel suo verbo filosofico, non esisterebbe senza il sapore estetico dell’esperienza diretta di S. Francesco» (p. 126). Il Cantico delle creature sintetizza tale esperienza di Francesco: esso si configura come memoria dell’Essere–di–coscienza; successivamente, ne La filosofia pura del 1960 si dirà che il Maximum ravvisato da Anselmo nel suo argomento e confermato da Alessandro di Hales e Bonaventura, è “soprattutto” il Dio “presente” del Cantico: raggiunto dal mondo perché raggiunto da Francesco tota anima. Francesco, dunque, il “filosofo puro”, il “superuomo”, simbolo della coscienza redenta dalle bassure della conoscenza scientifica, asceta dell’Essere e sempre impegnato in un itinerarium dall’esistenza all’Essere. Con un auspicio, programmatico del suo futuro filosofare — che ben poco lascia di dubbio sull’essenziale francescanesimo della filosofia morettiana — così testualmente il Moretti–Costanzi conclude l’ultima sua lezione di Teoretica dell’anno accademico 1953-54 (p. 153): «si istituisca il verbo filosofico come logo di quell’on che è l’essere del mondo di S. Francesco. E questa sola sarà la vera ontologia».
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