Langella Rigel ,
Recensione: Dante Gemmiti, Donne col pastorale,
in
Antonianum, 76/3 (2001) p. 596-598
.
«Un contributo scientifico, di notevole spessore storico e culturale, all’approfondimento dei problemi ecclesiologici connaturali alla presenza attiva della donna nella Chiesa»: questo l’autorevole parere del card. Vincenzo Fagiolo, nella premessa al recente saggio di Dante Gemmiti, Donne col pastorale, edito dalla LER di Napoli.
Il titolo, solo all’apparenza insolito, si prefigge lo scopo di farci entrare direttamente nel tema per mostrare un aspetto, spesso ignorato anche dagli addetti ai lavori, circa il potere (ius regendi communitatem) quasi-episcopale (ad instar episcoporum) spettante alle abbadesse (chiamate anche: episcopae). Il sottotitolo (Il potere delle Abbadesse nei secoli XII-XIX), ci aiuta a entrare nel tema e nella delimitazione spazio-temporale del testo, una precisa scelta dall’autore per delimitare un tema tanto vasto a un periodo in cui le fonti archivistiche e giuridiche avessero anche un valore probatorio maggiormente affidabile secondo i criteri scientifici.
Ecco allora che il testo ci apre uno spaccato sui ministeri femminili, non intesi in senso lato, bensì approfondendo, con acribia e rigore filologico, una tematica storico-giuridica ben precisa: la quantità e qualità del munus iurisdictionis affidato alle abbadesse di monasteri femminili, dal Medio Evo fin quasi ai giorni nostri. Il saggio si snoda secondo due precise direttrici:
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una prima parte, dedicata alla problematica generale, con agganci, almeno quelli strettamente necessari, alle fonti scritturistiche, epigrafiche, al ruolo e alla giurisdizione dell’abbadessa nelle costituzioni monastiche dell’occidente e dell’oriente cristiano;
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una seconda parte che esamina in dettaglio, secondo un criterio cronologico, la specifica giurisdizione abbaziale femminile in Europa, limitatamente a Inghilterra, Francia, Spagna e Italia.
Fin dall’inizio il testo si rivela fonte di continue sorprese, non tanto perché i documenti riportati sono inediti, quanto perché mancava, sino a ora, una ricostruzione sistematica di un aspetto che non è esagerato definire “segreto” del cristianesimo, la cui storia è proposta secondo una sequenza pressante che mantiene sempre alto, nonostante il taglio tecnico del testo, l’interesse del lettore.
Ecco, dunque, che ci imbattiamo, dopo le ben note apostolae delle comunità paoline (non solo Giunia, in Rom 16, 7, ma anche Febe, la diaconessa, in Rom 16, 1-2 e Perside, la missionaria, in Rom 16, 12), in Teodora. Non siamo più nel periodo della Chiesa nascente, ma sotto il pontificato di Pasquale I (817-824), con una comunità cristiana ormai ben consolidata nelle strutture giuridiche e territoriali ereditate dal diritto romano. Ebbene, questo papa edifica, nella chiesa di santa Prassede in Roma, la cappella funeraria di san Zenone, per sua madre: Theodora “episcopa”, come ricorda l’iscrizione in loco.
Pur nell’incertezza semantica, l’autore vuole preparare il lettore a entrare nel vivo della trattazione, accogliendo il ruolo delle abbadesse con giurisdizione episcopale, come continuazione ideale di una prassi dei tempi apostolici che riconosceva alle donne, comunque: «un ruolo di presidenza, di sovrintendenza o, quanto meno, di partecipazione attiva e consapevole nell’organizzare comunità cristiane con rispettivi compiti di disciplina interna e di carattere assistenziale esterno».
Arriviamo, allora alla figura dell’abbadessa o antistita, di cui si approfondisce il ruolo nelle principali costituzioni (esaminate in sequenza cronologica) e nella legislazione ecclesiastica e imperiale d’Oriente. Le principali “sorprese”, per così dire, arrivano nella parte seconda ove l’autore si limita a studiare alcuni paesi europei e alcuni monasteri paradigmatici.
Ricordiamo brevemente l’ordine gilbertino, definito “ordine controcor-rente” di Gilberto di Sempringham, fondato all’inizio del XII secolo nel Lincolnshire, rimasto attivo fino alla soppressione dei monasteri, decretata da Enrico VIII Tudor dopo lo scisma d’Inghilterra.
In Francia l’autore esamina il caso dell’ordine doppio di Fontevraud o Fontevrault, fondato da Roberto d’Abrissel all’inizio del XII secolo e rimasto in vita fino al 1792. Una vera epopea di grandi abbadesse che difesero fermamente, nel corso dei secoli, nonostante i rivolgimenti sociali, politici e religiosi, i loro privilegi, intesi come mantenimento del contenuto di tutti i diritti ricono-sciuti loro dalle costituzioni e dalle bolle papali ed episcopali, relative alla potestà su questo ordine doppio, compreso il potere di nomina e destituzione del priore del ramo maschile.
In Spagna si approfondisce la lunga vicenda di Las Huelgas, monastero fondato da Alfonso VIII nel 1187, la cui abbadessa, per successivo privilegio di Alfonso VIII era anche amministratrice perpetua e unica superiora dell’Hospital del Rey, con i suoi Freyles e cappellani. Diritti difesi con tenacia, anche in questo caso, da tutte le abbadesse successive, fino al 1874 quando Pio IX abrogò la giurisdizione quasi-episcopale dell’abbadessa, sottomettendo il monastero alla giurisdizione dell’arcivescovo di Burgos.
Anche in Italia un precedente di questo tipo si riscontra nel monastero di s. Benedetto di Conversano, concesso nel 1266 da Clemente IV alla comunità di monache cistercensi guidata da Dameta Paleologo della famiglia imperiale bizantina, profuga dalla Romania assieme alle sue consorelle.
L’abbadessa Dameta, come le successive, aveva una giurisdizione quasi-episcopale. Al rito dell’insediamento venivano rivestite con abiti e insegne del proprio stato, ricevendo anche la mitra, da cui deriva la terminologia di “abbadesse mitrate”, rivelatesi nei secoli capaci di difendere e tutelare i propri diritti contro angherie e soprusi, fino alla definitiva soppressione, decretata da Gioacchino Murat nel 1810.
A conclusione dell’itinerario, necessariamente parziale e settoriale (limitato a un preciso periodo storico e a una precisa condizione della donna consacrata nella Chiesa), ma esaustivo quanto a spaccato di legislazione monastica e di primato abbaziale, l’autore non trae delle conclusioni, ma abbozza delle piste che richiedono comunque ulteriori studi e approfondimenti.
A parte la curiosità che la fine di questi poteri quasi episcopali delle donne-abbadesse, fosse decretata a seguito di scismi (Inghilterra) e rivoluzioni (Francia e Italia), in ben tre casi su quattro, indubbiamente il saggio dimostra l’esistenza di una tradizione consolidata che permane nei secoli nella Chiesa. Più che di logica conclusione l’autore sembra voler formulare un auspicio, fondato però su una autorevole ricostruzione storica, che rappresenta anche un tassello ulteriore nella vexata quaestio dei ministeri affidati o affidabili alle donne: la riscoperta di un autorevole ministero femminile, esercitato responsabilmente, come si legge nella Introduzione, in un passato remoto e anche prossimo.
L’autore, professore di storia religiosa dell’Oriente cristiano all’Università di Tor Vergata in Roma, esperto di tematiche inerenti i Padri della Chiesa e gli autori bizantini, torna con questo ultimo saggio ad approfondire la tematica femminile in ecclesiologia, dopo la pubblicazione del volume, considerato ormai un classico: La donna in Origene del 1996. Il testo è pubblicato nella collana Saggi, studi, testi dell’Accademia Angelica Costantiniana di lettere, arti e scienze ed è corredato da un indice molto accurato dei nomi, luoghi, cose notevoli, che ne facilita la consultazione favorendo la ricerca e l’approfondimento.
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