Nobile Marco ,
Recensione: Sabino Chialā, Libro delle parabole di Enoc. Testo e commento,
in
Antonianum, 74/1 (1999) p. 157-158
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Il dr. Chialà fa opera gradita ad un vasto pubblico di cultori non specialisti di cose giudaiche con la pubblicazione di una delle parti più sorprendenti del "pentateuco enochiano", cioè di quella vasta opera intertestamentaria o apocrifa che va sotto il nome di Enoc etiopico o I Enoc. La parte è quella che viene denominata "Libro delle parabole" e che abbraccia i capitoli 37-71 dell'intera opera. Oggetto della "seconda visione", come è detto nell'introduzione, in 37,1, è una triplice rivelazione fatta al veggente Enoc attorno al destino finale degli eletti e dei peccatori; un ruolo importante nel giudizio escatologico è svolto da una figura trascendente, che nella prima parabola è denominata "Giusto"e nella seconda l'"Eletto" o il "Figlio dell'uomo". Specialmente quest'ultima denominazione in passato aveva fatto parlare del documento come di un testo tardivo di epoca cristiana. In realtà, la lunga storia della sua interpretazione, che il C. espone magistralmente, e un'attento esame filologico, portano al risultato che il testo è di sicuro di origine giudaica, scritto originariamente in ebraico o aramaico, anche se la traduzione etiopica dipende con ogni probabilità da una versione greca. Non si può eliminare il dato della sua inserzione secondaria nel pentateuco enochiano, al posto del cosiddetto "Libro dei giganti", ma ciò non toglie che esso sia antico e certamente di origine giudaica. Il C. parla di un periodo che va dalla fine del I sec. a.C. agli inizi del I sec. d.C. Egli contesta la seriorità attribuita al "libro" dal Milik, il quale, pur ammettendo l'origine giudaica, ne esclude l'antichità per il fatto che non se n'è trovata traccia nelle grotte di Qumran, al contrario delle altre parti dell'opera enochiana, ampiamente attestate. Il C. dà come spiegazione la perdita d'importanza che ormai il Libro delle parabole ha avuto alla fine dell'antica era per quel gruppo di dissidenti, provenienti dal movimento esseno, non identici però con esso, che si erano stabilito nei pressi del Mar Morto. Una dimostrazione della sua tesi il C. la trova nella regressione dell'uso dei titoli messianici di "Giusto", "Eletto" e "Figlio dell'uomo", così come si mostra in parallelo anche nella letteratura neotestamentaria, nella quale anche a Gesù vengono attribuiti tali titoli, ma solo nella cristologia più antica (sinottici e Atti degli apostoli).
Le tesi del C. possono e certamente saranno discusse ancora, ma rimane il fatto che esse rappresentano quell'orientamento di studio oggi in atto e pienamente condivisibile, secondo cui, per conoscere adeguatamente gli sbocchi storico-culturali e religiosi dell'AT e la loro transizione nel NT, nella qualità di tentativi di dare formulazione al fenomeno Gesù di Nazaret, bisogna scoprire fino in fondo quel pianeta ancora in buona parte sconosciuto che è il giudaismo intertestamentario.
La traduzione del testo enochiano curata dal C., si basa sulle edizioni critiche più antiche (Charles, Dillmann e Flemming), non essendovene ancora una a tutt'oggi (quella del Knibb, la più recente, non è propriamente un'edizione critica, perché si basa su di un solo manoscritto e si accontenta di riportare le varianti testuali). Alla traduzione si accompagna un buon commento, chiaro e ben articolato. Alla fine vi sono due excursus interessanti, soprattutto quello riguardante l'evoluzione dell'espressione "figlio dell'uomo"; l'altro riguarda la "condanna e i condannati nel Libro delle parabole".
Il tutto è chiuso da una congrua bibliografia e da un indice dei passi citati.
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