Damiata Marino ,
Responsio Auctoris ad recensionem - A proposito di una recensione,
in
Antonianum, 73/2 (1998) p. 393-396
.
I. G. Manzano ha pubblicato una recensione al nostro volume I problemi di G. d’Ockham. I. La conoscenza, Firenze 1996, in Antonianum, 72 (1997) 706-707. Naturalmente lo ringraziamo dell’attenzione prestata e per l’occasione che ci offre di chiarire meglio l’intento che ci ha guidato nella stesura dell’opera, sebbene confessiamo subito che certe sue prese di posizione non ci sembrano condivisibili né ben centrate.
Il recensore ovviamente sa, e ricorda almeno in parte, che da lungo tempo ormai ci occupiamo del pensiero e della povertà francescana tra il Due e Trecento con scritti che in generale la critica ha bene accolto. Ci si vorrà scusare, se ricordiamo che i primi due volumi in proposito, Guglielmo d’Ockham: povertà e potere, Firenze 1978-1979, sono stati ritenuti validi sul piano storico, filologico e teoretico (Grande antologia filosofica, vol. 32, Aggiornamento bibliografico s.v. Occam, 638; P. Brezzi, Paese Sera, 15.11.79: «dato all’Autore atto della piena padronanza della materia e della bibliografia», si tratta di una «ricerca ampia ed accurata, puntuale e sottile»; R. Macken in Franziskanische Studien, 63 (1981) 341: «Pour tous ceux qui s’intéressent à la pensée politique d’Ockham, ce livre est une source généreuse»; D. Gagnan, Collectanea franciscana, 49 (1979) 349, loda «la profondeur de ses analyses philosophico-théologiques de même que ... l’ampleur de ses perspectives»; I. Vázquez Janeiro, in Antonianum, 56 (1981) 257: «El libro de M. Damiata representa un trabajo serio; me atrevería a decir, de los pocos serios entre los muchos ensayos de esperitualidad franciscana que cada día vienen a este mundo ... La metodología es rigurosa ... en su libro existen ideas, y no sólo palabras vacías y tópicos amanidos»); che riguardo a Pietà e storia nell’‘Arbor vitae’ di Ubertino da Casale, Firenze 1988, A. Nardi in Laurentianum, 30 (1989) 241, osserva che l’Autore «lascia parlare il testo per quello che è e per quello che ci comunica», «senza lasciarsi influenzare dai pregiudizi che precedenti studiosi avevano dato sul Casalese»; che ‘Plenitudo potestatis’ e ‘universitas civium’ in Marsilio da Padova, Firenze 1983, oltre l’elogio di R. M. Grández (Laurentianum, 27 (1986) 175: «Claridad, coherencia, penetración creemos que son las cualidadas de este estudio extraordinariamente rico y sugestivo»), meritò una Presentazione non richiesta e lusinghiera — «ampio documentato e informatissimo studio» (ivi, V), «l’intera ricostruzione storica è di una scrupolosa e attenta acribia» (ivi), nella trattazione «il Damiata profonde tutta la sua conoscenza del testo e il suo equilibrio interpretativo» (ivi, IX) — da M. Dal Pra notoriamente di formazione ed orientamento filosofico ben lontani dal nostro. Si dirà: acqua passata; ma il caso vuole che un altro esperto studioso, C. Bérubé, di formazione opposta, recensendo ultimamente il secondo volume de I problemi di G. d’Ockham su Dio lascia intendere un medesimo giudizio, quando parla di una «promenade savante dans la forêt touffue de la pensée de celui que la tradition qualifiait de Venerabilis Inceptor» e riconosce che «l’exposé est d’une limpidité que les lecteurs ne manquerons pas d’apprécier» (Collectanea franciscana, 67 (1997) 611, 612). Si tratta di ricordi e di riferimenti che ci servono solo per attestare la premura e precisione con le quali conduciamo le nostre ricerche.
Diligenza — ci si perdonerà — che abbiamo profuso anche nell’opera in questione, la conoscenza secondo Ockham, la quale al pari degli altri studi precedenti e seguenti relativi al pensatore francescano proviene in noi prima di tutto da un bisogno personale, bramando decifrare e documentare ciò che effettivamente ha pensato un autore come Ockham, tanto osannato quanto bersagliato da opposti schieramenti di critici attraverso i secoli. Lo scopo nostro era ed è quello di una lectura dei testi, astenendoci dall’applauso e dalle facili accuse, senza dubbio servendoci di quanto i vari interpreti hanno scritto su di lui e tenendo presenti gli sviluppi — reali o presunti — della sua dottrina nei Filosofi-teologi delle epoche successive, ma solo per renderci sensibili nell’appurare il significato originario e genuino di quanto Ockham ha inteso dire e perché lo ha detto. Sarà poi agevole ad un lettore accorto rendersi conto dei fraintendimenti, forzature e storture che il pensiero di Ockham ha subíto nei secoli.
Fatte queste premesse, veniamo alla recensione che è oggetto di questo intervento. Ci sembra innanzi tutto che si debba ad un fraintendimento del nostro lavoro il consiglio del recensore di cambiare il titolo generale dell’opera — I problemi di G. d’Ockham — dal momento che egli dopo tutto nelle nostre pagine non avrebbe incontrato troppi problemi. Che invece per noi ci sono, e fondamentali. Per limitarci al primo volume, la conoscenza per Ockham è un problema e non nella misura per cui lo è in ogni pensatore, ma in proporzione ben più vasta e radicale, poiché la notitia intuitiva, l’intuizione del singulare anche mediante l’intelletto, l’universale ridotto ad un actus intellectus, ecc. minano l’opinio communis, sia quella di matrice aristotelico-tomista con le species, l’astrazione, l’intelletto agente, sia quella agostiniano-bonaventuriana in auge tra i Minori, sebbene quest’ultima scopertamente non venga presa di mira da Ockham. Similmente Dio, indagato nel secondo volume, più che un problema è un groviglio di problemi, che hanno propaggini in tutto il campo della filosofia e della teologia: è dimostrabile la sua esistenza? sono dimostrabili i suoi attributi? conosce omnia alia a se? può concedere salvezza e gloria senza la gratia? ecc. Non diversamente poi si dica della natura nel terzo volume progettato: è libera creazione come ci suggerisce la fede e come in genere ci insegnano gli scolastici o il prodotto di un Principio che opera naturalisticamente, come in maniera più o meno accentuata intendevano Aristotele e gli Arabi? E posta pure la sua potentia absoluta, può creare un mondo migliore, se la filosofia aristotelica ci insegna che l’universo in atto è perfetto e ricordato con i credenti che Dio ha già creato l’angelo, tanto perfetto quanto può esserlo una creatura, e la materia che è prope nihil? È scontato poi che ciascuno di questi grandi temi-problemi generi innumerevoli altri quesiti tutt’altro che trascurabili e di facile soluzione, nel limite del possibile tutti da noi affrontati e discussi.
Ma il recensore non si mostra insoddisfatto solo del titolo che abbiamo dato ai nostri volumi, ma pure del modo secondo cui abbiamo condotto l’indagine nel volume sulla conoscenza. Ritiene infatti che ci limiteremmo a registrare le tesi di Ockham con abbondanti citazioni, senza tuttavia illuminarle né discuterle. Tanto più un tale modo di procedere gli pare strano in quanto che noi stessi — come il recensore non manca di rilevare — abbiamo scritto che “daremmo prova di superficialità ... se ci limitassimo a citare un autore senza vagliarlo, credendo con ciò di avere la coscienza a posto” (La conoscenza, 273; Antonianum, loc. cit., 709).
Se non di un fraintendimento, pensiamo che si tratti di precipitazione nel giudicare o di fretta nel leggere, due tarantole che pungono non di rado il critico. È vero infatti che registriamo la conclusio di Ockham, ma tale registrazione-documentazione viene al termine di un processo che la illumina e la giustifica teoreticamente. Prendiamo ad esempio la tesi di Ockham che il primum cognitum è il singulare: senza dubbio riportiamo i testi di Ockham a pié pagina, ma non siamo davanti a citazioni nude e crude — non motivate — bensì preparate da un lungo discorso che passa dall’esame di brani scelti dagli Analitici posteriori e dalla Metafisica, al richiamo che se nell’esposizione della Fisica Aristotele prende le mosse dall’universale, egli non crede che tale metodo sia valido nell’acquisizione del sapere, per passare poi alla confutazione di Enrico di Gand che ravvisa nell’essenza divina il primum cognitum, a quella di Duns Scoto che lo indica nell’ens communissimum o nella species specialissima, a quella di San Tommaso che stima primum cognitum l’universale nell’accezione comune. Ma discutendo e confutando tanti autori, inevitabilmente Ockham acquista una consapevolezza sempre maggiore del problema, punta il dito nello stesso tempo sulla unilateralità o insufficienza delle soluzioni avanzate, per cui quando al termine formula la propria tesi, noi sappiamo bene come questa è sorta nella sua mente e ne possediamo con ciò la giustificazione teoretica (Cfr. ivi, 16-22).
Questa, la via che Ockham percorre e che noi nella ricostruzione abbiamo cercato di seguire: delucidazione dei termini del discorso, richiamo alle differenti posizioni, obiezioni che le inficiano, espressione del proprio pensiero riguardo al tema discusso.
E se talora egli cambia parere — come accade riguardo all’universale inizialmente inteso come fictum, successivamente come intentio o actus intellectus — non ci siamo certo accontentati di registrare che il cambiamento è avvenuto, ma abbiamo posto in risalto le perplessità e le incertezze che affiorano nella sua mente riguardo alla prima soluzione e che divengono sempre più inquietanti, la faticosa marcia verso la soluzione definitiva, non tralasciando di menzionare l’ascolto prestato allo Chatton e la dettagliata critica all’esse intentionale dell’Aurelolo (Cfr. ivi, 73-100). Come se ciò non bastasse, non abbiamo tralasciato di ricostruire la polemica contro i realisti (Cfr. ivi, 100-102).
Chi abbia seguito nelle nostre pagine questo formarsi e snodarsi del pensiero di Ockham, con le sue pause di riflessione e il cambiamento di rotta, non dovrebbe poi asserire che nel nostro scritto la sua tesi cade dal cielo — che cioè viene solo registrata — e che resta priva di giustifcazioni storiche e teoretiche.
Un ulteriore appunto che viene fatto dal recensore, concerne l’uso della bibliografia nella nostra ricerca. Egli in verità riconosce che la bibliografia non manca, ma che resterebbe inoperante nel tessuto dell’opera.
Ammettiamo pue che questo rilievo sia materialmente esatto, giacché per ragioni puramente tecniche — non appesantire troppo la pagina con le abbondanti citazioni da Ockham e con rimandi bibliografici — sia pure a malincuore abbiamo stimato opportuno rinunziare a questi ultimi. Ma formalmente l’interpretazione dei vari studiosi non è assente, giacché al pari di ogni ricercatore che si rispetti, se con un occhio, per così dire, siano stati attenti al testo di Ockham, con l’altro ci siamo soffermati sulle non poche pagine degli interpreti. Quanto ciò corrisponda al vero, si può constatare esaminando il capitolo dedicato al Rasoio (Cfr. ivi, 223-236). Sono conosciute le diverse domande che su di esso i vari commentatori hanno sollevato: il rasoio è un criterio effettivamente nuovo, di Ockham? ha un significato metafisico o puramente logico? è un principio assoluto o un criterio empirico? è stato così enfatizzato da ridursi ad una leggenda? Ebbene, pur mancando nel nostro scritto rimandi bibliografici puntuali in proposito, nella ricostruzione che del rasoio abbiamo fatta, non ci pare che manchi una risposta ragionata a tali quesiti. Si ricorda infatti che esplicitamente e ripetutamente Ockham lo attribuisce ad Aristotele, adducendo casi nei quali lo Stagirita lo adopera; che Ockham da parte sua tende ad identificarlo con la ratio stessa, la quale non tollera arbitri e rifugge da ridondanze, tanto è vero che ad esso Ockham si appella per identificare la quantitas con la substantia, il motus con ciò che diviene, ecc.; mediante esso crede che la dilectio come la delectatio abbiamo una causa unica nella volontà, ecc.
Ma sottolineamo pure che di tale criterio non deve farsi a detta di Ockham un uso intellettualistico o meccanico, perché altrimenti in forza di esso dovremmo negare ogni attività alle cause seconde e riconoscere Dio come causa totale e unica di quanto accade nell’universo. Rammentiamo inoltre che l’insufficienza del rasoio è ben palese in divinis: se infatti da un lato potremmo scorgerlo operante tacitamente quando Ockham sostiene che Dio può ben concedere la gloria a chi è privo di gratia, dall’altro l’Eucarestia lo smentisce sonoramente. Pur nell’interezza della sua persona, in essa Cristo non ha né actio né passio, solo perché Dio intervenendo sospende l’attività di cui Cristo, anche lì, sarebbe capace. Procedendo nell’analisi, non si manca di notare che il rasoio pare alla fine stemperarsi in un rifiuto a quanto intralcia una corretta visione delle cose e in un invito alla sobrietà intellettuale, ammettendo solo quanto è indispensabile per spiegare un fenomeno. Tirando le somme, non ci sembra di aver ignorato le non poche interpretazioni ammanite riguardo al rasoio. Chi ha un orecchio fine ed una mente attenta, nelle nostre pagine percepisce con facilità l’eco delle voci dei vari interpreti e in quale misura abbiano colto il segno i commentatori a cui quelle voci appartengono.
Un’ultima notazione. Il recensore, bontà sua, riconosce infine che la nostra ricerca è scritta “en un estilo simpático y agradable” (Loc. cit., 709), però sembra trarne motivo per bollare il lavoro come “introductivo y divulgativo” (Ivi). Dio ci guardi dall’imbarcarci in una discussione tra forma e contenuto esteticamente parlando; però una domanda ci sarà permessa: se lo stile di un’opera è scorrevole, vario e gradevole, non dipenderà dal fatto che l’autore ha tolto “il troppo e il vano” dai testi che ricostruisce, ha individuato il filo conduttore dell’opera e dimostrato come esso si intreccia in un tessuto omogeneo e variegato allo stesso tempo? Preferendo l’essenziale, l’intelligenza è semplicità, chiarezza e ... ludus. Se ciò corrisponde al vero, lo studioso dovrebbe coniugare la circospezione del minatore alla scioltezza di chi danza.
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