Nobile Marco ,
Recensione: ERICH ZENGER et alii, Einleitung in das Alte Testament ,
in
Antonianum, 72/1 (1997) p. 129-131
.
Dobbiamo salutare questa Introduzione alVAT come una felice novità nel campo degli studi biblici. Essa si presenta come una messa a punto attuale e ben articolata di quanto oggi l'esegesi veterotestamentaria ha raggiunto o sta ancora discutendo. Finalmente non abbiamo solo un libro bibliograficamente aggiornato, che tutt'al più timidamente cerca di smuovere la ferrea impalcatura della Einleitung tradizionale, senza però uscire dai binari prestabiliti (VIntroduzione di J. A. Soggin del 1987 era un tentativo di tal genere; la quarta edizione dell'Entstehungdes A.Ts di R. Smend del 1989, è stato ugualmente un modo di conciliare passato e presente della ricerca scientifica, senza sfigurare troppo il manuale di sempre). La presente introduzione, creata da un'equipe di esegeti cattolici, diretta da Erich Zenger, ha invece voluto aggredire di petto tutti i problemi contemporanei che pongono le parti e il tutto dell'AT. Il piano generale dell'opera è ampio e articolato, condotto con chiarezza di linguaggio e con abbondanza d'informazione (le questioni di dettaglio vengono distinte con un corpo tipografico più piccolo) ed è arricchito da una dovizia, cosa assolutamente nuova, di schemi e diagrammi. La pluralità degli autori non nuoce all'unitarietà del progetto, per il quale peraltro lo Zenger fa la parte del leone (circa la metà del libro è scritta da lui). I collaboratori, specialisti ormai noti nelle singole parte della letteratura veterotestamentaria (G. Braulik, F.-L. Hossfeld, J. Marbòck, H. Niehr, H. Hengel ed altri), hanno saputo conferire all'insieme del libro una compattezza di trattazione.
Vi è un altro criterio che caratterizza la novità di questa introduzione, un criterio caro in modo tutto particolare allo Zenger: la trattazione degli argomenti con l'occhio rivolto costantemente alla visuale ebraica delle Scritture. In altri termini, egli applica finalmente quel criterio ritenuto ormai ineliminabile nel campo degli studi veterotestamentari e, da parte cattolica, nell'orientamento che il magistero papale ed episcopale sta dando negli ultimi anni alla pastorale e alla catechesi. Lo Z. preferisce per l'ebraica Tanak (le Scritture ebraiche) la denominazione di «Primo Testamento» al posto di «Antico T.». Certo, si tratta di una scelta soggettiva e non assoluta, ma essa assume ugualmente un grande significato, tanto più che trova uno svolgimento coerente nella prima parte del libro, ove lo stesso. Z. tratta della «Sacra Scrittura degli ebrei e dei cristiani». Gli spunti che offre questa sezione sono spesso interessanti, specialmente là dove si lumeggia la sistematizzazione e il senso dei rispettivi canoni, di quello ebraico e di quello cristiano (di quest'ultimo fa parte anche il Nuovo Testamento, che viene messo a confronto strutturale con l'Antico).
La successiva trattazione dei testi dell'AT segue la sequenza canonica greco-latina, per cui, dopo la disamina del pentateuco e dei libri storici, viene quella dei libri sapienziali e, dopo di questi, dei libri profetici.
Opere del genere, pur stimolanti per una discussione, dato l'impianto metodologico, atto al confronto tra le varie ipotesi contemporanee, non possono tuttavia, proprio per questo, essere analizzate nei dettagli (innumerevoli!). È scontato, comunque, che in questa introduzione vi siano dei punti che si possono condividere, altri meno; ma, l'impressione d'insieme che si ricava, è quella di un impianto solido ed affidabile.
Circa la formazione del pentateuco, è da rilevare la posizione fatta propria dallo Z., secondo il quale esso consterebbe di tre fonti: a) innanzi tutto quella che egli chiama l'«opera storica gerosolimitana» (= JG, che corrisponderebbe in pratica alla wellhauseniana JE); b) la fonte P e e) la fonte Dtn. Riguardo poi al processo genetico, lo Z. considera due alternative: la prima ipotizza che attorno al 450 a. C. si sia avuta la connessione della corrente non sacerdotale (JG nella redazione deu-teronomistica) con quella sacerdotale P ; più tardi, sarebbe stato inserito con alcune modifiche, specialmente nella conclusione, il Dtn, in maniera tale che sarebbe venuto fuori il pentateuco. La seconda ipotesi, invece, prospetta come fattore decisivo nella sua attuale formazione, non il Dtn, bensì Ps, che si sarebbe inserito nella grande opera storica dtr da Gen 2,4b fino a 2 Re 25. Lo Z. opta per la prima ipotesi, mentre a noi sembra più plausibile la seconda, tenendo però presente che quella di Ps si presenta come un'operazione complessa, ora come unitiva (pentateuco+Dtr), ora come distintiva (pentateuco staccato dal resto); e osservando, inoltre, che l'impianto dtr dev'essere stato fatto proprio da P, come mostrano composizioni del tipo del libro di Ezechiele.
Vi è un altro punto discutibile nel quadro della letteratura storica. Ci riferiamo all'affermazione, ancora dello Z., circa quella differenza tra il pentateuco e i libri storici seguenti, che consisterebbe nel non avere il primo relazione con i tempi del narratore, al contrario dei secondi (p. 124). Proprio la complessità del processo genetico dell'«ennateuco», come lo si è visto precedentemente, renderebbe impropria tale affermazione, tanto più che, se leggiamo il tutto appunto come una grande storia unitaria (per niente naìveV), è inesatto fare tali distinzioni (anche i libri storici seguenti al pentateuco trattano di fatti di molti secoli prima dell'epoca del «narratore»).
Svolta con altrettanta novità d'impostazione e di linguaggio è anche la letteratura sapienziale, la quale viene ricondotta tutta al criterio di fondo circa il rapporto tra azione e reazione o tra l'atto umano e la sua conseguenza. In realtà, tale criterio ispiratore di fondo, pur oggettivamente presente, non spiega tutti i risvolti della sapienza israelitica, che si rivela molto più complessa e problematica di quanto tradizionalmente venga presentata dagli studiosi. Ad ogni modo, il patrimonio sapienziale sarebbe il prodotto della convergenza di tre correnti: la sapienza popolare o «tribale», la sapienza urbana di corte o «sapienza scolastica» e infine la sapienza teologica. Interessante e positivo il tentativo fatto di frequente di cercare un principio unificatore di senso e una strutturazione sincronica per ogni opera. Per quanto riguarda in particolare il Cantico dei Cantici, invece, l'opinione di L. Schwien-horst-Schònberger, secondo cui l'interpretazione allegorica presupporrebbe un'av-venuta canonizzazione dell'opera «profana», appare riflettere troppo un punto di vista moderno: piuttosto, è plausibile il contrario, cioè l'allegorizzazione del poema d'amore da parte di timorati maestri dovrebbe aver spianato la strada alla sua canonizzazione. Non penso che negli ultimi secoli prima di Cristo, in ambiente giudaico, si potesse canonizzare una concezione del corpo e della sessualità così... moderna. Sempre in riferimento al Cantico, dato che lo S. fa un plausibile riferimento all'influenza della «scuola poetica alessandrina» (Callimaco, Apollonio da Rodi, Teocrito) (cf. p. 275), avrebbe potuto citare il commentario filologico di Giovanni Garbini (Brescia, Paideia, 1992), che condivide con ampia dimostrazione questa posizione.
Infine, è la volta della letteratura profetica, trattato con lo stesso piglio: novità e capacità informativa. Nell'introduzione, ancora dello Z., si cerca di fare il punto sull'attuale ricerca esegetica e si tenta una conciliazione che lasci spazio alla tendenza odierna a favorire l'aspetto letterario su quello storico, senza tralasciare quella visuale orientata tradizionalmente più in senso storico. Il commento da farsi è comunque lo stesso fatto finora: vi sono punti condivisibili, altri invece meriterebbero una discussione, come l'interpretazione riduttiva che I. Meyer fa del testo greco di Geremia, in riferimento alla sequenza, propria a tale versione, delle tre parti costitutive del libro geremiano (oracoli contro le nazioni straniere invertiti rispetto al TM). La sequenza della versione greca assimilerebbe il libro a Isaia, Ezechiele e Sofonia, ma il M. non sa ritrovare tale ordine e forse a torto (p. 323).
Una piccola lacuna: si sarebbe desiderato un indice degli autori, così come si è trovato il posto per le quattro utili appendici finali.
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