Nobile Marco ,
Relationes bibliographicae: HANS HÙBNER, Teologia del Nuovo Testamento. Voi. I: Prolegomeni,
in
Antonianum, 72/3 (1997) p. 492-495
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«Questa interpretazione teologica dell'Antico Testamento da parte degli autori neotestamentari esige dal canto suo l'interpretazione teologica del neotestamen-tarista» (p. 40). «La questione davvero ultima, quella assolutamente decisiva è se in realtà Jahvé di Israele, il Dio nazionale di questo popolo, sia identico al padre di Gesù Cristo, il Dio di tutta l'umanità» (p. 271).
Queste due citazioni sintetizzano la tematica affrontata dall'H. in questo volume, da lui intitolato «prolegomeni», primo di una serie di tre tomi aventi per oggetto una «teologia biblica del NT». Bisogna riconoscere all'autore una peculiare forza nell'impostazione del problema, ben diversa dalle solite trattazioni alle quali siamo stati abituati. H., certamente dotato di carisma speculativo, conduce un discorso di ampio respiro che invita a pensare; anzi, possiamo affermare che egli sia soprattutto un teologo sistematico più che un biblista e che il suo argomentare «filosofico» abbia il fascino dei saggi di R. Bultmann e di K. Rahner, da lui ampiamente citati, accomunati entrambi dal riferimento al pensiero del filosofo M. Heidegger. È per questo che l'autore si lascia leggere con interesse.
Detto questo, non possiamo spingere oltre la nostra ammirazione, perché le tesi difese dall'H. in questo volume, scoprono il fianco a mille obiezioni, ma soprattutto ad una, che egli bonariamente paventa con consapevolezza fin dalla prefazione (p. 13 e poi alle pp. 272s): quella di essere un moderno marcionita. Se proprio vogliamo salvare una qualche originalità alla sua posizione, essa consiste appunto nel presentare in un'agguerrita forma moderna la concezione del pensatore del II sec, Marcione, il quale distingueva tra il Dio cattivo dell'AT e quello buono del NT, negando così qualsiasi credibilità all'AT. Certo, il Nostro ha poco a che vedere con l'ingenua rozzezza di Marcione, ma in pratica egli si allinea splendidamente su una posizione che non è mai mancata nella chiesa, di qualsiasi confessione (l'H. è luterano), sia in forme estreme inaccettabili che in forme larvate, ma ugualmente esiziali: il deprezzamento dell'AT, come causa o effetto di una visione non corretta delle Scritture ebraiche e in omaggio ad una non richiesta iperfedeltà alla pregiudiziale neotestamentaria.
Il presente volume, come dice la sua intestazione («Prolegomeni»), vuole affrontare il complesso e difficile rapporto tra i due Testamenti e, di conseguenza, per la fondazione di un discorso di teologia biblica, tratta ampiamente dell'AT. Prima questione: se l'AT per un cristiano non può essere lasciato nella sua autonomia, anche per la poca chiarezza e lo scarso accordo nei risultati della loro ricerca tra studiosi veterotestamentaristi (sic!), è possibile una teologia biblica totale, coinvolgente entrambi i Testamenti? Per l'H. è possibile a condizione che sia il neotesta-mentarista a farla, sulla base della convinzione che l'AT in se stesso e nella sua interezza non abbia rilevanza per il cristiano: solo quelle parti dell'Antico incorporate e interpretate dal Nuovo T. possono rivestire un interesse. Inoltre, bisogna operare un'ulteriore restrizione. Non è tanto la Scrittura ebraica che può interessare il teologo neotestamentarista, quanto il testo greco della LXX, poiché il NT si serve della versione greca dell'AT e i traduttori ellenistici hanno dato dell'antica Scrittura non solo una semplice versione, bensì delle concezioni radicalmente nuove. Chiaramente l'H. esaspera inutilmente, ma forse è meglio dire pericolosamente, dei dati di fatto problematici, la cui soluzione non ha niente a che vedere con la sua visione catastrofica degli studi filologici attorno alla LXX.
Si capisce, a questo punto, come il Nostro si senta legittimato a scorrazzare per il territorio dell'AT, proprio in forza del suo criterio ermeneutico. Solo che deve pur parlare di problematiche veterotestamentarie, se vuole sviluppare il suo concetto di AT. E qui nasce la seconda questione, cioè come si debba leggere l'AT. E che cosa lascia scoprire il libro dell' H.? Che esso è fermo ad una conoscenza superficiale, povera e in buona parte superata della scienza veterotestamentaria e dei suoi risultati d'indagine sia storica che letteraria (esso si rifa soprattutto ad un gruppo sparuto di autori sicuramente di tutto rispetto, soprattutto al sempre utile G. von Rad, ma ormai datati o perlomeno «schierati», così che sono lontani dall'offri-re una base certa su cui poter costruire oggi quell'edificio argomentativo robusto che l'H. vorrebbe); si ricava, quindi, che il saggio non è aggiornato su tante questioni contemporanee, come ad esempio il nuovo modo di guardare alle redazioni ultime dei testi e l'emergenza della vastità e dell'importanza storica e teologica della galassia giudaismo, situata in un punto strategico della storia antica d'Israele, in qualità di ponte ineliminabile tra l'Antico e il Nuovo Testamento, in modo tale da costituire un «milieu» omogeneizzante la Bibbia totale! A meno che non si vogliano chiudere gli occhi alla realtà storico-culturale, su cui solo, in un primo momento, può essere condotta un'indagine scientifica, prima di librarsi sulle ali della speculazione astratta. Ma è qui che l'H. scopre il suo fianco, proprio là dove mostra la sua originalità: egli è in realtà in questo primo volume piuttosto un teologo fondamentale, cioè uno speculativo, il quale giustifica questa sua posizione (biograficamente determinata dalla sua utile ed interessante frequentazione della teologia fondamentale) con una pregiudiziale dogmatica, di origine luterana (anche se K. Rahner è chiamato in causa ampiamente), di tutto rispetto e avvincente in se stessa; il guaio è che questo livello speculativo diventa un carro posto davanti ai buoi dell'indagine storica; peggio: il livello speculativo viene confuso con quello storico. Così, la pregiudiziale dogmatica dell'assolutezza dell'evento Cristo, accettabile sul piano speculativo, viene adoperata come una clava per far pulizia dell'AT, leggendolo solo in chiave storico-hegeliana (ahi, ahi, si ritorna indietro a posizioni ideologiche dei primi decenni del secolo, con temibili conseguenze sul piano del rapporto non solo tra i due Testamenti, ma anche tra ebrei e cristiani). L'H. respinge la posizione di coloro che parlano di rapporto di continuità tra l'Antico e il Nuovo Testamento (ad es., il vituperato B. S. Childs), sulla base dell'indagine storico-concettuale, perché teme pregiudizialmente che l'unicità assoluta del fatto definitivo Cristo venga fatta scaturire da una positivistica matrice immanente. Ciò non è vero, ma egli lo crede, salvo a mantenere questa sua convinzione antipositivistica per il NT, ma derogando ad essa, quando tratta la formazione della fede monoteistica nella storia d'Israele. Proprio perché - egli dice - lo Jahvé del giudaismo monoteistico è diverso dallo Jah-vé della monolatria preesilica, è lecito affermare che il Dio Padre di Gesù Cristo è diverso dallo Jahvé che ha legato Israele all'obbedienza della Torà sinaitica, rendendolo superato dalla definitività della manifestazione divina in Cristo.
Le cose non sono così semplici e nello stesso tempo così ambigue come le presenta l'H. Innanzi tutto la categoria della storia evolutiva, o della storia semplicemente, non può essere l'unica a rendere conto della significanza dell'AT nel rapporto al Nuovo: ciò è stato scoperto e dimostrato come ideologicamente scorretto e comunque insufficiente. In secondo luogo, quello schema storico-evolutivo che l'H. traccia per la costituzione della fede monoteistica giudaica, se egli lo ritiene ermeneuticamente rilevante, non può essere fermato alle soglie del NT. L'H. è forse convinto che la seconda parte della Scrittura, quella unicamente e definitivamente valida (il NT) presenti un volto uniforme del Cristo e della sua comprensione? Perché allora quattro vangeli, e poi il «vangelo» di Paolo o quello dell'autore della Lettera agli Ebrei? E forse l'H. convinto che il NT non vada studiato «storicamente» come l'Antico, in forza del fatto che il Cristo recepito storicamente dai vangeli o da Paolo è lo stesso di quello dei Padri dei concilii e dei sinodi dei primi secoli o di quello dei teologi medievali o di quello di Martin Lutero? Sono sicuro che l'H. risponderebbe: no (unter gewissen Umstànden, cioè a determinate condizioni)! Sappiamo, tuttavia, che il Cristo neotestamentario ha nella fede cristiana una pretesa d'autorità primordiale o fontale. Ora, questo assioma è raggiungibile solo se poniamo il punto d'equilibrio non soltanto nel centro della storia, bensì anche nella totalità della rivelazione di Dio, intesa, a sua volta, non semplicemente come un processo «in fieri», nel quale il «dopo» annulla o devitalizza il «prima», bensì anche e soprattutto come la comunicazione totale che Dio fa all'umanità, storicamente determinata prima dall'Israele precristiano e poi dalla comunità cristiana delle origini. Gesù Cristo è il centro e il cuore del discorso totale di Dio (Antico e Nuovo Testamento), perennemente valido, perché attuato sì in modo definitivo dal Cristo, ma, grazie a lui, reso accessibile in tutte le sue potenzialità non ancora esperite totalmente dai cristiani e dall'umanità intera di ogni tempo e di ogni luogo. In altre parole, l'AT, proprio perché non è più semplicemente, come voleva una certa esegesi classica, la cristallizzazione diacronica della storia dell'antico Israele, bensì la fondazione «dogmatica», redazionalmente confezionata, della rivelazione di Dio all'umanità, a partire dall'alveo storico d'Israele, nel quale si è inserito il tronco cristiano, appunto per questo, si diceva, la cosiddetta «parola di Dio» veterotestamentaria non è da vedersi come un discorso «invecchiato» di Dio, ma come un discorso sempre valido in tutti i suoi dettagli (non positivisticamente intesi!...), con la caratteristica di fondo della perenne attualità. Attenzione: non però un discorso continuamente da essere tenuto al guinzaglio del testo neotestamentario (e...dei neote-stamentaristi), ma un discorso, stimolato proprio dalla fede in Cristo ad autoscoprìr-si anche per noi come si è scoperto a Cristo e in Cristo.
Vi sarebbero naturalmente altre questioni connesse da definire, come l'approfondimento dello «specifico» veterotestamentario, che non è necessariamente precristiano, ma neanche «sub»-cristiano, oppure la questione circa il rapporto storia-fede, o positività storica e trascendentalità ermeneutica, nell'Antico come nel NT, ma in questa sede è bene rimandarle ad altra occasione.
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