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Marco Nobile OFM: Comprensione cristiana delle Scritture ebraiche

 
 
 
Foto Nobile Marco , Marco Nobile OFM: Comprensione cristiana delle Scritture ebraiche , in Antonianum, 71/1 (1996) p. 174-178 .

Premesse

Parlare di comprensione cristiana delle Scritture ebraiche comporta delle premesse chiare ed ineludibili.

a. Il nostro discorso non verte su un'interpretazione vera (quella cri­stiana) contro un'interpretazione falsa (quella ebraica). Quest'impostazio­ne non sarebbe solo scorretta, ma fuorviante perché falsa. È possibile che entrambe le interpretazioni, invece, siano vere, pur nella loro diversità. Non si tratta di conciliare l'inconciliabile, ma d'impostare correttamente il problema, se vogliamo superare una buona volta quella che per il cristiano è la questione ebraica. Com'è possibile ciò?

b. È possibile impostare correttamente il problema per vedere di ri­solverlo, se consideriamo pregiudizialmente che le Scritture ebraiche sono materialmente le stesse, sia per gli ebrei che per i cristiani, e che per en­trambi esse costituiscono anche teologicamente la stessa verità: sono rive­lazione di Dio.

c. Quando allora parte la distinzione? Al momento dell'uso del crite­rio ermeneutico. Per i cristiani la pregiudiziale ermeneutica è Cristo: è alla sua luce che la Bibbia viene letta e interpretata; mentre per gli ebrei il cri­terio è la volontà di Dio, ferma e misericordiosa, che si manifesta partico­larmente nella Torà.

d. A questo punto, di fronte a due vie divergenti, vi può essere un ponte tra di esse? Sì, il ponte è costituito dall'unicità delle Scritture per en­trambe, dallo stesso testo come termine di autoconfronto per ciascuna. Le Scritture sono la base per costruire la propria identità rispettiva e per ap­profondirla in una continua opera di autoaffinamento al cospetto della Pa­rola o della « Mikrà ». Quest'ultimo punto è fondamentale, perché si pone al di sopra di entrambe le comunità di fede e le interpella come verità va­lida per entrambe.

e. Poste queste premesse, il nostro discorso si articolerà ora in due parti: prima faremo parlare la Scrittura ebraica, poi ne daremo la lettura di Cri­sto per noi, prendendo come campione, il discorso della montagna mattea-no (Mt 5-7).

1. La Torà

Dt 4,5-8

« Vedi, vi ho insegnato prescrizioni e decreti (huqqim ùmispatitn)così come mi ha comandato il Signore mio Dio, affinché li mettiate in pratica nella terra di cui andate a prendere possesso. Osservateli e praticateli, perché ciò è la vostra saggezza e intelligenza agli occhi delle nazioni, le quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: "Questa grande nazione è il solo popolo saggio ed intelli­gente. Infatti, qual grande nazione ha la divinità così vicino a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo? E qual grande nazione ha leggi e norme giuste com'è tutta questa Torà che io oggi vi espongo?" ».

Questo è uno dei passi-chiave nei quali la Torà offre il criterio erme­neutico di lettura dei suoi testi: non un semplice incontro del credente con una serie di norme giuridiche, secondo una diffusa e tradizionale concezio­ne occidentale dello jus, bensì l'accettazione di un'espressione di decoro e di dignità, che dà spessore etico e qualità estetica all'essere il fedele di Dio, che compie la sua volontà. Il rapporto tra Dio e il credente, siglato nella berìt = alleanza, e tematizzato nella Torà, è espresso in questo passo in ter­mini di sapienza e d'intelligenza. La Torà non è quindi un codice, ma, dal punto di vista religioso, un sacramento di vita che Dio concede al suo po­polo, e, dal punto di vista teologico ed estetico, una compartecipazione a quella sfera divina, espressa in Gn 1,27 come « immagine e somiglianza di Dio » e in Pro 8,24-31 come possibilità di avere intimità con Dio per il tra­mite della sua sapienza:

« Quando non c'erano gli abissi io fui partorita,

quando non c'erano le sorgenti delle profondità delle acque;

prima che le montagne fossero piantate,

prima delle colline io fui partorita

Quando fissò il cielo io ero là,

quando stabilì il firmamento sopra la faccia dell'abisso...

quando fissò i fondamenti della terra,

io ero al suo fianco, come ordinatrice (o "suo pargolo"),

io ero la sua delizia giorno per giorno...

e mia delizia erano i figli dell'uomo ».

Il pensiero svolto in questo passo e da noi inteso, trova un'espressione felice in un libro che appartiene al canone cristiano, il libro del Siracide, precisamente in 24, 22ss:

« Tutto ciò (cioè il pensiero espresso nei versetti precedenti, dello stesso tenore del passo dei Proverbi), è il libro dell'alleanza del Dio altissimo, la legge che ci ha comandato Mosè e forma Perdita delle adunanze di Giacobbe. Essa trabocca di sapienza come il Pison e come il Tigri nel giorno delle primizie,effonde intelligenza come l'Eufrate (cf. Gn 2,10-14)e come il Giordano nei giorni del raccolto... »

II mistero dell'intimità del rapporto di Dio con il suo popolo, mediato dalla Torà, è espresso ancora nel Deuteronomio, in 30, 11-14:

« Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire sì che lo possiamo eseguire? Non è al di là del ma­re, perché tu dica: chi attraverserà per noi il mare per prendercelo e farcelo udire sì che lo possiamo eseguire? Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica ».

Possiamo, quindi, affermare che la Torà si presenti, ancor prima che come un codice legislativo, piuttosto come un libro sapienziale di vita, che dà la vita. Sì, perché, non va frainteso il significato del concetto di sapienza. Questa non era per l'antico Israele un atteggiamento estetizzante ed intel­lettualistico, ma una norma di vita, un orientamento per la vita (m', la ra­dice verbale da cui si origina la parola Torà, ha proprio il significato di « orientare, indicare »).

Questo senso profondo da dare alle Scritture ebraiche, e più specifica­mente alla Torà, si è mantenuto sempre nella comunità d'Israele, fino ad oggi. Lo sta a testimoniare quella che da essa viene definita « Torà orale » e che è contenuta nella Mishnà e nel Talmùd, cioè nella raccolta ufficiale di tutta la tradizione interpretativa, attraverso la quale i Saggi d'Israele pri­ma, e i suoi Maestri poi, hanno reso possibile l'osservanza della legge di Dio attraverso le varie epoche.

Le parole del grande maestro ebreo contemporaneo, Dante Lattes, proprio nel suo commento ai passi del Deuteronomio che noi abbiamo ci­tato, spiegano bene quanto abbiamo detto finora:

« Hanno rispettato gli Ebrei questo canone d'immutabilità della Legge, nei 3 500 anni del loro esercizio? Si può dire di sì e si può dire di no; si può dire di sì, se si considera lo spirito di quelle norme, si può dire di no, se si guarda alla let­tera. I nuovi bisogni, le mutate condizioni della vita, gli eventi della storia hanno portato qualche mutamento anche nelle disposizioni della Legge: molti istituti sono caduti (p. es. i sacrifici), molti si sono lentamente modificati (p. es. quello della remissione dei debiti), appunto per la preoccupazione di preservare lo spi­rito della Torah. Vedremo più avanti con quali criteri, con quali garanzie e da quale autorità si sono effettuati i legittimi cambiamenti. II rispetto per quelle di­sposizioni era richiesto non solo a causa della fonte da cui provenivano, ma in modo speciale in virtù della loro nobiltà e saggezza, per cui le genti avrebbero dovuto ammirare quel popolo che possedeva un così raro tesoro di sapienza ci­vile e sociale, una legislazione così ricca di umane e giuste norme. Noi crediamo che nessun intelletto onesto possa negare all'insegnamento di Mosè la sua origi­nalità e la sua grandezza e tutto ciò che vi è in esso di divino, di puro, di santo, di inattuato » (Nuovo commento alla Torah, p. 566).

2. La lettura cristiana della Torà

Mt 5,17-19

« Non crediate che io sia venuto ad abrogare la legge o i profeti; non sono venuto ad abrogare, ma a compiere. In verità vi dico: finché non passino il cie­lo e la terra, non uno iota, non un apice cadrà della legge, fino a che tutto ac­cada. Chi dunque scioglierà uno di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel Regno dei Cieli; chi invece li metterà in pratica e insegnerà a fare lo stesso, questi sarà consi­derato grande nel Regno dei cieli ».

Dopo quanto abbiamo detto sulla natura della Torà, sulla sua autopre­sentazione e su quella lettura extra-cristiana, che dovrebbe essere fatta propria anche da ogni cristiano, divengono più comprensibili ora queste parole di Gesù. Il loghion è fondamentale per il nostro argomento, perché qualifica il rapporto che il cristiano deve avere con le Scritture ebraiche. Cominciamo con il dire che cosa questo rapporto non dev' essere. Il detto di Cristo nega che lo specifico cristiano venga a costituire un'invali­damento della Torà e dell'AT in genere. È eliminata così radicalmente ogni tentazione marcionita più o meno ricorrente in un certo atteggiamen­to cristiano. Ma il loghion vieta anche che l'AT sia investito, nella lettura cristiana, di superfluità. Del resto, quanto si è detto nel primo paragrafo, elimina tale possibilità.

Come va inteso allora l'approccio cristiano con la Torà?

Gesù parla di « compimento », di πληρωμα, cioè di coerente realizza­zione del progetto divino rappresentato dalla Torà. Dalle esemplificazioni che Cristo stesso fa nei versetti seguenti (w. 21-48), si comprende che egli prende sul serio i comandamenti del decalogo (« Non uccidere, non com­mettere adulterio, non dire falsa testimonianza »), tanto sul serio che ne radicalizza la portata, trasponendone il senso fin nella radice, là dove il fondamento poggia direttamente nella volontà di Dio ed al di qua ancora di qualsiasi formulazione storico-giuridica. Si tratta, in altri termini, di quello spirito a cui faceva cenno più sopra il dott. Lattes e che egli, nel suo commento alla Torà, esplicita in altri luoghi, proprio talora ricordando passi evangelici, come quelli matteani (pp. 290s.397). In questo senso van­no anche tutte le tradizioni rabbiniche, le quali lungo la storia hanno cer­cato, proprio in nome di tale spirito, la traduzione giuridico-culturale dei dettami della Torà.

Certo, per il cristiano, il loghion di Gesù non va letto con preoccupa­zioni di tipo giuridico-disciplinari, peraltro improponibili come attuazione letterale, ma come ideale di vita umana pienamente realizzato dalla sua persona e reso possibile dal suo sacrificio per tutti gli uomini.

E tuttavia, ponendo tra parentesi lo specifico teologico cristiano, che attiene all'identità non imponibile della fede, possiamo dire che l'ideale di Gesù, rettamente inteso sia dai cristiani che dagli ebrei, sia perfettamente ebraico (si legga ad es. Aboth 4,9: « R. Jonathan usava dire: - Chi compie - meqayyem - la Torà in povertà, la compirà nella ricchezza; chi, invece, la trascurerà - lebattelah - nella ricchezza, la trascurerà in povertà).

Vi è quindi nell'approccio cristiano alla Torà, il dovere di accettarla come perenne fondamento della volontà divina, la cui misura di esplicita-zione e di applicazione è lo stesso agire di Cristo. Il che significa che il cri­stiano, che ha il compito d'imitare Cristo, non può non documentarsi e non dilatare la propria conoscenza ed esperienza spirituale con lo studio e la venerazione delle Scritture ebraiche. Non si tratta di accondiscendenza o di semplice devozione, ma di un compito vitale a cui la Chiesa del Concilio Vaticano II ha vigorosamente richiamato i cristiani. Conoscere le Scritture significa conoscere se stessi, ma conoscere se stessi vuol dire anche mettersi nel giusto rapporto con i fratelli ebrei, ai quali, come dice l'apostolo Paolo, si deve la linfa dell'olio buono dell'alleanza con Dio (cf. Rm 9, 4ss).

II Concilio spiega queste cose con lapalissiana evidenza nella dichiara­zione Nostra aetate:

« La Chiesa non può dimenticare che ha ricevuto la rivelazione dell'AT per mezzo di quel popolo con cui Dio, nella sua ineffabile misericordia, si è degnato di stringere l'antica alleanza, e che essa si nutre della radice dell'ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell'ulivo selvatico che sono i popoli pagani (cf. Rm 11,7-24)...La Chiesa ha sempre davanti agli occhi le parole dell'apostolo Paolo riguardo agli uomini della sua stirpe "ai quali appartengono l'adozione fi­liale, la gloria, il patto d'alleanza, le leggi, il culto e le promesse, essi che sono i discendenti dei patriarchi e dai quali è Cristo secondo la carne" (cf. Rm 9,4s), fi­glio di Maria Vergine. Essa ricorda anche che dal popolo ebraico sono nati gli apostoli, fondamento e colonne della Chiesa, e quei moltissimi primi discepoli che hanno annunziato al mondo il vangelo di Cristo » (862s).

L'ordine d'idee al quale il Concilio ci ha richiamati e che ancora oggi la Chiesa pressantemente inculca, deve farci riscoprire l'evidenza che la Si­nagoga e la Chiesa sono sorelle, perché si nutrono dello stesso pane che è la rivelazione dell'unico Dio. Un segno evidente di tale comunanza d'ori­gine e di natura è che unica è la matrice dei valori autentici della civiltà oc­cidentale: il giudeo-cristianesimo. Qui vi sarebbe posto per tutta un'altra relazione. A conclusione di questo nostro discorso, ci basti essere convinti di questa verità: l'autentica sapienza ebraica e cristiana, può solo dare vita, come quella che promette la Torà; se non ne dà, non è né ebraica ne cri­stiana.

Roma, 30 - marzo - 1995