Hermann Cohen (1842-1918) è uno dei rappresentanti più notevoli della cosiddetta scuola neokantiana, sviluppatasi nell'università di Marburgo e resa illustre da nomi quali Ernst Cassirer, Nicolai Hartmann, August Stadler e Franz Staudin-ger.
Il pensiero filosofico del C. poggia su due capisaldi: a) il primato del pensiero sull'essere, non nel senso idealistico hegeliano, ma in quello di un razionalismo, che trova i suoi influssi non solo nella natura trascendentale del pensare kantiano, bensì anche nel movimento di pensiero ebraico deW'haskalà (illuminismo); b) il valore so-vraeminente dell'etica, dato che l'«idea» coheniana ha sia il valore di fondazione dell'essere, in qualità di norma, sia quello di fine, in qualità di compito e di azione.
L'apporto dato dal Cohen al pensiero occidentale moderno è notevole. Non è tuttavia, sul suo sistema filosofico che verte il presente libro e la recensione che ne viene fatta.
L'opera va inquadrata nell'ultimo periodo della vita dell'autore, quando, deluso dall'indifferenza interessata di colleghi, e umiliato da un'opinione pubblica antigiudaica sempre più montante, lasciò ormai settantenne la cattedra di filosofia a Marburgo (1912), per trasferirsi nell'università di Berlino. Anche qui, però, rimase deluso; mietè successo, invece, negli ambienti colti ebraici. Così, come per un cerchio che si chiude, quella vita che era cominciata all'insegna dell'ebraismo ortodosso, sotto la guida del padre, Gerson, insegnante della sinagoga di Coswig, ora, dopo un lungo e glorioso arco d'impegno prettamente filosofico, rientrava in quell'alveo che in realtà il C. non aveva mai abbandonato: l'ebraismo. In tale interesse rinnovato e diretto per la sua religione, egli ha profuso tutta la sua esperienza e la sua rigorosità scientifica, così da creare una concezione sistematica originale dell'ebraismo. Certo, gli ebrei ortodossi non si riconosceranno nel pensiero del professore di filosofia, animato di spirito socialista e liberale, che ritiene superate certe forme della religione ufficiale tradizionale, e si erge al di sopra di tale confine provinciale, verso una religione dell'umanità. Eppure, l'ebraismo deve tanto a questo acuto pensatore, perché le idee più profonde e più originali del C, sono state originate, a nostro parere, proprio dalla sua anima genuinamente ebraica. Del resto, quella solidità di argomentazione che mantiene in modo serrato, lo situa nella più pura tradizione dei grandi filosofi ebrei medievali , come Maimonide. La lucidità razionale che contraddistingue il dettato coheniano, come caratteristica tipica di un filone importante dell'ebraismo, rende opportuna, come spiega Andrea Poma nel suo ottimo saggio introduttivo, la conoscenza di questo autore presso un pubblico non ebreo, che finora conosceva la tradizione ebraica solo così come fluiva dal filone mistico, pubblicizzato da Martin Buber e da Gerschon Scholem.
Andando direttamente all'opera in questione, il C. dispiega tutto il suo rigore filosofico, per dare una fondazione scientifica o razionale all'ebraismo: lo stesso titolo del libro è un programma. Il procedimento di pensiero che si snoda nelle pagine, è lucido e serrato e richiede un buon impegno intellettuale da parte del lettore. Meno male che nella seconda edizione di quest'opera, pubblicata postuma (si leggano le toccanti prefazioni della fedele moglie del C, Martha, morta nel lager nazista di Theresienstadt nel 1942), sono stati appianati alcuni punti del ragionamento coheniano.
L'assunto del C. è che l'ebraismo è nel contempo una religione nazionale e una religione universale (in questa sua passione per il tema della «nazione», egli è figlio del suo tempo, perché vi conferisce anche tratti nazionalistici germanisti, secondo la tendenza culturale dell'epoca). È nazionale, perché solo al popolo ebraico è stato fatto il dono di quelle fonti, le Scritture e la Torà orale (Mishna e Talmud), che tematizzano per iscritto la fondazione razionale del concetto di religione. La religione ebraica è, contemporaneamente, universale, perché il suo monoteismo ha i caratteri fondativi dell'autentica religione razionale, valida per tutti gli uomini, anzi, si può dire, che è proprio del carattere della nazione ebraica, di essere lo specchio e il segno dell'autentica religione per tutte le altre nazioni. In altri termini, proprio perché nazionale, l'ebraismo rivela la sua vocazione di guida rivelativa dell'universale. La nazione ebraica si pone come battistrada verso il futuro consesso universale delle nazioni.
Il C. fonda queste sue convinzioni sulla previetà trascendentale della ragione umana, la quale conferisce rigore scientifico e universalità sia all'etica, che è lo sbocco della ragione, che alla religione, la quale ha uno stretto rapporto con l'etica stessa. L'apriori razionale, strenuamente difeso e perseguito dal Nostro, contro l'ingerenza di una qualsivoglia indagine di storia comparata delle religioni, dalle quali si voglia comporre un sistema, sembra incorrere in una contraddizione, quando presenta le fonti dell'ebraismo (Bibbia e Torà orale) come lo strumento materiale e formale per dare corpo alla funzione trascendentale della ragione «religiosa» . Naturalmente, il C. è conscio di ciò e sa difendere lucidamente questa sua «contraddizione», Ma tant'è: l'apriori fideistico, seppur splendidamente razionalizzato, rimane.
Capisaldi dell'argomentare coheniano, nella costruzione del suo sistema di pensiero, sono l'«unicità di Dio», a cui si accompagna il «divieto del culto delle immagini», e i concetti di creazione e di rivelazione. L'ebraicità del C, trasuda da queste pagine profonde, talora bellissime, anche se unilaterali nei riguardi del cristianesimo (per il C. ha rilevanza solo il cristianesimo protestante), che viene accusato da un lato di aver attentato all'unicità di Dio con la dottrina dei Logos, e dall'altro di aver fatto del mediatore messianico un espiatore della colpa (impossibile per il concetto di santità ebraico) e non un rappresentante della sofferenza:
«La remissione dei peccati non può divenire l'opera del Messia, poiché essa è la sola opera del Dio unico. Resta invece compito del Messia fare della santità dell'uomo davanti a Dio il concetto ideale dell'uomo (p. 382)... E così anche l'uomo, il Messia, diviene ora concepibile come rappresentante vicario, non della colpa degli uomini e dei popoli, ma della sofferenza, che dovrebbe essere altrimenti la loro punizione (394)... L'interpretazione crìstologica del servo di Dio ha fallito nella concezione della storia, poiché ha fatto del rappresentante vicario della sofferenza il rappresentante vicario della colpa. Questo non esiste e non può esistere, nella misura in cui l'etica resta la norma metodica della religione...» (p. 395). Quanta freddezza da questo pur comprensibile ragionamento! E che differenza di prospettiva tra un concetto filosofico di sofferenza e di male e la concezione solidaristica cristiana, teologica ed esistenziale insieme, del dolore e della morte! Tuttavia, le pagine del C. rimangono stimolanti e spingono ad uno spietato rigore anche il pensatore cristiano.
I capitoli di cui si compone il libro sono numerosi e ciascuno si presenta come una faticosa, ma feconda meditazione; del resto, chi l'ha detto che un testo di meditazione debba essere per forza superficialmente ed emotivamente gratificante, senza impegnare tutta la persona,... anche l'intelletto?!
L'opera è corredata, oltre che dal saggio del Poma, come si è detto sopra, anche da un nutrito indice analitico e da una ricca e buona nota bibliografica.