D'Alessandro Anna ,
Recensione: CHIARA FRUGONI, Vitadiun uomo: Francesco d'Assisi ,
in
Antonianum, 71/3 (1996) p. 581-586
.
«Viveva ad Assisi, nella valle spoletana, un uomo di nome Francesco». Comincia così, come una bella favola, l'ultimo libro di Chiara Frugoni. E dopo un'inizio così invitante, il seguito non delude le aspettative: la biografia di san Francesco prosegue con ritmo veloce, agile, asciutto, spesso profondamente suggestivo. L'autrice, liberato il racconto da quell'apparato critico tanto caro agli studiosi, ma forse meno adatto al vasto pubblico, interessato sì a conoscere il santo di Assisi, ma non ad addentrarsi nelle intricate questioni dei convegni e nelle curiosità degli specialisti, punta tutta la sua attenzione sull'uomo Francesco e la sua personalità, mantenendo in pieno le promesse fatte nella copertina posteriore del volume: «Ho cercato di scrivere - spiega l'autrice - nel modo più semplice, preciso e attraente di cui fossi capace [...]. In questa Vita risaltano le ambizioni e la vivissima intelligenza di Francesco, le debolezze e i difetti del carattere e, perché ho? le superstizioni radicate, che aveva in comune con gli uomini del tempo [...]. Vorrei essere riuscita a far apprezzare - di Francesco - la profonda e dolente comprensione della sofferenza, l'insolito spirito di tolleranza di fronte a una chiesa in armi: l'amore vero e intenso del prossimo, le geniali idee, la grande libertà mentale che lo rese capace di rifiutare una morte edificante [...]».
Ma dietro questo libro all'apparenza semplice, che fluisce con la velocità di un romanzo, si scorge la grande preparazione dell'autrice, sostenuta da una rara vastità d'informazioni nei più svariati campi. Innanzitutto da buona storica, la Frugoni costruisce attorno a Francesco tutta l'intelaiatura del contesto storico, fornendo, con dovizia di particolari e con brevi spiegazioni, quando lo ritiene necessario, dati storici e riferimenti a fatti e luoghi precisi. Tutto questo dà spessore e arricchisce la figura di Francesco, che non appare come un personaggio fuori dallo spazio e dal tempo, come una figura da presepe, ma altresì come un uomo perfettamente inserito nella mentalità, nella vita, nel pensiero, negli usi e costumi della sua epoca. Inoltre i riferimenti dell'autrice alle fonti coeve come le «canzoni di gesta», ossia i romanzi di re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda, rendono più chiari e fruibili alcuni ideali dei nobili del tempo, come la «Prodezza», la «Liberalità» e la «Cortesia» e rappresentano in modo suggestivo la prima aspirazione di Francesco - voleva diventare un principe adorato in tutto il mondo - e come le sue prove di cortesia e nobiltà d'animo tanto sorprendenti, fossero in realtà i segni premonitori della sua santità.
Traspare poi, ad ogni riga, la profonda conoscenza delle fonti di Chiara Frugoni: non solo quelle scritte, ma anche quelle figurate. Competenza di cui l'autrice aveva già dato prova in altri due volumi, sempre sull'assisiate: Francesco: un'altra storia (Genova 1988) ed il recente ed impegnativo Francesco e l'invenzione delle stimmate. Una storia per parole e immagini fino a Bonaventura e Giotto (Torino 1993). In questo terzo libro, la Frugoni privilegia le fonti più antiche che riguardano Francesco: gli stessi scritti del santo, come ad esempio il Testamento, il commento al Padre nostro, le Ammonizioni, le Regole e poi le due Vite scritte dal primo biografo, Tommaso da Celano. La Frugoni lascia, però, spazio anche alle biografie «non ufficiali», come la Leggenda dei Tre Compagni e lo Specchio di perfezione dello stato di frate minore, composte dai primi compagni del santo, forse scontenti del ritratto convenzionale che si andava affermando. L'autrice si serve spesso anche di fonti «parallele», come la Cronaca di Giordano da Giano, il poema in versi del Chierico Enrico d'Avranches, il Trattato di Tommaso da Eccleston, i Chronica malora del benedettino Ruggero di Wendover e il Sacro patto con Madonna Povertà. Tutto questo materiale aiuta la Frugoni a descrivere, a volte con qualche sapido dettaglio, la prima comunità francescana: «Anche con sbagli ed esperimenti non sempre riusciti - scrive l'autrice - la piccola comunità vive però, tutto sommato, un'intensa stagione felice: uomini, ognuno a modo suo, straordinari, i fratelli sono legati da grande affetto e spirito di carità, soprattutto dall'entusiasmo per la nuova vita e dalla fede in Dio e in Francesco [...] Una semplice vita serena, senza penitenze eccessive, anzi con una benevola attenzione alle esigenze ineludibili di «fratello corpo», e un'indigenza accolta con gioia perché volontaria e portatrice di una libertà mentale sconfinata, che dilata sogni e aspirazioni, rendendo lieve ogni ostacolo nel bruciante desiderio di seguire Cristo».
Le pagine a mio giudizio più belle e commoventi sono quelle in cui la Frugoni descrive il presepio di Greccio. L'intelligenza nel confrontare le fonti, cogliendone i rapporti anche sottili, lasciano il posto all'amore e alla profonda stima che l'autrice nutre per Francesco, il «suo» Francesco. Solo un forte sentimento può far descrivere una scena con tanta intensità: «Il racconto di Tommaso da Celano - scrive la Frugoni - sembra la descrizione di un meraviglioso presepio vivente. [...] Francesco è felice, profondamente commosso. Si riveste di paramenti diaconali e canta con la sua bella voce il Vangelo, predica con parole dolcissime, trascina ed entusiasma gli astanti rievocando la piccola città di Betlemme, il Bambino divino e poverissimo, con [...] entusiasmo infuocato [...] Cristo è venuto a portare la pace [...], la pace che Francesco era andato ad annunciare prima ai crociati e poi al sultano, e vorrebbe accolta dai conterranei, dai frati, dalla Chiesa. Giunto quasi alla fine della sua vita, malatissimo, sapeva di non poter più rivedere quelle terre lontane verso cui si era mosso con tanto entusiasmo [...] Il presepio di Greccio spegne il bisogno del viaggio verso la Terrasanta [...]. Non c'è bisogno di attraversare il mare per vibrare d'emozione né di imporre la fede, ritenuta la vera, con le armi e la violenza. Betlemme è ovunque, anche a Greccio, perché deve essere prima di tutto nei cuori». Mi è sembrata molto suggestiva anche la descrizione della morte di Francesco. La Frugoni evidenzia il dolore fisico e la debolezza del santo, il suo desiderio di cose semplici, di pace, di protezione. E mette in risalto come, anche in quegli ultimi momenti di agonia, Francesco sia riuscito a mantenere il suo amore per il creato, dono bellissimo del Signore, riuscendo a completare il famosissimo Cantico delle Creature e come, soprattutto, abbia mantenuto la sua grande libertà mentale, scegliendo una morte, a giudizio di molti, non conforme ai modelli di santità del tempo.
Il Francesco che scaturisce dal libro della Frugoni è un uomo che raccoglie in sé tutte le inevitabili contraddizioni del suo tempo, e forse di ogni tempo: la profonda umanità, l'amore per la bella vita, le ambizioni, i progetti grandiosi, il desiderio di affermazione e di ascesa sociale. Ma allo stesso tempo l'anelito costante, la ricerca impellente del «trascendente», del «divino», bisogno che il santo riuscì a realizzare solo attraverso la sua radicale proposta di vita cristiana. Egli era profondamente intriso di quella religiosità che, in quei tempi, invadeva ogni aspetto della vita. Come ha giustamente sottolineato la Frugoni nel suo libro, i bambini imparavano a leggere sul Salterio, ossia la raccolta di salmi in latino e quindi: «imparare a leggere [...] voleva dire imparare insieme anche un'altra lingua, il latino, e cominciare a ricevere un'istruzione religiosa». Nel Medioevo, infatti, non c'era quella divisione tra «intelletto» e «fede» tipica dell'epoca moderna e contemporanea. Un uomo medievale, era anche e sempre un uomo religioso e Francesco era, prima di ogni cosa, un cristiano. Tutta la sua vita, come quella di ogni altro uomo medievale, era scandita dai ritmi religiosi, anche in senso pratico, visto che le ore del giorno corrispondevano a quelle della preghiera ed erano sottolineate dai campanili dei conventi. Tutto era teso verso la vita ultraterrena e ogni avvenimento era osservato, specialmente dagli uomini di cultura e dai teologi, non tanto nel suo valore oggettivo, quanto nel suo significato simbolico e trascendente. Come ha giustamente rilevato il Morghen nel suo volume Cultura e religione: «Il motivo fondamentale e preminente che ha ispirato e permeato tutto lo svolgimento della civiltà medievale è la tradizione religiosa cristiana. Per circa dieci secoli i princìpi religiosi derivati dal Vangelo hanno dato significato a tutte le manifestazioni della vita civile dei popoli europei, sì che l'Età di mezzo si può veramente considerare come il banco di prova del cristianesimo storico» (Cfr. Wolf, P.-Morghe, R., La civiltà del Medioevo. Storia e Cultura, 2, Bari 1991). So che molti storici positivisti non saranno d'accordo, ma a mio avviso solo comprendendo questo carattere peculiare ed esclusivo dell'epoca medievale, questo inscindibile rapporto tra religione e vita quotidiana, si può otto-nere una giusta lettura, paradossalmente più oggettiva e completa, dei dati storici in generale, e della personalità di Francesco in particolare. Del santo, ad esempio, si possono comprendere meglio alcuni atteggiamenti apparentemente senza significato, al limite della follia, come cospargersi il capo di cenere dicendo: «Io sono il Breviario, io sono il Breviario» in risposta ad un novizio che gli chiedeva il libro dei salmi. Si può apprezzare la profondità di alcune scelte, o meglio, non-scelte, come l'abito da «povero». Infine si possono collocare nella giusta ottica alcuni avvenimenti della sua vita, tanto lontani dalla nostra mentalità, come i frequenti sogni e le visioni. L'espressione «santa superstizione», ad esempio, che Chiara Frugoni usa riferendosi alle abitudini di Francesco di fidare in talismani, riti e oggetti, mi sembra non adatta e riduttiva. Il significato è a mio avviso molto più profondo. Per un uomo consapevole della presenza di Dio nella sua vita, dell'esistenza di un progetto divino su di lui, già prestabilito e che sta a lui comprendere, il ricorso ad alcuni gesti è semplicemente il tentativo di capire questo disegno divino, di avere un «segno». E qualche volta il segno viene addirittura male interpretato. Basti pensare al sogno dello splendido palazzo e la sposa, o all'episodio del crocifisso di San Damiano. In entrambi i casi, scrive l'autrice, Francesco «fraintende» il significato simbolico degli avvenimenti. Anche l'uso delle Sortes apostolorum può forse essere letto in questa chiave: un uomo, Francesco, alla ricerca del significato della sua vita, della via giusta da seguire, chiede a Dio un aiuto. La stessa Frugoni scrive che è proprio grazie alle Sortes apostolorum che «Francesco comprende veramente il suo compito» e cita poi anche il Testamento, dove Francesco scrive: «...lo stesso Altissimo mi rivelò che dovessi vivere secondo la forma del Santo Vangelo». Del resto, come ha giustamente sottolineato l'autrice, il Dio di Francesco non è quello lontano e severo dell'Antico Testamento o quello inconoscibile dello Pseudo Dionigi, ma un «Dio dal volto paterno che prova per l'uomo un amore vigile e costante, reso tangibile attraverso il sacrificio del Figlio diletto; un amore che durerà fino alla salvezza finale che il tempo deve ancora dipanare». Un padre amorevole che segue suo figlio in ogni passo, aiutandolo e confortandolo nei momenti difficili.
Credo, sinceramente, che in un libro scritto da una docente di Storia medievale e rivolto ad un pubblico vasto, composto soprattutto di giovani, «cera calda in cui si imprime indelebilmente, come un marchio, ogni nozione», come sosteneva una famosa insegnante, forse sarebbe stato utile sottolineare questo aspetto, che rappresenta, al di là dei differenti credi religiosi ed ideologie, un dato culturale comunque importante. Inoltre, a mio giudizio, questa considerazione non poteva che arricchire lo spessore umano e rendere ancor più profonda la personalità di Francesco.
Mi permetto, infine, di accennare un mio giudizio in riferimento al discorso delle stimmate, affrontato da Chiara Frugoni nel penultimo capitolo del suo libro. Ritengo, infatti, che il problema fondamentale, il discriminante, alla radice delle diverse posizioni su questo avvenimento, così importante nella vita di Francesco, vada ricercato oltre le diverse possibili letture o interpretazioni delle fonti. Mi riferisco ad un dato di fede fondamentale ed imprescindibile per ogni cristiano: il dono della «grazia». Per il cristiano, l'uomo può essere veramente tale, veramente uomo, completa espressione della sua potenzialità, solo beneficiando della grazia. Attraverso tutto il Nuovo Testamento, la grazia è il primo pensiero e l'ultimo, l'atmosfera in cui i cristiani vivono e si muovono. San Paolo scrisse che fu la grazia a renderlo consapevole, a farlo sentire chiamato personalmente, a farlo divenire un apostolo (Gal. 1,15; Rm 12,3; I Cor 15,10). Essa è la causa suprema che sostiene e accresce la vita del cristiano; illumina l'intelletto e rinforza i poteri, autonomi ed innati, della natura umana. La grazia, in breve, è l'aiuto esterno che rende più semplice la realizzazione delle naturali potenzialità (Cfr. Robinson, Christian Dottrine of Man, Edimburgo 1911,182). Un cristiano che ha fede in questo dato, non ha difficoltà a vedere in Francesco un «uomo» pieno e completo, perché realizzato e trasfigurato dalla grazia. È la grazia a rendere possibile una progressiva conformazione con il Cristo. Grazie alla grazia Francesco scopre l'amore del Padre e in esso cresce. Verso la fine della sua vita, quasi disperato, sentendosi incalzato, oppresso dalla Chiesa ed incompreso da molti dei suoi frati, si ritira sulla Verna e comprende di doversi abbandonare, fino all'estremo, alla volontà del Padre. Come Cristo, che si è fatto «uomo» e per amore del Padre ha vissuto nello spirito e nel corpo i dolori della passione, così Francesco, uomo «pieno» in virtù della grazia divina, e trasfigurato grazie ad essa, può esprimersi in completezza e assimilare la sua vita a quella del Figlio di Dio. Come ha giustamente notato il professor Zerbi nella sua ampia recensione «L'ultimo sigillo» (Par. XI, 107), «Va passione investe tutta la totalità della umanità di Cristo, senza che si possa nettamente distinguere l'elemento fisico da quello spirituale e la stessa cosa accade a Francesco che la rivive» (Cfr. P. Zerbi, «L'ultimo sigillo» (Part. XI, 107). Tendenze della recente storiografia italiana sul tema delle stimmate di s. Francesco. A proposito di un libro recente, in Rivista di storia della Chiesa in Italia, 48 [1994] 7-42).
Ovviamente questa visione prescinde dal dato storico. Ma anche analizzando le fonti non riesco a dimenticare almeno uno dei due punti sopraddetti: l'intima connessione tra religione e vita quotidiana nel mondo medievale. Per questo motivo non dubito della realtà del fatto delle stimmate, e sinceramente mi permetto di allinearmi sulle posizioni prese dal professor Zerbi nella sua recensione: preferisco essere accusata di scarso senso critico e magari d'ingenuità, ma tendo a guardare con più semplicità ai dati offerti dalle fonti. Partendo dalla sicura annotazione autografa di Leone, penso agli altri autori degli scritti su Francesco come uomini del loro tempo, spesso teologi di vaglia, interessati sì ai dati storici, ma molto di più al loro significato trascendente. Trovo sinceramente riduttiva la visione della Frugoni di un Bonaventura che scrivendo la Leggenda maggiore, risulta «diplomatico fino alla reticenza, tendenzioso» e che forse «inventa di sana pianta l'eposodio del sogno di Gregorio IX» e di un Elia che nella sua lettera, non concorde con l'annotazione di Leone, è «volutamente ambiguo nell'uso dei termini, scelti con molta cura e scrive con una disinvolta forzatura». Per quanto riguarda Bonaventura condivido completamente il punto di vista di Luigi Pellegrini, secondo cui «Proprio nella trasfigurazione di un'esperienza e di una "storia" concreta attraverso il filtro interpretativo di un robusto e organico pensiero teologico sta la singolarità dell'operazione agiografica condotta da Bonaventura» (Cfr. Pellegrini L., Introduzione, in Bonaventura, Opuscoli francescani/I [Sancti Bonaventurae opera, XIV/1], Roma 1993, 64 e 74). Ammiro, comunque, l'immenso sforzo e l'incredibile lavoro sulle fonti fatto da Chiara Frugoni nel tentativo di razionalizzare un dato così misterioso e meraviglioso come quello delle stimmate e sono d'accordo con lei quando sostiene che Francesco, stimmate a parte, rimane comunque un grandissimo santo.
Concludendo, considero questo libro un vero e sincero gesto di amore della Frugoni verso Francesco. È un atto rilevante e considerevole: un primo fondamentale passo per portare la grandezza di Francesco al grande pubblico. Inoltre tiene conto di tutti gli ultimi acquisti della storiografia moderna e sarà quindi un ottimo punto di riferimento per studiosi e studenti.
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