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Dalla Scuola Superiore di studi medievali e francescani: 3)Presentazione del libro di Chiara Frugoni, Vita di un uomo: Francesco d'Assisi

 
 
 
Foto D'Alessandro Anna , Dalla Scuola Superiore di studi medievali e francescani: 3)Presentazione del libro di Chiara Frugoni, Vita di un uomo: Francesco d'Assisi , in Antonianum, 71/3 (1996) p. 604-619 .

 Presentazione del libro: CHIARA FRUGONI, Vita di un uomo: Fran­cesco d'Assisi, Ed. Einaudi Struzzi, Torino 1995, pp. 169.

Il 10 maggio 1996, con la presentazione dell'ultimo libro di Chiara Frugoni: Vita di un uomo: Francesco d'Assisi, la «Scuola Superiore di Studi Medievali e Francescani» del Pontificio Ateneo Antonianum ha terminato la sua programmazione annuale pubblica, volta ad approfondire e far pro­gredire la conoscenza della cultura medievale e a dare maggiore spazio ad eventi di rilievo del mondo medievistico.

In apertura dell'incontro il Preside della «Scuola Superiore di Studi Medievali e Francescani», P. Alvaro Cacciotti ofm, ha anzitutto ringraziato i relatori che con squisita cordialità hanno accettato di recensire il volume della Frugoni. Poi, il Preside ha ringraziato, in modo del tutto particolare, la stessa professoressa Frugoni, perché oltre alla sua ormai consolidata amicizia con la «Scuola Superiore di Studi Medievali», ella continua a re­galare delle gemme intorno a Francesco d'Assisi e a tenere vivo l'interesse di tutti i Francescani con i suoi lavori sull'assisiate e il francescanesimo del­le origini. Infine, P. Alvaro Cacciotti ha presentato i relatori intervenuti al­l'incontro: il professor André Vauchez, Direttore dell'Ecole Frangaise de Rome, il quale ha dato il via agli interventi trattando del problema della san­tità di Francesco, il professor Giorgio Cracco, docente di Storia della Chiesa all'Università di Torino, il quale ha collocato il libro della Frugoni nell'ambi­to della storiografia moderna, facendo, in particolare, un parallelo con l'o­pera di P. Sabatier; il professor Fortunato lozzelli ofm, membro degli Edito­ri di Quaracchi-Grottaferrata e docente della «Scuola Superiore di Studi Medievali e Francescani», il quale è intervenuto sull'uso e l'interpretazione di alcune fonti francescane nel libro della Frugoni.

Prendendo la parola, il professor Vauchez, dopo aver ringraziato pa­dre Cacciotti per il suo invito e ricordato l'amicizia che lo lega all'autrice, ha sottolineato l'importanza del libro della Frugoni, che ha definito una «biografia aggiornata» di san Francesco, capace di superare gli usuali di­battiti tra specialisti e i libri troppo difficili per essere apprezzati dal grande pubblico; e come sia importante che qualcuno, qualcuno qualificato, abbia fatto lo sforzo di scrivere una vita di Francesco con un fine divulgativo. In questa biografia, ha spiegato il Direttore de l'Ecole Francaise, anche se non vi sono note o apparato critico, traspaiono il retrofondo dei lavori pre­cedenti della Frugoni e la sua ottima conoscenza delle fonti. Quindi, se a prima vista questo libretto può sembrare sbrigativo, in realtà tiene conto degli ultimi acquisti della storiografia più recente su Francesco. Inoltre il li­bro è basato su di una ottima conoscenza delle fonti coeve, sia francescane che non e sono apprezzabili i numerosi riferimenti ai testi letterari dell'e­poca, che spesso sono stati trascurati dagli scrittori di Francesco. Sono an­che importanti i riferimenti alle immagini, all'iconografia, cosa che non sorprende, visti i recenti lavori della professoressa Frugoni su Francesco e le immagini. Il professor Vauchez ha poi sottolineato le ottime riflessioni della Frugoni su alcuni problemi ancora oggi molto dibattuti e ha citato al­cuni punti del libro che lo hanno particolarmente colpito, ad esempio la frase: «... per Francesco il luogo della vita religiosa è il libero spazio da per­correre in un perpetuo cammino» (p.50), oppure il punto dove si dice che i compagni di Francesco «... furono un dono dell'Altissimo. E perché di compagni si trattò e non di seguaci convertiti» (p.55), ossia si sottolinea lo spirito di uguaglianza alla conversione e alla penitenza della prima frater-nitas. Vauchez ha anche ricordato le pagine in cui si parla della predica agli uccelli e quelle del presepio di Greccio e ha apprezzato il lavora sulle stimmate e la commovente conclusione. Secondo Vauchez rimane tuttavia il problema del «successo» di Francesco. Come dice giustamente Chiara Fru­goni l'assisiate ha avuto molto successo: ha avuto dei compagni, un grande seguito di pubblico ed è riuscito a dare il via ad un movimento di massa. Il problema centrale da affrontare, ha spiegato il Direttore de l'École Fran­cese, è quindi quello della «santità» di Francesco, poiché egli è in effetti un modello di santità, ma sembra distaccarsi dalla tipologia dei santi pre­cedenti. I santi normalmente suscitano un sentimento di ammirazione, Francesco, al contrario, mira a provocare, in chi lo ascolta, un senso di ma­lessere e destabilizzazione; la santità lui la vive in rapporto con il pubblico, un rapporto mirante a provocare, attraverso il suo esempio, un senso di colpevolezza e di vergogna da parte di ascoltatori e spettatori. Ma il mes­saggio che Francesco cerca di infondere, ha sottolineato Vauchez, può es­sere compreso ed accettato dagli altri solo se il santo vive nella povertà con gli altri, con il pubblico. Ne è un esempio il racconto degli Scripta Leonis, quando Francesco riunisce il popolo di Assisi nella piazza, si fa condurre lì da Rufino, quasi nudo, con la corda al collo e rivolgendosi al pubblico ra­dunato, dice:«Credete che io sia un sant'uomo, ma vi confesso che durante la mia malattia ho mangiato della carne, del pollo». Tutti sono commossi a vederlo così, nudo in pieno inverno e appena guarito dalla febbre; comin­ciano così ad accusarsi, a battersi il petto e a pentirsi dei loro peccati. Que­sto episodio è una vera e propria messa in scena della santità ad uso pasto­rale. In effetti in partenza Francesco dà per scontato che tutti credano nel­la sua santità, ma poi si comporta come un grande peccatore, un criminale coinvolto in chissà quale reato e costruisce tutta la scena fino al punto cul­minante, la dichiarazione del suo peccato; peccato tra l'altro insignificante, leggero, affinché la folla possa rendersi conto della assurdità della situazio­ne, volgere lo sguardo dentro di se e capire che i veri peccatori sono loro e non Francesco. Questo tentativo di Francesco di distruggere la sua san­tità lo rende ancora più santo agli occhi del pubblico. Quindi l'idea com­plessiva di Francesco è che si possa essere ritenuti veramente santi solo se si vive la santità in ogni momento della vita. Non esiste una santità «par­ziale» come quella di san Bernardo, che si lamenta perché non si può de­dicare completamente alla preghiera e alla contemplazione per assolvere i suoi impegni, legati alla sua carica. Secondo Vauchez, per Francesco la santità consiste nel «fare» il santo, assumendo in ogni situazione il compor­tamento richiesto dalla imitatio Christi al fine di non deludere le attese e il bisogno di santità dei frati e dei laici che lo circondano. Il santo non si ap­partiene più, è un personaggio pubblico, gioca il ruolo di un attore, con il massimo impegno, fino alla fine. E Francesco accetta in modo passivo, sen­za discuterla, l'idea di santità dei suoi coevi e prova a conformarsi alle at­tese, se pur esagerate, della gente, come un giullare che si identifica in un personaggio, pensando sempre alla reazione del pubblico. Allo stesso tempo, per Vauchez, il santo deve reagire subito e direttamente di fronte a si­tuazioni dolenti, sempre nuove ed improvvise: c'è quindi una contraddizio­ne tra le due figure: l'una basata su un certo conformismo di tipo agiogra­fico, fare il santo, e l'altra basata sulla spontaneità della gente. Francesco ha la capacità di giocare su due registri insieme, nello stesso momento. Do­po le dimissioni egli non ha più nessun potere di tipo istituzionale all'inter­no dell'Ordine; gli rimane solo la sua autorità morale, basata sulla sua fama di santità ed egli si sforza di usarla per mantenere i frati sulla linea da lui ritenuta giusta; il suo scopo è fare della sua vita un exemplum continuo per salvare il suo proposito. Francesco ha capito perfettamente che la santità è prima di tutto un potere legato ad un certo comportamento ed ad un certo numero di pratiche che agli occhi del popolo significano «il santo». Egli gioca al santo con la massima serenità, con il massimo impegno, non per farsi ammirare, per diventare famoso, ma per poter recuperare all'interno dell'Ordine il suo proposito di evangelismo integrale, attraverso una seque­la Chrìsti concreta e fedelissima. Il martirio degli ultimi anni è legato pro­prio al fatto di essere sempre concentrato sul fatto di non deludere i frati e le loro aspettative, di essere esempio per i suoi compagni e per i laici che incontra sulla strada. Francesco, ha spiegato Vauchez, si distenderà solo quando si avvicinerà la morte e accetterà allora di fare un poco quello che gli piace, condividere la presenza delle suore e mangiare dei dolci, portati da Giacoma dei Settesoli. Francesco rifiuta di morire come un santo del suo tempo, si distacca dal modello a cui si era confermato sino a quel mo­mento. Non vuole morire come un cistercense, vuole morire in allegria, con il canto e nonostante l'opinione contraria di frate Elia, che pensa che tale morte non sia degna di un santo serio, Francesco si fa deporre nudo sul suolo e fino all'ultimo momento è regista e attore della sua santità. Conclu­dendo, Vauchez ha detto che certamente Francesco è stato ben presto con­sapevole di ciò che pensavano gli altri a suo proposito. Ha quindi assunto l'idea corrente, assieme popolare e classica del santo e si è sforzato di in­carnare questo ideale durante tutta la sua vita affinché il messaggio evan­gelico che voleva trasmettere non fosse frainteso o mitigato. Combinando il suo prestigio con l'insistenza marcata sulla necessità di seguire la regola sine glossa e nello spirito del suo testamento, Francesco ha tentato di sal­vare la sua eredità. Ci è riuscito finché è stato vivo, ma non è riuscito ad impedire, dopo la sua morte, che la sua vera santità fosse dimenticata o an­cora peggio, forse, fosse ricreata in sensi e direzioni molto diverse da ciò che lui aveva sognato di realizzare.

Il sfecondo relatore, il professor Cracco, docente di Storia della Chiesa all'Università di Torino, ha invece iniziato il suo intervento facendo un omaggio molto personale all'autrice. Ha letto la dedica che apre il libro: «Alla mamma e nonna Pia, vicino ad un piccolo lago» e ricordando il padre della Frugoni, il professor Arsenio Frugoni, ha fatto un parallelo tra padre e figlia, sottolineando come entrambi siano studiosi di grande raffinatezza, capaci di leggere la storia culturale, la storia dei segni, con grande finezza e profondità. Entrando poi nel merito del suo intervento, Cracco ha ricor­dato come spesso gli studiosi siano abituati a nascondersi dietro una corti­na di dati, citazioni e riferimenti bibliografici e come, al contrario, il libro della Frugoni si sia liberato da tutto questo. Solo alla fine del volume, l'au­trice ha inserito due paginette di bibliografia molto sintetica ed essenziale. Il libro, quindi, non è stato scritto per gli addetti ai lavori, ma per i giovani, i loro genitori, gli amici adulti e tutti coloro che hanno un'idea superficiale, magari episodica, della vita di san Francesco. Le biografie, ha sottolineato il professore di Torino, sono un cavallo di battaglia molto delicato, perché al contrario di altri tipi di lavori storiografici non personali, come ad esem­pio la storiografia delle strutture, delle società e dei fenomeni economici, le biografie costringono a confrontarsi con una «persona». Nel caso speci­fico, Francesco è una persona notissima e molti conoscono la sua storia. Del resto, l'autrice non pretende di portare dati nuovi all'attenzione dei lettori. Ma la novità del libro della Frugoni, ha spiegato Cracco, è l'«otti-ca», ossia il punto di vista da cui si pone l'autrice, rinnovando la lettura del­le fonti e l'utilizzo della bibliografia. Per analizzare meglio questa nuova ottica, Cracco ha paragonato, giustapponendolo, il libro di Chiara Frugoni con l'opera scritta un secolo fa da P. Sabatier. Partendo dal titolo, ha rile­vato come i due lavori, Vita di un uomo: Francesco d'Assisi, della Frugoni e Vita di san Francesco d'Assisi, di Sabatier sembrino all'apparenza molto si­mili. Ma c'è quell'«uomo» di mezzo. Anche Sabatier ha lavorato sull'uomo Francesco e ad un certo punto del suo libro si legge addirittura: «Non di­mentichiamo, anche in uomini come Francesco, che sono stati uomini co­me noi». La Frugoni recepisce e amplia l'importanza dell'umanità di Fran­cesco, essendo consapevole di come l'immagine ovattata del santo, dentro l'agiografia ufficiale, sia un'immagine stigmatizzata, un qualcosa che allon­tana la figura di Francesco, la rende troppo superiore alle capacità umane, per cui la si può venerare ma non imitare. Andando avanti, il professor Cracco ha analizzato l'indice del libro della Frugoni, un indice estrema­mente scarno, solo sette capitoli, estremamente succinti e lo ha paragonato con quello di Sabatier, dove invece si rilevano ben ventuno capitoli, con una periodizzazione molto minuta e non solo cronologica. Il libro di Chiara Frugoni vuole essere un libro «molto» personale, ha sottolineato Cracco, quindi le tappe naturali della vita di Francesco, espresse dai capitoli, ri­specchiano quelle della vita di ogni uomo: Infanzia e giovinezza; Il distacco; Questo voglio! Questo chiedo!; I compagni, le prime regole, Chiara; Greccio e Damietta; Le Stimmate. Vera scoperta, un pio racconto o un'audace invenzio­ne?; L'addio. Facendo una collazione, il professor Cracco ha notato che an­che Sabatier parte con la giovinezza di san Francesco, ma mentre il suo se­condo capitolo è intitolato: 77 cammino verso la conversione, la Frugoni preferisce parlare di distacco, termine sicuramente scelto di proposito. La chiave del Sabatier è sicuramente religiosa, ha sottolineato Cracco, mentre sicuramente non si può dire altrettanto del libro di Chiara Frugoni. La ma­trice è quella cavalleresca: Francesco è un uomo che ha un ideale, quello di essere promosso alla dignità della cavalleria, per questo ha tutti quegli at­teggiamenti particolari e sogna di diventare un grande principe. Conti­nuando nella collazione dei titoli dei capitoli, Cracco ha rilevato come il Sabatier inserisca nella sua biografia degli aspetti, dei nessi con la storia re­ligiosa, politica e culturale dell'epoca di Francesco, dati che invece non so­no evidenziati nel lavoro della Frugoni. Questo sottolinea ulteriormente il differente registro scelto dall'autrice: la chiave «umana», quasi domestica, quasi privata di Francesco, senza tener conto, se non per i riferimenti ne­cessari, di tutto quello che accadeva intorno al santo. Come esempio, Crac-co ha evidenziato un aspetto, a suo giudizio, molto significativo: la mania che aveva Francesco di andare a restaurare le chiese, pulirle e sistemarle. Ad un primo sguardo, sembra quasi un vezzo, una cosa un po' secondaria, un'attività simbolica. Ma il professore di Torino ha sottolineato l'importan­za della situazione generale. Vi era, al tempo, un assoluto decadimento dell'architettura sacra, dell'edilizia religiosa. Era un momento di passaggio cruciale, aspro, dal territorio alla città e da una classe dirigente ad un'altra. Mentre le chiese, in precedenza, erano state tutelate e finanziate dai signo­ri del territorio, adesso questi signori si stavano inurbando e tutta questa edilizia veniva abbandonata. Questo aprirebbe un grosso problema, che al professor Cracco sarebbe piaciuto vedere nel libro: cioè qual è l'atteggia­mento di Francesco nei confronti della città. Sembra, secondo Cracco, che ci sia anche in Francesco la ricaduta di quella terribile crisi che ha investito tutta la Chiesa, perché la Chiesa aveva saputo conquistare le campagne, ma il fenomeno della città, fra dodicesimo e tredicesimo secolo, era un av­venimento del tutto nuovo, al quale la Chiesa era completamente imprepa­rata. La letteratura dell'epoca rispecchia una quasi generale condanna del­la città, che rappresentava Caino, l'uomo perverso. Sarebbe quindi stato utile, per Cracco, allargare il discorso e problematizzare di più il rapporto tra Francesco e la Chiesa. Egli ha notato nel libro della Frugoni una cosa bella, ma allo stesso tempo limitante, la stessa che ha notato in Sabatier: la Frugoni vede Francesco come un grande gigante isolato. Secondo Cracco questo è un tema affascinante, che ha interessato anche Sabatier e altri stu­diosi francescani, ma forse bisognerebbe fare lo sforzo di capire meglio questa personalità, questa umanità di Francesco. Nella famosa lettera di Giacomo da Vitry, del 1216, si legge l'episodio in cui egli nota questi «stra­ni uomini» (non conosceva Francesco) i quali, di giorno andavano in città a predicare e a dare il buon esempio e di notte si ritiravano sul monte a pregare. Francesco, allora, non era solo: secondo Cracco sarebbe utile ap­profondire il suo rapporto con i compagni, con la Chiesa, con lo stesso papa Innocenzo III, il quale, quando ancora non conosceva Francesco, era ri­masto profondamente colpito da quanti si comportavano «come Giovanni Battista», abbandonando le ricchezze, la città e ritirandosi a vivere come eremiti. Questo aspetto, ha spiegato Cracco, avrebbe forse potuto radicare meglio proprio quello che alla Frugoni stava più a cuore, cioè l'umanità di Francesco. In conclusione il professor Cracco ha fatto un'ultima osserva­zione in riferimento alle stimmate, confrontando il libro di Chiara Frugoni con quelli del Sabatier e del Robinson, sulla vita di Maometto. È interes­sante il fatto, ha sottolineato Cracco, che il Robinson, per spiegare l'espe­rienza mistica di Maometto, ha usato e citato santa Teresa d'Avila, quan­do, raccolta in sofferente preghiera, era lungi dall'aspettarsi una visione; improvvisamente l'immagine di nostro Signore si è mostrata a lei per inte­ro, turbando profondamente le sue forze e i suoi sensi e li ha riempiti di ti­more e di commozione per comporli poi in una pace deliziosa. L'immagine che si trae dal Sabatier e Robinson, secondo il professor Cracco, è che «non» bisognerebbe parlare delle stimmate. La Frugoni ha fatto uno sforzo gigantesco per razionalizzare il fenomeno delle stimmate. Non entrando nel merito se questo sforzo valeva o meno la pena, Cracco ha rilevato come altri autori di fronte ad esperienze mistiche estremamente complesse si so­no arrestati, mentre la Frugoni è andata avanti.

Il terzo relatore, il professor Iozzelli ha invece analizzato l'uso che Chiara Frugoni fa delle fonti nel suo libro. Per gentile concessione dell'au­tore, riportiamo integralmente il testo del suo intervento.

Intervento del prof. Iozzelli:

«1. - Prima di entrare nel vivo della presentazione del libro Vita di un uomo: Francesco d'Assisi, vorrei brevemente ricordare una persona che mi ha fatto conoscere ed apprezzare Chiara Frugoni. Mi riferisco al confratel­lo ed amico padre Girolamo Poulenc, scomparso il 29 novembre 1989 a Pa­rigi all'età di 64 anni. Durante le nostre frequenti conversazioni, mi parlava con entusiasmo delle sue ricerche sui rapporti tra le fonti francescane e gli affreschi e vetrate della basilica superiore d'Assisi; e citando gli studi di Chiara Frugoni, constatava con soddisfazione che non era il solo ad avven­turarsi in questo campo d'indagine.

Circa dieci giorni prima del decesso, padre Girolamo riuscì a dettare al fratello gemello, che lo assisteva, una lettera indirizzata al sottoscritto, nel­la quale asseriva che era sua intenzione, una volta ristabilitosi in salute, di svolgere un corso aWAntonianum di Roma sulle interdipendenze tra fonti letterarie e fonti iconografiche. «Tu sai - mi scriveva - che la preoccupa­zione principale delle mie ricerche e pubblicazioni concerne i rapporti tra testi letterari e immagini. E un problema sul quale resta ancora molto da indagare. Mi sembra necessario fornire agli studenti, che lo desiderano, gli elementi utili per il lavoro tecnico in questo settore. Ho già raccolto un'abbondante documentazione e non mi sarà difficile impostare un corso ben strutturato».

Sul finire del 1989, Chiara Frugoni non era ancora al corrente della morte del padre Poulenc. Sicché gli inviò una lettera a Grottaferrata, per domandargli alcune informazioni. Fui io ad aprire la missiva e a comunica­re alla Frugoni la morte dell'amico. In data 25 aprile 1990, ella così mi ri­spondeva: «Sono rimasta veramente costernata nell'apprendere la notizia della morte di padre Girolamo [...]. Non avrei mai immaginato una fine così vicina. Ho un ricordo così nitido e così bello del tempo passato nella biblioteca di Grottaferrata [...] con padre Girolamo a parlare e a discutere. È proprio una perdita di un amico sollecito e di un grande studioso. Mi ri­cordo che padre Poulenc aveva parlato di una fonte che spiegava tutta la chiesa superiore d'Assisi. Ha portato avanti questo lavoro? Può darsi che finiti gli impegni universitari, possa venire qualche giorno a Grottaferrata per portare avanti il mio secondo libro su s. Francesco»10.

Purtroppo il padre Poulenc è morto senza aver terminato le sue ricer­che. Chiara Frugoni, invece, dopo il saggio su Francesco: un'altra storia (Genova 1988), ne ha pubblicato un secondo - più impegnativo - dal titolo Francesco e l'invenzione delle stimmate. Una storia per parole e immagini fino a Bonaventura e Giotto (Torino 1993)n e, nell'ottobre dell'anno scorso, ci ha dato l'agile profilo biografico di Francesco d'Assisi che stiamo presen­tando. Si può a ragione parlare, come nel caso di Tommaso da Celano, di una trilogia su Francesco d'Assisi. D'altra parte è risaputo che omne trinum est perfectum.

2. - Tengo subito a puntualizzare che questo mio intervento si limita a prendere in esame un aspetto del libro della Frugoni, e cioè l'uso e l'inter­pretazione di alcune fonti francescane. «Scrivendo la biografia di san Fran­cesco - dichiara l'autrice - ho soprattutto pensato a quali lettori mi sarebbe piaciuto avere: innanzi tutto i giovani, che l'hanno intravisto sui banchi di scuola [...]. Ma ho pensato anche ai loro genitori, agli amici adulti, a quel pubblico che non è necessariamente soltanto il devoto in pellegrinaggio ad Assisi, o lo studioso affezionato ai convegni. Ho cercato di scrivere nel mo­do più semplice, preciso e attraente di cui fossi capace...»12.

Francescanamente spoglio del consueto apparato di note a pie di pa­gina che appaga la curiosità intellettuale degli specialisti (contiene, però, 11 illustrazioni correlate al testo), il libro si rivela fin dalle prime pagine di piacevole lettura. La Frugoni si preoccupa di mettere il lettore a contatto con gli scritti di Francesco e dei primi biografi, collocandoli di volta in volta nel loro Sitz im Leben, e cogliendone lo spessore storico-religioso. Nel ri­costruire la vicenda umana e cristiana di Francesco d'Assisi, l'autrice lascia dunque parlare le testimonianze più antiche che lo riguardano. Evita, però, di creare una sorta di impianto concordistico e combinatorio che «ancora caratterizza generalmente le biografie moderne di Francesco, che utilizza­no e recuperano i racconti degli antichi agiografi senza sottoporli sempre a quel vaglio critico che ne misuri preliminarmente consistenza e attendibi­lità»13.

La sensibilità critico-interpretativa della Frugoni si avverte fin dal pri­mo capitolo nel quale, a proposito dell'infanzia e giovinezza di Francesco, entra in scena Tommaso da Celano con la sua Vita prima: «Viveva ad As­sisi, nella valle spoletana, un uomo di nome Francesco...»14. L'autrice spie­ga sinteticamente le circostanze in cui fu redatta la prima biografia di Fran­cesco e i suoi limiti: Tommaso non racconta tutta la vita del santo (dalla nascita alla morte), ma «solo la seconda metà, quella del giovane uomo av­viato a divenire e divenuto santo»15. Fortunatamente il vuoto del Celano è colmato dalla Legenda trìum sociorum (Leone, Angelo, Rufino), che così intitola il primo capitolo: «Della nascita di Francesco; delle sue frivolezze, stranezze e prodigalità; e come arrivò a generosità e affetto verso i pove­ri»16. La parola ritorna poi al Celano, quando si tratta di illustrare la crisi che si verifica nel giovane Francesco dopo la prigionia a Perugia. La vista della campagna d'Assisi non gli procura più l'attrattiva di un tempo; nel suo animo si affacciano interrogativi e ripensamenti, ma non è ancora giun­to il momento della svolta decisiva. L'analisi dello stato interiore di Fran­cesco condotta dal Celano, come sottolinea la Frugoni, non è priva di considerazioni e forzature moraleggianti, ma è assai perspicace nel ritrarre la psicologia dei giovane alla ricerca della propria identità17.

Nel presentare la scelta fondamentale di Francesco, il suo exire de sae­ttilo, la Frugoni cita il Testamentum del santo, un testo basilare per com­prendere «le caratteristiche e le motivazioni con cui Francesco soggettiva­mente pensò e visse la propria esperienza religiosa di conversione e di vi­ta»18: «Il Signore concesse a me frate Francesco, d'incominciare così a far penitenza...»19. Vivendo con i lebbrosi, Francesco scopre in loro non solo dei fratelli da amare e servire, ma il volto stesso di Cristo che per amore degli uomini si è fatto povero e pellegrino, ha sofferto, si è lasciato croci­figgere come uno schiavo: in una parola, si è abbandonato totalmente alla volontà del Padre.

Se quest'esperienza separa a poco a poco Francesco dalla famiglia, da­gli amici e da un tipo di vita incentrato sul proprio io, non elimina tuttavia in lui il bisogno (se così posso esprimermi) del padre. Riferendosi ad un al­tro scritto di Francesco, YExpositio in Pater noster20, la Frugoni vi coglie il riflesso della sofferenza del santo per la brusca rottura con Pietro di Ber-nardone, ed evidenzia un aspetto al quale diversi studiosi, forse perché troppo interessati al cristocentrismo di Francesco, hanno prestato scarsa attenzione. «In tutti gli scritti - osserva l'autrice - Francesco privilegiò sempre il volto paterno di Dio e il suo amore vigile e costante per l'uomo, attraverso il sacrificio del Figlio diletto [...]. Da una parte, nella visione teo­logica di Francesco il sacrificio di Cristo non aveva coinciso con la morte perché già tutto consumato nel Monte degli Ulivi, ubbidendo al Padre ce­leste, dall'altra, per l'uomo peccatore, il riscatto poteva avvenire solo se­guendo l'orma lasciata dal Fratello: rimettersi, prendendo Cristo a esem­pio, alla volontà del Padre. In tale rapporto, così originale, immediato e di­retto traspare uno struggimento per un legame con il padre, infranto ma non dimenticato»21.

Intrapresa la vita «secondo la forma del santo Vangelo» come l'Altis­simo stesso gli aveva rivelato, Francesco, insieme ai compagni che conside­ra come un dono del Signore22, attua l'impegno religioso non come prete o monaco, bensì nello stesso spazio in cui si muovono e operano i laici. Sulla base soprattutto del Testamentum, delle Admonitiones e delle due Regulae (del 1221 e del 1223), Chiara Frugoni delinea con maestria i tratti essenzia­li della primitiva fraternità francescana: la lealtà e riverenza verso Roma (Francesco «rispetta la Chiesa ma segue le orme di Cristo, le sue paro­le»)23, la promozione della pace («Il Signore ti dia pace!» è il saluto di Francesco)24, il lavoro manuale, l'elemosina e la gioia.

Colpisce, in particolare, l'insistenza della Frugoni su quest'ultimo aspetto del tutto evangelico (cfr. Mt 6, 16-17). La radicalità della scelta re­ligiosa di Francesco, che comporta asprezze e privazioni, è intimamente connessa alla letizia. Non è arduo capirne le ragioni: la povertà volontaria è liberazione dalle cose, dagli affetti egocentrici, dalle preoccupazioni per il domani. È libertà da, ma al tempo stesso libertà per «ascoltare davvero le parole del Vangelo» e «amare senza riserve». «Mentre i monaci - rileva la Frugoni - piangono i loro peccati chiusi nei monasteri da cui non possono uscire, sostentati dalla ricchezza della comunità, mentre i preti e i canonici hanno pur sempre interessi comuni da difendere, Francesco e ì compagni abitano come gli altri poveri lo spazio aperto del mondo, uniti dall'affetto fraterno di una famiglia affiatata»25.

La penetrante riflessione dell'autrice si fonda su alcuni passi delle due Regulae, su vari episodi del Tractatus de adventu Fratrum Minorum in An-gliam di Tommaso d'Eccleston che descrivono con uno stile sapido la vita dei frati inglesi, e soprattutto su una celebre pagina del Sacrum commer-cium sancti Francisci cum domina Paupertate, un testo anonimo e di non si­cura datazione che offre «una prima e spontanea riflessione del giovane or­dine sulla propria vita»26. Alla lunga citazione tratta dal capitolo 30 di que­st'opera (// convito della Povertà con i frati)21, la Frugoni premette alcune parole di commento, in cui giustamente evidenzia il clima che regnava nella fraternità francescana delle origini: «una semplice vita serena, senza peni­tenze eccessive, anzi con una benevola attenzione alle esigenze ineludibili di «fratello corpo», e una indigenza accolta con gioia perché volontaria e portatrice di una libertà mentale sconfinata, che dilata sogni e aspirazioni rendendo lieve ogni ostacolo nel bruciante desiderio di seguire Cristo»28.

3. - Ma l'idillio iniziale non dura a lungo. La crescita numerica dei fra­ti e la loro diffusione in Italia e in altri paesi d'Europa pongono Francesco di fronte agli spinosi problemi organizzativi della fraternità, che sta lenta­mente trasformandosi in ordine. Nel delineare il graduale passaggio «dall'intuizione all'istituzione» (T. Desbonnets)29, la Frugoni affronta il nodo centrale della duplice redazione della regola (quella, per intenderci, del 1221 che non venne approvata, e quella del 1223 finalmente bullata da Onorio III). A prescindere dal clima carico di tensioni in cui si svolse la ste­sura della regola definitiva, ben percepibile nelle fonti francescane e in par­ticolare nella Compilatio assisiensis dove «vibra ben chiara la parzialità di frate Leone»30, vale la pena insistere su un breve confronto tra i due testi legislativi. Secondo la Frugoni, «la Regola finale, del 1223, è un riassunto della precedente con pesanti soppressioni e censure [...]. La maggior parte delle citazioni evangeliche è stata soppressa, il linguaggio è seccamente giuridico e non effusivo e poetico. Non si parla più di dover curare i leb­brosi, di rispettare una rigorosa povertà, di potersi ribellare ai superiori in­degni; è abolita la proibizione di tenere con sé libri e molto blanda è la rac­comandazione di lavorare manualmente...»31.

Mi permetto di rilevare che tutto questo è vero solo in parte. Ad un esame ravvicinato dei testi delle due regole, rimango perplesso di fronte al­l'affermazione così recisa dell'autrice, secondo la quale la Regala bullata, in seguito a «una serie di tentativi e di pesanti compromessi non rispecchiava più i primi propositi del santo»32. Vediamo qualche esempio.

  • Al e. V della Regala del 1221 non si parla tanto di «ribellione» ai su­periori, bensì di non obbedienza nei loro confronti nel caso che comandino ai frati sudditi «qualcosa contro la nostra vita o contro la loro anima»33. Questa disposizione si ritrova, sostanzialmente, anche nella Regala del 1223, che al e. X recita: «I frati, che sono ministri e servi degli altri frati, vi­sitino e ammoniscano i loro frati e li correggano con umiltà e carità, non ordinando ad essi niente che sia contro alla loro anima e alla nostra Rego­la». Ai sudditi Francesco ordina «di obbedire ai ministri in tutte quelle cose che promisero al Signore di osservare e non sono contrarie all'anima e alla nostra Regola»34. Anche senza ricorrere ad una esegesi particolareggiata di questi passi, risulta abbastanza evidente che la libertà di coscienza è garan­tita in ambedue le regole.
  • Per quanto riguarda la povertà, si constata che Francesco la ribadi­sce con forza nella Regala del 1223. Al e. IV comanda «fermamente a tutti i frati che in nessun modo ricevano denari o pecunia direttamente o per interposta persona»35. Poi, al e. VI, fonde insieme in una splendida sintesi tre aspetti: a) l'insicurezza materiale («i frati non si approprino di nulla, né ca­sa, né luogo, né alcuna cosa»); b) l'itineranza-mendicità sull'esempio di Cristo che si è fatto povero per noi in questo mondo («e come pellegrini e forestieri in questo mondo, servendo il Signore in povertà ed umiltà, vada­no per l'elemosina con fiducia. Né devono vergognarsi, perché il Signore si è fatto povero per noi in questo mondo...»); e) il senso dell'amore fraterno che viene a compensare sul piano affettivo il vuoto creato dalla rinunzia a ogni possesso (« e dovunque sono e si troveranno i frati, si mostrino fami­liari tra loro. E ciascuno manifesti con fiducia all'altro le sue necessità, poi­ché se la madre nutre e ama il suo figlio carnale, con quanto più affetto uno deve amare e nutrire il suo fratello spirituale?»)36.

4. - In questa rapida rassegna delle fonti francescane, non si può evi­tare di menzionare la Legenda maior di Bonaventura. La Frugoni vi fa ri­ferimento, anzitutto, a proposito dell'incontro di Francesco con Innocenzo III nel 1209/10. Ella rileva acutamente che proprio la «ufficialissima Leg­genda maggiore, diplomatica fino alla reticenza», testimonia che l'udienza papale non si svolse in un clima privo di difficoltà e contrasti37. Al «tutto bene», «tutto liscio» (G. Miccoli) di altre tradizioni, Bonaventura preferi­sce mettere in risalto le «titubanze» del papa e di alcuni cardinali di fronte alla proposta di vita di Francesco, che appariva loro «strana e troppo ardua per le forze umane». Ma il cardinale Giovanni di S. Paolo, col suo interven­to, contribuì a togliere ogni incertezza e a richiamare l'attenzione del papa e dei suoi colleghi sul fondamento della vita cristiana: «Questo povero, in realtà, ci chiede soltanto che gli venga approvata una forma di vita evange­lica. Se, dunque, respingiamo la sua richiesta come troppo difficile e strana, stiamo attenti che non ci capiti di fare ingiuria al Vangelo»38.

Il fatto che Bonaventura sia il solo, tra i biografi, a trasmettere questo particolare mi pare assai significativo, in quanto rivela che le sue afferma­zioni riguardo al metodo seguito nella stesura della Legenda (si è recato nei luoghi dove era vissuto Francesco ed ha interrogato i suoi compagni super­stiti)39 non sono puri e semplici topoi o artifici retorici, ma denotano uno sforzo di attenersi alla verità dei fatti.

Chiara Frugoni cita ancora la Legenda maior nel penultimo capitolo del suo libro, in cui affronta un esame critico delle varie testimonianze sul­le stimmate di Francesco. Dopo aver ricordato che Bonaventura scrisse la biografia del santo «con l'intenzione di comporre le spaccature e i dissidi che scuotevano l'Ordine», e che il capitolo generale di Parigi del 1266 «ot­tenne che [...] restasse l'unica a tramandare il ricordo di Francesco, la sola ufficiale e attendibile», presenta l'interpretazione bonaventuriana delle stimmate. Distaccandosi in vari punti dal racconto del Celano, Bonaventu­ra «volle imporre una identificazione fisica di Francesco con il Cristo cro­cifisso, suggerire il Calvario e non il Monte degli Ulivi». Ma c'è di più: spe­cificando che la visione di Cristo sotto forma di serafino lasciò nel cuore di Francesco uno straordinario ardore ed anche impresse nella sua carne i se­gni delle stimmate40, Bonaventura rese la perfezione del santo «irraggiun­gibile: da una parte Francesco rimaneva il santo da venerare, e sempre più, perché portava nella sua carne le ferite di Cristo, ma dall'altra, proprio per questo motivo, i frati non erano obbligati ad imitare il fondatore, a rima­nere fedeli alle sue scomode parole, al suo progetto di vita cristiana. La santità di Francesco era diventata inaccessibile e inimitabile»41.

Questa rilettura del racconto bonaventuriano delle stimmate non può essere accettata senza riserve. È innegabile, anzitutto, che l'esperienza del­la Verna ha significato per Francesco qualcosa di unico, indicibile, perso­nale e quindi di valore non esemplare, non utile agli altri42. Essa, tuttavia, è strettamente collegata agli altri eventi della sua vita. Nella valutazione complessiva dell'immagine di Francesco che emerge dalla Legenda maior, ciò va tenuto costantemente presente. L'interpretazione bonaventuriana di Francesco non è solo il frutto di «un'operazione politica dettata dalla ne­cessità»43 di placare le tensioni all'interno dell'Ordine e le contestazioni provenienti dal clero secolare, ma rispecchia anche una mutata sensibilità agiografica. Non si dimentichi che già dalla seconda metà del sec. XII di­vengono sempre più numerose quelle che Peter Dinzelbacher definisce le Gnadenleben, ossia biografie che senza trascurare i dati storici (essenziale curriculum vitae, riferimenti al contesto socio-politico ecc.), si concentrano soprattutto sulla vita interiore del santo (o della santa), caratterizzata da relazioni personali e affettuose con Cristo, estasi, visioni e così via44. Non è del tutto da escludere che dietro l'incarico ufficiale affidato a Bonaven­tura di scrivere una nuova legenda ci sia stata anche l'esigenza, da parte dei frati della seconda metà del Duecento, di conoscere meglio l'esperienza re­ligioso-mistica di Francesco, di rinnovare con altri criteri l'agiografia sul fondatore per trovare in lui forma Minorum una risposta ai loro problemi esistenziali. E il caso poi di ricordare che Bonaventura, oltre che uomo di governo, è anche un teologo di vaglia. La sua solida formazione si avverte ad ogni pie sospinto nella Legenda maior. Pur partendo dai fatti, tuttavia li trascende; la sua non è storia allo stato puro, ma riflessione teologica sul materiale narrativo a sua disposizione45. Il triplice schema in cui si articola l'opera - inizio del cammino religioso di Francesco, progresso spirituale at­traverso gli stadi dell'esperienza ascetico-mistica, compimento perfettivo con la stimmatizzazione, la canonizzazione e i miracoli - non è altro che la riproposizione in ambito agiografico di spunti e motivi riscontrabili in alcu­ni opuscoli teologici, in cui Bonaventura si prefigge di illustrare queìYitine-rarium che gradualmente conduce il cristiano dalle creature a Dio attraver­so «l'amore ardentissimo a Cristo crocifisso»46. In ultima analisi, l'interpre­tazione bonaventuriana di Francesco in chiave teologico-mistica, anche se può creare un certo imbarazzo agli storici positivisti, è un tentativo di ren­dere più fruibile ai lettori la ricchezza dell'esperienza umana e religiosa del santo, un'indagine sui suoi rapporti con Dio e il mondo per indicare una possibile attuazione della sequela Chrìsti.

5. - Prima di concludere, vorrei attirare l'attenzione sull'opposizione alle stimmate da parte dei Domenicani, cui la Frugoni accenna nel suo libro47. È vero che nell'ordine dei Predicatori alcuni negarono la realtà del miracolo, mentre altri «più numerosi, cercarono piuttosto di togliere ai Francescani e al loro fondatore l'esclusiva del privilegio delle stimmate»48. Non mancarono, comunque, anche coloro che dissentirono dai detrattori delle stimmate. Accanto ai testi di due Domenicani che trattano in maniera positiva dell'evento, già segnalati dal padre J. G. Bougerol49, è opportuno citare l'opinione di Tommaso d'Aquino. In un sermone inedito per la festa di s. Nicola, egli sottolinea che l'olio miracolosamente scaturito dal corpo del santo dopo la sua morte50 costituisce un segno della sua pietà e mise­ricordia. Anche in s. Francesco, prosegue Tommaso, sono apparsi «in pre­senti» gli «indicia» della passione di Cristo, «quia uehementer afficiebatur circa passionem Christi»51.

Lascio alla competenza di Chiara Frugoni l'interpretazione di questo brano. Ma dato che il tempo per il mio intervento sta per scadere, mi af­fretto a terminare, esprimendo all'autrice i miei più sinceri apprezzamenti per il suo ultimo lavoro su Francesco d'Assisi, da lei condotto con intelli­genza e amore. Confesso francamente che la lettura di queste pagine ha provocato in me una specie di invenzione conoscitiva: un penetrare, cioè, sempre più profondamente nella personalità affascinante di Francesco per estrarre, come da un tesoro, nova et vetera (Mt. 13,52)».

Conclusisi gli interventi, la professoressa Frugoni ha ringraziato tutti i presenti, ricordando l'affetto che la lega alla «Scuola Superiore di Studi Medievali e Francescani» e al Preside Alvaro Cacciotti, il piacere che ha avuto nell'insegnare alla Scuola e la gioia che ha provato nel ritrovare i suoi studenti in questa occasione.