Nobile Marco ,
Recensione: Giuseppe Veltri, Etne Torafùr den Kónig Talmaì. Untersuchungen zum Ubersetzungs-verstàndnis in der jùdisch-hellenistischen und rabbinischen Literatur ,
in
Antonianum, 70/2 (1995) p. 302-304
.
Il presente studio è una dissertazione dottorale discussa alla Libera Università di Berlino, nella facoltà di giudaistica nel 1991.
Esso s'inserisce in modo stimolante e autorevole nella galassia di studi sulla Bibbia greca dei LXX, sotto il particolare profilo del rapporto con la letteratura giudeo-ellenistica e rabbinica.
Lo studio è ben strutturato e felicemente articolato nei dettagli, così che si possono seguire le sue tesi con interesse dall'inizio alla fine.
Il V., attraverso l'analisi di una serie di citazioni, dalle fonti rabbiniche riferite all'evento storico della traduzione in greco della Torà ebraica per il re Tolomeo II Filadelfo (in ebraico « Talmai) (285-246 a. C), vuole mostrare: 1) come le fonti nelle quali si trovano inseriti questi « topoi » bìblici siano il risultato redazionale tardivo e conflato, di epoca gaonica, di una lunga tradizione esegetica, che al contrario della predisposizione negativa nei riguardi della LXX, mostrata nell'ultima fase, ha invece avuto sempre una disposizione d'animo positiva nei riguardi dell'operazione dei 70 o 72 o 5 anziani della leggenda; 2) che un'attenta analisi intrate-stuale della letteratura rabbinica mostra come i latori della tradizione sulle « modifiche per il re Talmai », abbiano potuto avere dinanzi il testo dei LXX, ma che l'oggetto della loro disquisizione fosse tuttavia all'interno del testo ebraico: da qui la frequente non coincidenza delle loro citazioni in greco con il testo dei LXX, dato che essi avevano problemi di esegesi attorno ad un verso ebraico e non erano interessati direttamente al testo greco; il loro citare era piuttosto uno stereotipato richiamarsi ad un'autorità rabbinica (da respingere quindi la tesi di E. Tov circa una Proto-LXX delle fonti rabbiniche); 3) che quindi la Bibbia greca, in quanto Torà scritta, era ritenuta pregiudizialmente come autorevole, anche se non redatta « per ebrei », bensì per « il re Talmai »; 4) che è da respingere la tesi diffusa secondo cui il giudaismo postneotestamentario e le sue le autorità rabbiniche avrebbero rifiutato ogni valore alla LXX, per polemica contro i cristiani, che ne avevano fatto il proprio testo canonico, e avrebbero di conseguenza favorito operazioni come la traduzione di Aquila (in realtà, per il V. un'operazione targumica, secondo la comprensione che i rabbini avevano della traduzione del testo biblico).
Queste tesi generali, doviziosamente dimostrate dall'autore, sono a loro volta accompagnate e sostenute da altre tesi particolari, non meno interessanti e stimolanti per la ricerca filologica nel campo delle tradizioni rabbiniche, le quali vengono sottoposte allo stesso processo d'analisi che il biblista da anni impiega per i testi sacri e a cui già G. Stemberger aveva fatto un vigoroso accenno nella sua Einleitung in Talmud und Midrasch.
L'opera del V. si compone di un'introduzione, nella quale si studiano le fonti, le origini storiche o leggendarie e il senso dell'episodio dei « settanta traduttori » del testo ebraico in greco, come punto di partenza per capire il riferimento stereotipato delle fonti alle « parole della Torà cambiate per il re Talmai ».
In realtà, nonostante il sostanziale accordo della versione alessandrina (Ari-stobulo, Pseudo-Aristea, Filone e Giuseppe), di quella rabbinica e di quella cristiana circa l'episodio famoso, certamente leggendario nei suoi dettagli miracolosi, non è possibile sapere con certezza quale possa essere stato il vero motivo storico della traduzione greca. L'uso liturgico per persone non di lingua ebraica è la risposta più attendibile. È un fatto, comunque, che alla LXX sia stata attribuita un'autorità indiscussa sia da parte della comunità giudeo-ellenistica alessandrina che di quella palestinese, anche se l'espressione « per Talmai » può indicare che la Torà greca non sia stata scritta per gli ebrei; elemento questo che indica come i rabbini non avessero niente contro una traduzione della Bibbia. Del resto, la traduzione targumica in aramaico ne è la prova, anche se è da distinguere il carattere targumico, quindi « orale » di questa traduzione, da quello scritto o canonico della LXX.
Le tesi del V. sono, indi, attentamente vagliate dapprima nel capitolo secondo, attraverso l'analisi intratestuale del processo della tradizione e della redazione della letteratura rabbinica, più particolarmente attraverso l'esame critico-testuale, tradizionale e redazionale dei « Devarìm (= parole o versetti) tradotti o mutati per Talmai », così come si ritrovano nei vari Targumim e in altri scritti rabbinici; poi, nel capitolo terzo, mediante lo studio delle « storie su Talmai », riferite dalla letteratura talmudica babilonese e dai due trattati extra-canonici Masekhet Sofe-rim e Sefer Torà.
L'analisi è precisa e solida e conduce alla convincente dimostrazione delle tesi suesposte.
Dopo una conclusione riassuntiva, Fautore ha aggiunto ancora un'appendice di testi rabbinici, aventi per argomento la « leggenda della LXX ».
Una congrua bibliografia e vari indici corredano questa monografia da accogliere nel mondo scientifico non solo degli studi giudaistici, bensì anche di quelli biblici con interesse e gratitudine.
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