Nobile Marco ,
Recensione: Klaus Scholtissek, Die Vollmacht Jesu. Traditions- und redaktionsgeschichtliche Ana-lysen zu einem Leitmotiv markinischer Christologie; Klaus Scholtissek, Vollmacht im Alteri Testament und Judentum. Begriffs- und motiv-geschichtliche Studien z,
in
Antonianum, 69/2-3 (1994) p. 384-387
.
Presentiamo insieme questi due libri, perché appartengono allo stesso progetto di studio dell'autore. Difatti, il primo, Die Vollmacht Jesu, riproduce con qualche variante la dissertazione dottorale presentata nel 1989 alla Facoltà teologica cattolica dell'Università di Miinster, sotto la direzione di K. Kertelge; mentre il secondo è lo sviluppo di una parte della tesi, che meritava una trattazione distinta, pur rientrando nella stessa finalità di ricerca, tanto è vero che a volte vi si trovano, com'era del resto da aspettarsi, intere pagine dell'opera precedente.
Il tema che lo S. si è prefissato di sviluppare nella dissertazione, è il significato e il valore del termine greco exousia (= pieni poteri, autorità, signoria) nella cristologia dell'evangelista Marco, dato che esso, posto in relazione a Gesù in punti-chiave del vangelo, mostra di essere impiegato in modo proprio e pregnante per rivelare qualcosa di unico sulla persona del Cristo. Questo implica per lo S. un progetto di lavoro che prevede sia un'analisi a livello redazionale, dato che a Marco viene giustamente riconosciuta un'ampia capacità rielaborativa originale, sia a livello di tradizione, spingendo indietro la ricerca fino alle radici veterotestamentarie e giudaiche.
L'intento è perseguito per colmare una lacuna nel campo degli studi biblici: a detta dell'autore, non vi sarebbe a tutt'oggi uno studio completo e approfondito sull'argomento. E bisogna dire che nella dissertazione l'intento è perseguito bene, con competenza e intelligenza. Non minore merito è quello di spaziare in un vasto raggio che fa opera di collegamento tra Antico e Nuovo Testamento, evitando di presentare le traiettorie dall'uno all'altro in maniera ingenuamente o apologeticamente unili-neare e continua (almeno così appare nella tesi; più ambigua, invece, appare la presentazione di tale dato nel secondo libro).
La dissertazione si compone di quattro sezioni, delle quali la più importante è la sezione C, ove è presentato più che ampiamente l'impiego del motivo dell'exousia nel vangelo di Marco (da p. 81 a p. 279!).
Nella prima sezione lo S. tratta con scioltezza e chiarezza lo stato della questione al riguardo della cristologia marciana. Egli porta in campo la letteratura dovuta, dialogando con essa. In breve, l'operazione cristologica marciana avrebbe due aspetti, uno letterario, l'altro teologico: il primo starebbe nell'aver agganciato due tradizioni quella dei racconti sull'attività taumaturgica di Gesù, espletata « con potenza », e quella della passione, morte e resurrezione; il secondo, consisterebbe nell'aver voluto connettere con un legame d'intrinsecità la realtà del Cristo morto e risorto con l'attività del Gesù terreno, così che la comunità cristiana potesse scorgere già nell'esistenza prepasquale di Gesù i bagliori del suo futuro destino salvifico e il subordinamento di tutto il suo vivere terreno a quel traguardo.
La seconda sezione si occupa dell'indagine sul motivo della exousia nei precedenti della tradizione, non solo quella neotestamentaria, bensì anche quella veterotestamentaria, ebraico-aramaica e greca, e quella giudaica. Bisogna dire che anche qui lo S. maneggia gli argomenti e gli strumenti con rapidità e chiarezza. Non si potrà affermare la stessa cosa dello sviluppo che tale parte ha ricevuto nel secondo libro, come segnaleremo presto.
La terza sezione, come si è detto, fa la parte del leone. Essa si fa leggere con interesse. In una prima sottosezione, vengono esaminati i punti-chiave del vangelo marciano che contengono il riferimento alì'exousia di Gesù: 1,21-28; 2,1-12; 2,23-28, unitamente al contesto 2,1-3,6; 11,27-33 con 12,1-12. Tre i caratteri che tali passi conferiscono al Gesù marciano: a) con la scacciata del demonio, Gesù mostra l'irrompere della potenza del regno escatologico di Dio; b) egli è il figlio dell'uomo che rimette i peccati; e) egli è la figura messianica del figlio di Dio. Lo sviluppo di questi temi porta a considerare in una seconda sottosezione la natura soteriologica del ruolo di Cristo, nel quale convergono traiettorie provenienti dall'AT e dal giudaismo. L'esistenza di Gesù si è svolta all'insegna di questo aggancio: la potenza del figlio dell'uomo e del figlio di Dio, si è rivelata nel valore soteriologico ed escatologico della sua obbedienza al piano di sofferenza, realizzatosi nella sua passione « per gli altri ».
Tale visione del ruolo di Gesù porta con sé una conseguenza di ordine ecclesiologico (terza sottosezione). La comunità dei discepoli, che in un primo momento ha fallito, viene chiamata di nuovo o riconfermata dal Risorto a rivivere lo stesso suo destino di potenza escatologica nella passione.
La quarta sezione del libro, infine, raccoglie i risultati delle precedenti analisi e li presenta in una forma sistematica.
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Il secondo libro, come lo S. già si era ripromesso nello studio precedente, è lo sviluppo di quella sezione della tesi, che voleva ricercare il filo rosso del concetto di exousia nell'Antico Testamento e nel giudaismo.
Anche questa seconda opera si presenta ben ordinata e armonica, svolta con disinvoltura e con diligenza. L'articolazione dello studio è lineare e quasi elementare: indagine nell'AT su quel che potrebbe corrispondere in ebraico e in aramaico al greco exousia (sez. B: la sez. A è l'introduzione); esame del concetto nella letteratura greca in genere (sez. C) e nella LXX in particolare (sez. D); indi, è la volta della letteratura giudaica primitiva (Friihjudentum) (sez E) e della letteratura rabbinica (sez. F); infine, dopo una rapida sintesi dei risultati raggiunti (sez. G), vi è un'ultima sezione (H), dedicata al punto di partenza del progetto dell'autore: l'impiego di exousia nel NT, visto esemplarmente nel vangelo di Marco (e non poteva essere diversamente).
Si è già detto che varie pagine, con i relativi risultati, sono riprese dal libro precedente, ma questo non fa meraviglia. Piuttosto, dal tutto di questo secondo studio, che avrebbe potuto essere estremamente interessante, si ricava un senso di deja vu, un'opera tutto sommato inferiore alla matrice. Per vari motivi.
Questo secondo studio è molto più decisamente scolastico e scontato. Lo S. usa in modo eccessivo letteratura secondaria e, per giunta, di esclusivo ambito tedesco. Se egli avesse compulsato più le fonti, sarebbe venuto fuori qualcosa di più genuino e stimolante; inoltre, se avesse letto un po' di letteratura secondaria extratedesca (ma anche tedesca non conservatrice), si sarebbe accorto che lo stato degli studi veterotestamentari è oggi molto più effervescente e complesso di quel che sembra dalla ripetizione di schemi tradizionali circa lo jahwismo e il monoteismo, che dislocano il processo genetico della letteratura veterotestamentaria in un lungo quanto ormai discutibile arco di tempo. Con la conseguenza che oggi sono superati anche molti teoremi di quei padri, come G. von Rad (il Credo storico, ecc.), che certo dobbiamo venerare, ma che oggi non possono essere più immediatamente e ripetutamente citati, come avviene in questo libro. Il confronto con la problematica contemporanea, avrebbe fatto scoprire, d'altra parte, che anche in area tedesca vi sono esponenti magistrali dei nuovi orientamenti (ad es. R. Rendtorff, ma anche molti altri). È vero, lo S. avverte spesso in vari punti del suo discorso che ciò che afferma, meriterebbe ampi sviluppi, ed è vero anche, dobbiamo ammetterlo, che egli non è un veterotestamentarista, con accesso immediato ai problemi correlati. Ma allora, si può domandare amichevolmente all'autore se valeva la pena pubblicare così presto una monografia ancora così acerba.
Tale carattere si evince da altre prove. La sezione sulla letteratura greca si basa fondamentalmente sulla voce exsousia di W. Foerster nel ThWNT; l'indagine sul greco dei LXX e sulla letteratura di Qumran è telegrafica; quella sulla letteratura giudaica presenta aspetti interessanti, ma uno sviluppo ulteriore su un più ampio contesto delle fonti, sarebbe stato gradito.
Desideriamo infine fare un rilievo critico ad un atteggiamento ermeneutico che ci sembra presente in questo studio.
A p. 139, nel riportare in sintesi i risultati della sua indagine, lo S. afferma che nell'AT non esiste un « terminus technicus » approntato per esprimere il concetto di « pieni poteri » (Vollmacht) (cf. anche a p. 162); a p. 144 egli rincara la dose per l'ambito giudaico primitivo. Queste affermazioni vengono dopo che è stato scritto dall'autore tutto un libro che aiuta a far capire che non è necessario trovare in altri ambiti, diversi per lingua e per epoca, la pregnanza dell'impiego marciano del vocabolo exousia, per avere dei campi semantici affini, anche se culturalmente più specifici, insomma, per significare la stessa cosa.
A tutta prima questa presa di posizione non si comprende bene, tanto più che a p. 50, lo S. offre contro Seebass quel bel criterio che è la Relektùre, la Neuinter-pretation dei testi biblici il quale fa giustizia di un'eccessivo acume distintivo; ma, in un secondo momento, specialmente alle pp. 162ss, forse si viene illuminati. Il negare la presenza di un termine tecnico nell'AT (ma i concetti affini non sono usati come termini tecnici nelle rispettive tradizioni?), serve per lo scontato apologetico risultato: è Marco che per la prima volta usa la pregnanza di un vocabolo, per esprimere l'unicità storico-teologica del ruolo di Gesù.
Bisogna ammettere che la posizione dello S. non è stavolta chiara, com'è nel suo stile, ma piuttosto ambigua. Difatti, egli sa affermare coerentemente ed accettabilmente che è a livello di redazione di un'opera letteraria (Marco), non coincidente con la realtà metafisica (aggiungiamo noi), che troviamo il particolare uso di un vocabolo idoneo ad esprimere la comprensione storico-teologica del ruolo di Gesù; ma poi lo S. ha bisogno di sottolineare fermamente la differenza semantica del vocabolo, rispetto all'AT, quasi a significare che le differenze non sono a livello storico-culturale e semantico-letterario, ma a quello metafisico e teologico. L'ambiguità porta a questa conclusione apologetica.
A ciò è da rispondere che intanto non è l'apporto del solo vocabolo exousia che ha permesso allo S. le sue indagini redazionali, ma, com'egli ha ben dimostrato, la connessione kompositionell marciana con altri vocaboli e motivi; quindi, la differenza nell'impiego del termine, non passa semplicemente attraverso l'uso di exousia, ma attraverso il modo con il quale questo vocabolo è fatto operare con altri (una questione linguistico-letteraria, quindi). Le differenze tra l'uso marciano e quello dell'AT di concetti affini (autorità, pieni poteri, signoria, ecc.) non vanno fatte ricadere semplicemente sul piano teologico, ma su quello storico-culturale e semantico. L'intera opera dello S., sia il primo che il secondo libro, del resto lo mostra. Bisogna guardarsi quindi, dalla tentazione di far coincidere e confondere il piano linguistico-letterario con quello del referente teologico oggettivo, per motivi probabilmente apologetici (= dimostrare la superiorità di Cristo rispetto all'AT mediante argomenti testuali).
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