Con questo studio, presentato dall'autore nel 1988 alla facoltà evangelica di teologia dell'università di Heidelberg come dissertazione per l'abilitazione professorale, si è di fronte ad una notevole testimonianza sullo stato attuale delle ricerche attorno al pentateuco.
Oggi si fa molto parlare sulla crisi della teoria documentaria e su certo impiego della metodologia storico-critica classica, e, dato che si mette in discussione una strada « canonica », il dibattito è molto vivace. Autori come Rendtorff(maestro del B.), Schmid, Van Seters ed altri hanno smosso le acque ormai ferme dell'esegesi pentateucale e di quella deuteronomistica, inevitabilmente connessa. La tradizionale divisione del testo nelle tre fonti classiche, jahvista, elohista e sacerdotale, più quella deuteronomica, con problematica a parte, ha messo a disagio il mondo esegetico da un paio di decenni a questa parte. La canonizzazione di date d'origine delle rispettive fonti, della loro distribuzione e della ricostruzione genetica o diacronica dei libri pentateucali, di fronte alle nuove acquisizioni nel campo della linguistica, della storia d'Israele, della sociologia e dell'archeologia, si è rivelata una camicia troppo stretta per una corretta esegesi. Così, si sono avuti vari tentativi idonei a sciogliere i nodi di una nuova criteriologia per la lettura e interpretazione dei libri pentateucali.
Il B., che sviluppa le teorie del suo maestro, Rolf Rendtorff, va inquadrato in questo panorama. Egli si propone da un lato di superare l'impasse costituita dall'insufficienza dell'interpretazione documentaria, dall'altro di evitare nettamente quelle spinte centrifughe, dall'impasse provocate, le quali, sotto l'etichetta d'interpretazioni strutturaliste o di quella non chiara di « redazione finale », rischiano di vanificare lo spessore storico dei testi. Ci riserviamo di fare le nostre osservazioni critiche in proposito più tardi.
È per questo che il B. persegue una Reliefsbeschreibung, cioè una descrizione o lettura tridimensionale del testo biblico. Egli rifugge dalla piatta interpretazione di una superficiale redazione finale e cerca invece di leggere le fondamentali ampie redazioni, o meglio composizioni, di cui consta il pentateuco, nella loro « verticalità », cioè nel rilievo loro conferito dallo sviluppo genetico.
Così, adoperando un criterio genetico-storico ed uno letterario, e, mettendo da parte eventuali apporti minori della trasmissione del testo, il B. suddivide il materiale testuale in due composizioni, una precedente a coloritura deuteronomico-deuteronomistica, che chiama Komposition D, e una seguente che riproduce l'operazione sacerdotale e che denomina Komposition P.
Per quanto riguarda la prima composizione narrativa, il B. cerca di ricostruire la strutturazione e, appunto, il lavoro compositivo fatto da mani dtr, anche se egli non sembra ricalcare le orme di quella scuola neodocumentaria che diventa sempre più l'indirizzo del Dietrich e del Veijola, i quali, peraltro svolgono i loro studi sui libri deuteronomistici veri e propri; di conseguenza, il nostro non si preoccupa di etichettare con più precisione la mano dtr. Piuttosto, egli stabilisce fermamente che non ogni motivo o formulazione, tradizionalmente ritenuti dtr, debbono essere creazione originale del Deuteronomista; in altre parole, si potrebbe trattare di una tradizione previa, da lui adottata e intessuta nella propria composizione.
L'analisi « tridimensionale » si esercita su due grandi composizioni, la liberazione d'Israele di Es 1-14 (15) e il soggiorno al monte di Dio e nel deserto di Es 19-34. Il risultato permette di porre in rilievo l'intima coerenza della fascia narrativa contestuale che abbraccia tutto l'Esodo e Numeri e si aggancia, nell'operazione dtr, al Deuteronomio, così che il rapporto tra storia e legge, che precede quest'ultimo, viene armonicamente in esso rappresentato in forma inversa, cioè la legge prevale sulla narrazione. Questo perché il pentateuco non è semplicemente storia, bensì anche legge.
La composizione deuteronomistica, poi, si dilata nei libri seguenti, fino a 2 Re. La disposizione del pentateuco e della storia dtr seguente come un dittico, non deve far pensare che il primo sia semplicemente il preambolo della seconda, come vorrebbe, a detta del B., certa concezione della redazione finale, bensì che entrambe le parti si equivalgano nel peso e riflettano la situazione e le esigenze storiche della comunità giudaica postesilica.
Non meno interessante e particolarmente originale è la concezione che l'autore ha di P. Secondo lui, la « composizione P » non è precisamente né una fonte (Quelle) né una redazione indipendente. In tal modo, egli vorrebbe superare il travaglio tradizionale degli studiosi, i quali pur condividendo tutti la chiara presenza di una mano P, tuttavia hanno cercato di risolvere i problemi di coerenza e di complessità che essa crea, ricorrendo a un Pg e ad un Ps, per distinguere un nocciolo primario e autonomo dai successivi rimaneggiamenti. In realtà, dice il nostro, non necessariamente deve distinguersi cronologicamente una mano secondaria da una precedente di ordine primario. L'operazione P è una radicale intrusione nel tessuto testuale previo, che viene rimaneggiato, riadattato, « riconnesso » nel quadro di una generale composizione narrativa-legislativa che parte dagl'inizi del mondo.
Da rilevare, alla fine di questa seconda analisi, il problema storico della relazione che la Torà giudaica ha con il retroterra storico, in altri termini, come la Torà rifletta, nel suo netto profilarsi come Legge di Mosè circoscritta alla sua morte, senza un uguale accampamento di diritti di istituzioni posteriori, quali la monarchia, la necessità di acquistarsi un'autorizzazione dal governo persiano.
La conclusione finale del libro è ricca di spunti, specialmente là dove il B. discute il problema della cosiddetta redazione finale. Egli, nel suo serrato argomentare a difesa della sua teoria, giunge ad affermare che una redazione finale non esiste, a meno che non la si voglia identificare con la configurazione canonica del pentateuco (problema che ha posto con autorevolezza il Childs). Per tanti aspetti, siamo d'accordo con il B., se per redazione finale s'intende un momento preciso nel quale si sarebbe avuto tutto il pentateuco così com'è attualmente: la storia della trasmissione del testo, che ad un certo punto quasi s'intreccia con quella della tradizione dei testi stessi, rende tale concezione improponibile. Se però l'eliminazione del problema circa « una » redazione finale è un ulteriore tentativo di rinunciare a prendere sul serio l'operazione d'autore che indubitabilmente esiste dal Genesi fino a 2 Re, allora non siamo d'accordo. Certo, condividiamo con il B. il fatto che la redazione finale non debba significare escamotage, che faccia evitare la reale complessità della storia testuale; quindi, la sua lettura tridimensionale è la benvenuta, ma, fino a che ci si occuperà esclusivamente dell'importanza prioritaria dell'aspetto diacronico, la superficie narrativa del testo non otterrà giustizia e sarà sempre riguardata come un corollario su cui non ci si può soffermare troppo e chi lo fa cade nel soggettivismo estetico.
Qui arriviamo ad una seconda nostra osservazione. Il B., nel difendere la sua metodologia diacronica, si mostra molto critico nei riguardi delle moderne teorie letterarie, che offrirebbero gli strumenti agli appassionati dell'esegesi sincronica, per una lettura orizzontale dei testi avulsa dallo sfondo storico che li ha prodotti e che verrebbe da essi riflesso.
Torno a dire che proprio questo reale pericolo insito in alcune teorie o nell'impiego di esse, rende proficuo l'apporto del B. Però, detto questo, bisogna aggiungere che le teorie linguistiche odierne pongono dei problemi seri all'esegeta tradizionale. Immaginare di poter ricostruire adeguatamente il processo genetico di un testo (punktuelle Fortschreibung) non è meno temerario o gratuito del voler ritrovare nella fantomatica Endredaktion una configurazione che tutto avvolge e tutto spiega. Può capitare che l'esegeta che focalizzi nettamente (così crede) la fisionomia di una fonte, piccola o grande, ne sopravvaluti l'identità o addirittura ne inventi (in buona fede) la originaria autonomia.
Ma un'opera letteraria non si crea così (ed opera letteraria è anche il testo biblico). Le fonti talora sono visibili, talaltra no, ma sempre sono decontestualizzate, trasformate, trasfigurate. Questo non nega affatto la necessità dell'analisi diacronica. Tutt'altro. Essa però va integrata dall'analisi di una configurazione « di massima » dei testi, che convenzionalmente chiamiamo redazione finale e che riguarda l'aspetto orizzontale di essi, così come soprattutto appaiono a noi, in un'identità non stoltamente letteralista o precritica, bensì in quell'evidenza che, nel caso di Genesi-2 Re, offre una narrazione sufficientemente stabile e coerente, senza pretendere di dovervi trovare quella coerenza che noi contemporanei di cultura occidentale pretenderemmo da un'operazione letteraria accademica.