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Recensione: Robert H. Gundry, Mark. A Commentary on His Apology for the Cross

 
 
 
Foto Nobile Marco , Recensione: Robert H. Gundry, Mark. A Commentary on His Apology for the Cross , in Antonianum, 69/4 (1994) p. 547-550 .

Nel panorama delle pubblicazioni di genere biblico, oggi molto fiorente, deve trovare il suo meritato posto questo monumentale commentario che il G. dedica al vangelo di Marco. Con tanti commentari e studi, passati e contemporanei, su tale testo, vi era proprio bisogno di questa vistosa messa a punto? La risposta è affer­mativa, perché il presente commentario ha varie qualità che ne fanno, nella ricerca attuale, un punto fermo con cui bisogna fare i conti.

Intanto, l'opera non è una semplice messa a punto della problematica marcia-na. Essa è piuttosto una ripresentazione in veste originale delle tante questioni che da sempre solleva il secondo vangelo, e una presa di posizione personale, ma soli­damente sostenuta, a riguardo di alcuni luoghi comuni esegetici.

La tesi generale del G. è in proposito significativa. Al contrario dell'opinione corrente, che fa del vangelo di Marco un correttivo di un'esagerata teologia della gloria, egli afferma con forza fin dall'inizio, circostanziando abbondantemente le sue parole in seguito, che Marco vuole invece dare un senso glorioso alla passione di Cristo e fa, quindi un'apologia della Croce.

Il G. respinge le ricerche a tesi e raccomanda di condurre un'interpretazione coerente con i dati del testo, nei dettagli e nell'insieme. E sotto questo aspetto, c'è da dire che egli conduce il lavoro in modo magistrale.

Così, fin dall'inizio del vangelo, scopre l'intento dell'evangelista e il piano che questi ha da svolgere: colui che sarà in seguito perseguitato e crocifisso, è il Cristo e il figlio di Dio (Me 1,1). Non quindi la riduzione del dettato a un'umanizzazione moralizzante di Gesù, contro un vangelo dell'esaltazione gloriosa, bensì proprio un'affermazione di potenza divina che Gesù esplica fin dalla pericope introduttiva, là dove si parla del suo battesimo e del suo soggiorno nel deserto: entrambi gli epi­sodi presentano Gesù proprio come un essere dotato di poteri divini.

L'esplicazione dettagliata di tali affermazioni, viene offerta attraverso un elen­co tematico, che fa risaltare la coerenza dell'insieme del progetto marciano. Il Cri­sto ha:

  1. un potere magnetico, che lo rende autorevole, pieno di forza e acuto (1,33.45, 2,1-2),
  2. autorità dottrinale (1,22),
  3. poteri eccezionali, dimostrati negli esorcismi e nei miracoli,
  4. chiaroveggenza e preveggenza (1,16-21; 6,6b-13; 8,27-9,1),
  5. l'alta dignità di un personaggio sublime.

Queste componenti s'intrecciano e concorrono a creare quel Cristo, figlio di Dio, che risplende nella sua grandezza, soprattutto nel racconto della passione, ove il crescendo narrativo raggiunge il suo climax.

Il G. traccia con tale tabella i criteri della sua metodologia applicata al testo marciano in tutto il commentario.

La sua attenzione poi è rivolta al piano sincronico del testo, su cui conduce un'analisi fitta e serrata. La sua preferenza metodologica gli dà occasione di met­tere in discussione la genesi diacronica tracciata dall'esegesi tradizionale storico-cri­tica, in particolare dalla « storia delle forme ». Egli dimostra la buona dose di gra­tuità insita nella ricostruzione dei passaggi che dal ministero di Gesù portano fino alla stesura finale del vangelo di Marco. La discussione accesa dal G. qui e in altri punti, si lascia apprezzare per la pacatezza, per la soda forza filologica e linguistica e per la conoscenza della letteratura specializzata, con la quale si pone di continuo in dialogo.

Quel che il nostro autore enuncia con forza argomentativa all'inizio, lo svolge ampiamente nel commentario vero e proprio, articolantesi in analisi sistematiche, fitte di dati filologici, di riferimenti bibliografici e di discussioni. Queste ultime tro­vano un loro posto particolare nel paragrafo delle Notes, alla fine dell'analisi di ogni pericope. La lettura di tutto ciò è laboriosa e richiede un po' di pazienza, data la piccolezza del corpo tipografico.

Il frutto di questo lavoro immane, che in opere del genere viene presentato co­me parte dell'introduzione, lo si riceve alla fine, in una serie sostanziosa e articolata di paragrafi che sintetizzano le vedute del commentatore, acquisite sul campo. E qui abbiamo alcune interessanti sorprese.

In un primo paragrafo, che si occupa dello scopo che si sarebbe prefissato Marco, l'autore ripropone la sua tesi, espressa nell'introduzione e svolta nel com­mentario, che il secondo vangelo, il più antico, sia un'apologia della Croce e un vangelo della gloria, contro l'inveterata opinione corrente secondo cui Marco avrebbe scritto la sua opera a mitigazione o addirittura a contestazione di una teo­logia trionfalistica della gloria. Ma il G., dà ampio ed articolato spazio anche alla critica di altre opinioni, come quella di B.L. Mack, il quale afferma che Marco avrebbe creato un mito attorno all'idea giudaica di « regno di Dio », che sarebbe stata a sua volta l'impiego in chiave apocalittica di un concetto cinico-stoico pre­sente nella stessa predicazione di Gesù, oppure, come la tesi di W.H. Kelber, se­condo cui l'evangelista avrebbe scritto per fermare il riprodursi di tradizioni orali, o ancora, come quella di J.M. Robinson, il quale dice che Marco avrebbe avuto l'intento di correggere il carattere gnostico della presentazione corrente del Cristo risorto.

In un secondo paragrafo, molto esteso, il G. affronta il problema dell'origine del vangelo marciano. Ed è qui che egli ci sorprende con un'affermazione che va contro tutti, o perlomeno contro la maggioranza degli studiosi: secondo il nostro autore, sarebbe da ritenere autentica la notizia di Papia, riportata da Eusebio di Cesarea, secondo cui Marco avrebbe trascritto nel suo vangelo i dati e i ricordi del­la predicazione di Pietro. Non si può dire che l'affermazione non venga difesa egre­giamente con una serrata serie di argomentazioni di ordine filologico e storico; in particolare, è interessante e da condividere la sua critica all'eccessiva seg­mentazione, fatta da certa esegesi, nella ricostruzione del processo genetico che dalla predicazione di Gesù va alla redazione del vangelo. Ad ogni modo, si potrà non essere d'accordo su alcuni dettagli, ma ci si deve confrontare seriamente con l'argomentare del G.

Ancora sorprendentemente, ma in modo conseguente, egli parteggia per l'idea che il Marco del vangelo sia quel Giovanni Marco di cui si trova frequente menzio­ne nel Nuovo Testamento, specialmente in Atti, e che l'essere « interprete di Pie­tro », secondo le parole di Papia, sarebbe consistito nella traduzione latina della predicazione aramaica di Pietro (insomma, Marco come una specie di traduttore si­multaneo dell'epoca).

Riguardo all'operazione marciana, poi, il G. è contro qualsiasi teoria di pro­getto teologico del vangelo, avendo Marco raccolto semplicemente una serie di det­ti e ricordi così come li aveva ricevuti dall'apostolo. Qui, però, vorremmo fermare per un attimo la marcia inarrestabile del G, per fare una piccola domanda: tale af­fermazione non va contro l'intento del commentario, che vuol essere una dimostra­zione che il vangelo di Marco fosse un'apologia della Croce?

Questa oscillazione si riflette nella descrizione del genere letterario marciano, che però, bisogna ammettere, non è da etichettare con semplicismo: « Marco è biografico, ma evangelico (= fa predicazione); il genere biografico è aneddotico, ma circoscrivibile nella totalità del libro; lo stile evangelico è apolo­getico, ma narrativo. Il materiale deriva da Pietro, così come Marco lo ricorda; l'arrangiamento é disarticolato nel dettaglio, ma guidato in genérale dal sovrastante ri-ferimento al ministero di Gesü » (p. 1050).

Un'ampia bibliografía e vari indici corredano quest'opera dawero notevole.