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Recensione: Thomas Kriiger, Geschichtskonzepte ini Ezechielbuch

 
 
 
Foto Nobile Marco , Recensione: Thomas Kriiger, Geschichtskonzepte ini Ezechielbuch , in Antonianum, 67/1 (1992) p. 142-144 .

Il presente libro è una dissertazione dottorale, presentata nel 1986 alla Fa­coltà di Teologia Evangelica dell'Università di Miinchen, sotto la direzione di Klaus Baltzer.

L'opera si situa in quella serie dì tentativi contemporanei che desiderano mantenere la dignità della ricerca esegetica, attraverso l'approccio con l'atteggia­mento scientifico odierno. Nel caso specifico, il K. vuole recuperare certi valori dell'esegesi classica storico-critica, sulla base di un'ermeneutica storico-psicolo­gica. Tale denominazione è nostra e verrà presto spiegata.

L'autore crede fermamente nella possibilità del recupero dello sfondo storico che è dietro i testi biblici. Su questo niente di nuovo. L'originalità dell'approccio sta piuttosto nell'applicare sostanzialmente la criteriologia che H. Utzschneider ha presentato e utilizzato sistematicamente nell'interessante libro: Das Heiligtum und das Gesetz. Studien zur Bedeutung der sinaitischen Heiligtumstexte (Ex: 25-40; Lev 8-9) (OBO 77; Freiburg 1988), già recensito in questa rivista (cf. Antonianum 64 [1989] 608-610). In altre parole, il K. non accetta il tradizionale procedimento esegetico che parte dall'unità letteraria, autonoma in se stessa, per seguirne la ge­nesi diacronica, fino alla sua sistemazione finale nel grande quadro redazionale, rilevato dalla Redaktionsgeschichte nella globalità del libro biblico. Egli afferma che fin dall'inizio dell'indagine, bisogna fare i conti con la possibilità molto con­creta che lungo l'arco diacronico vi siano delle operazioni redazionali intermedie, non meno interessanti e importanti, certamente più adeguate ad una visione del testo più profondamente e plasticamente articolata.

A tale criterio delle redazioni intermedie va aggiunto quello che strettamente vi si connette: la possibilità di studiare meglio le trasmutazioni concettuali al ri­guardo della storia, nell'ambito di uno stesso libro biblico. Tali trasmutazioni sa­rebbero il fedele riflesso testuale di retrostanti esperienze storiche adeguatamente guadagnabili proprio grazie alla suddetta ricerca «intermedia».

Le conseguenze positive di tale metodo sono secondo il K. la possibilità di renderci perfettamente conto da un lato di come si «pensasse» la storia all'interno della Bibbia, dall'altro di quale illuminazione e precettività abbia per noi cristiani di oggi tale passato biblico d'interazione tra l'esperienza storica e la corrispon­dente concezione della storia.

Campo nel quale il K. esercita tale suo progetto metodologico, è il libro di Ezechiele, e in particolare quei testi che meglio, a detta dell'autore, riflettono quel tipo di dinamismo di trasmutazione interattiva esperienza-concetto: Ez 4,1-5,4 + 5,5-17; 16,1-43; 23,1-30; 20.

Tali testi possono essere raggruppati in due serie. Alla prima appartengono 4, 1-5+5, 5-17; 16; 23; alla seconda, invece, il c.20, a cui è da aggiungere 36,16ss. La prima serie serve alla ricostruzione del passato di Gerusalemme/Israele, per ottenerne una «prognosi giudiziale», la seconda, invece, sulla base di una giudizialità già sperimentata (la catastrofe) permette una «prognosi di ricostituzione» futura, così come anche una ricostruzione del passato stesso d'Israele. Inoltre, mentre la prima serie di testi pone in risalto la sequenza «istituzione legale-ferita ad essa-sanzione», sulla base di materiale P, la seconda, invece, relativizzando la suddetta sequenza, dà luogo ad una prognosi di ricostituzione ugualmente rispondente a quella dimensione legale del processo storico, che vuole la difesa ad oltranza del proprio Nome da parte di Jahvè stesso. Il primo gruppo di testi considera distinti l'ordinamento legislativo posto da Jahvè e la sanzione ad una sua ferita; il se­condo, al contrario, lega l'ordinamento ad un concetto di storia per il quale, anche quando si è attentato a detto ordinamento, tutto converge al finale ricono­scimento di Dio. Ulteriori differenze sono che il primo gruppo è centrato su Ge­rusalemme, il secondo sull'entità Israele; la prima serie è anteriore al 587 a.C, la seconda ha già dietro di sé la catastrofe del 587; infine, mentre nella prima serie elementi deuteronomico-dtr servono, in forma «sacerdotale», a contrastare una certa «teologia di Sion», nella seconda, elementi ancora «sacerdotali» si pongono in tensione con quelli dtn-dtr.

A tali conclusioni il K. giunge dopo una dettagliata esegesi dei brani e una ancor precedente fondazione introduttiva di ordine teorico della sua operazione esegetica. In forza di esse, egli tenta la ricostruzione di quella redazione che chiama del «libro di Ezechiele più antico»: una sorta di primo progetto redazio­nale compiuto.

L'opera del K. è vasta, interessante e piena di spunti, tanti che non possono essere discussi in dettaglio.

L'impianto dell'opera è ben orchestrato, grazie da un lato alla buona infor­mazione bibliografica e dall'altro alla capacità speculativa dell'autore. Al fondo di tutto l'edificio, però, vi sono delle premesse aprioristiche che, rendendo discuti­bile l'approccio metodologico, fanno più fragili anche i risultati esegetici.

Il primo «dogma» dell'autore è che nel saper scegliere dei testi biblici e nel saperne ricostruire l'articolazione intrinseca, possa portare anche alla ricostru­zione piena ed adeguata non semplicemente del succedersi degli eventi storici esterni, bensì anche di quelli interni o psicologici (anche se il K. non usa quest'ul­timo termine). Ma tale convinzione aprioristica poggia su una discutibile conce­zione del testo biblico in genere e di quello di Ezechiele in specie. L'autore critica il concetto di Fortschreibung di Zimmerli, perché non ogni momento di tale scrit­tura continua sarebbe messo in relazione con un momento psicostorico; ma pos­siamo chiedere al K. come faccia a nutrire una convinzione così ingenua nei ri­guardi di un testo come quello di Ezechiele, dove la sovrasedimentazione reda­zionale continua copre un fondo già di per sé non equiparabile ad un dettato di cronaca, bensì ad una trasfigurazione simbolica. Di una sottovalutazione di tali aspetti simbolici del libro di Ezechiele e dell'atteggiamento metodologico «positi­vistico» che vi soggiace, il K. dà prova, ad es., quando nel commentare la quantità di tempo che Ezechiele deve trascorrere su ciascuno dei due fianchi (Ez 4,4-8), formula il seguente ragionamento: siccome è impossibile che un uomo possa stare in quelle condizioni per tanto tempo, l'azione comandata da Dio al profeta sta ad indicare l'impossibilità dell'espiazione dei peccati commessi nel passato da Geru­salemme/Israele. Sulla base di tale interpretazione, il Nostro fonda il successivo ragionamento e le conseguenti conclusioni secondo le quali l'impossibilità di recupero salvifico, possibile solo per una certa teologia di Sion, indica la necessa-rietà della sequenza azione-sanzione e la relativizzazione del rapporto d'alleanza tra Dio e il suo popolo (pp. 113-138). Ora, al K. non è sfuggita la dimensione pura­mente simbolica dei 390 giorni di giacitura del profeta, ma dà ad essa un'interpre­tazione ingenuamente positivista; non ha dimestichezza con la qualità simbolica dei testi ezechielici e gliene sfugge la valenza semantica. Questo avviene perché l'autore ha la sua incrollabile precomprensione pregiudiziale: i testi di Ezechiele sono la registrazione fedele dei processi esterni-interni svolgentisi poco prima, a cavallo e subito dopo il 587 a.C. Non si può certo fare carico al K. di un'imposta­zione metodologica qual'è quella classica tradizionale, da luì del resto dignitosa­mente e intelligentemente rappresentata e modernizzata. Tuttavia, ci sembre­rebbe auspicabile che, ad es., nel caso dì Ezechiele si prendesse sul serio anche quella valenza simbolica che ne ha fatto, nella tradizione e trasmissione del testo (un binomio i cui confini divisori sono difficili da tracciare), oggetto di una diu­turna riflessione a tavolino, altrettanto simbolica. Le elucubrazioni teologico-li-turgiche del libro (le parti, ma anche il tutto!) e le stilizzazioni figurative (il profe­ta-rabbi, mediatore e maestro) non sono nate dal nulla o, perlomeno, non sono una semplice superfetazione sovrapposta ad un resoconto storico degli eventi.