Nobile Marco ,
Recensione: Joze Krasovec, La justice (sdq) de Dieu dans la Bible hébrdique et l'in-terprétation juive et chrétienne ,
in
Antonianum, 65/2-3 (1990) p. 383-384
.
Il presente studio è la tesi dottorale che l'A., già due volte laureato, al Pontificio Istituto Biblico di Roma e all'Università Ebraica di Gerusalemme, ha presentato all'Università della Sorbona (Paris IV). L'opera intende sviluppare ed esaurire tutto quello che si può dire sulla radice ebraica sdq (= giustizia), nel proprio ambito linguistico e in comparazione con altre lingue, semitiche ed europee.
Lo studio si suddivide in tre parti. Nella prima il K. esamina criticamente la bibliografia in materia, che egli trova perlopiù insoddisfacente e incompleta, perché « il manque cependant une véritable interprétation d'ensemble» (p. 12); indi, passa a presentare il suo metodo, fondato, secondo l'A., sulla linguistica moderna e in particolare sulla semantica. Egli vuole adoperare la teoria dei campi semantici, utile per il tipo di ricerca che egli si propone: lo studio appunto della « giustizia » biblica. In realtà, egli sembra tentare un'armonizzazione tra la suddetta teoria e l'approccio filologico classico. Difatti, termina la prima parte con un'analisi comparativa di sdq nell'ambito delle altre lingue semitiche.
La seconda parte può essere definita il corpo centrale del libro. In essa si ha, infatti, l'analisi vera e propria dei passi biblici nei quali appare la radice in questione. Gli ambiti di ricerca sono: a) il libro d'Isaia; b) il libro dei Salmi; e) gli altri libri bibilci. L'analisi è condotta nel modo classico. Il risultato generale è che sdq vuol esprimere la volontà salvifica di Dio, un risultato che si ripete come un « refrain » anche nelle analisi parziali.
La terza parte consiste in una disamina sintetica, che mette a confronto vocabolario e interpretazione: a) nella Bibbia ebraica; b) nelle antiche traduzioni e nella Bibbia greca dei due Testamenti; e) nelle traduzioni e nell'esegesi europee.
Il discorso del K. è ampio e ricco di spunti. E' soprattutto in quest'ultima parte che egli mette in luce chiaramente qual è il fine della sua ricerca. E' vero che egli intende, da perito quale si mostra, sondare e descrivere il significato della sdq, ma non si accontenta di questo traguardo puramente teorico. Egli vuole dimostrare che la giustìzia biblica ha a che fare con la bontà e la salvezza di Dio e non con il concetto di giustizia distributiva, proprio delle lingue europee. Espresso così il traguardo che l'A. si era prefissato, può dare l'impressione del classico topolino partorito dalla montagna. E difatti, da una visione d'insieme, si ha questa impressione; quasi che l'ipotesi di lavoro abbia agito da pregiudiziale incombente, dall'inizio dell'ampia ricerca fino alla fine. Tuttavia, è da riconoscere che il K. ha saputo sostenere bene il suo filo pregiudiziale nascosto, con una vasta erudizione e un ottimo potere di sintesi. Allora, siano concesse solo due osservazioni. La prima è che ciò che fa il valore dell'opera è anche il suo limite, e non poteva essere diversamente: il desiderio di completezza dell'A. ha dilatato troppo il campo di lavoro, così che il programma annunciato è speso più enunciato che realizzato a fondo. La parzialità degli ambiti di ricerca non è sempre insufficienza e incompletezza, come pensa costantemente l'A.: può essere anche possibilità di approfondimento e di applicazione sistematica del metodo enunciato.
La seconda osservazione riguarda l'ambito teorico al quale il K. si è rivolto, Quello della linguistica e della semantica. Non ci sembra che egli sia andato molto al di là di quanto faccia andare il metodo del Kittel. Il suo approccio linguistico-semantico attiene più al campo della performance che a quello della competence. In altre parole, egli continua ad esaminare ancora dall'esterno e in superficie le occorrenze di sdq, proprio come avviene nel metodo classico. Per raggiungere il traguardo che si prefiggeva, il K. doveva usare molto diversamente e più in profondità i canoni dei campi semantici, ma avrebbe dovuto, nel contempo rinunziare a buona parte della sua pur valida erudizione.
|