Nobile Marco ,
Recensione: James H. Charlesworth, Gli pseudepigrafi dell'Antico Testamento e il Nuovo Testamento ,
in
Antonianum, 65/4 (1990) p. 664-665
.
L'originale inglese del presente libro è del 1983, quando l'A. pubblicava il primo volume della sua importante opera, condotta poi a termine nel 1985 con il secondo volume, The Old Testament Pseudepigrapha, Garden City NY. Da allora, com'egli stesso dice nella premessa all'edizione italiana, molti sono i progressi fatti negli studi degli pseudepigrafi. Oltre all'edizione di testi, tra i quali per gli studiosi italiani è da segnalare già il secondo volume degli Apocrifi dell'Antico Testamento di P. Sacchi, sono nate, come fiore all'occhiello degli studiosi di «nascente giudaismo» {early judaism), come il C. ama chiamare gli studi intertestamentari, una rivista e una collana di monografie.
Comunque, l'edizione italiana del presente studio, si segnala come non una semplice traduzione, bensì come una nuova edizione curata dall'A. stesso in collaborazione con G. Boccaccini.
Il libro è un vero e proprio manifesto di fondazione degli studi di «giudaismo nascente». Alla congerie di dati, scoperte e argomentazioni portata dall'A., si accompagnano una foga ed una passione che certamente non sminuiscono la validità delle sue affermazioni. In realtà, queste sono in certo qual modo rivoluzionarie, dato che capovolgono non solo il comune atteggiamento e la corrente metodologia degli studi neotestamentari, bensì anche quell'atteggiamento pregiudiziale più ampio che ha «canonizzato» la cesura incolmabile tra un Antico ed un Nuovo Testamento, facendo di quest'ultimo un corpus quasi staccato, omogeneo ed esclusivo per la conoscenza della nascita del cristianesimo e per la contrapposizione tra la «novità» cristiana e la sterile sclerosi giudaica.
L'A. dimostra ampiamente che il Nuovo Testamento, lungi dall'essere un blocco esclusivo ed isolato, naviga in una vasta lettura (e nel connesso milieu storico-culturale), rappresentata appunto dagli pseudepigrafi (per i cattolici, apocrifi). In altre parole, superando un criterio sotto sotto apologetico-positivi-sta, C. mostra quanto variegato fosse il giudaismo tra il II sec. a.C. e il II d.C; un giudaismo non identificabile, come avviene tradizionalmente, con l'espressione monolitica e normativa nata nel rabbinismo posteriore. Quindi, il cristianesimo nascente si rivelava un movimento giudaico a fianco ad altri, in quel caleidoscopio culturale e religioso che è stato il tempo a cavallo delle due ere. Una riprova ne sono, ad es., la lettera di Giuda, che cita addirittura Enoch, una delle opere più notevoli del complesso in questione, la lettera di Giacomo e l'Apocalisse.
Il libro del C. investe problematiche troppo ampie e profonde per essere affrontate in questa sede; d'altra parte, lo stesso taglio del lavoro lo sconsiglia. E pur tuttavia, non è esagerato affermare che esso si rivela una lettura necessaria per neotestamentaristi e non, per teologi e non.
L'opera è corredata da un'appendice che raccoglie i resoconti degl'incontri della Studiorum Novi Testamenti Societas sul tema.
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