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Rosmini pensatore europeo

 
 
 
Foto Rossi Roberto , Rosmini pensatore europeo, in Antonianum, 64/1 (1989) p. 208-219 .

Diretto da M.R. Raschini, il centro di ricerca « Genesi, Feno­menologia e Storia delle categorie costitutive dell'idea d'Europa » ha promosso il primo Congresso Internazionale « Rosmini pensatore eu­ropeo » tenuto dal 26 al 29 ottobre 1988 nella sede dell'Istituto del­l'Enciclopedia Italiana (Roma), sotto l'Alto Patronato del Presidente della Repubblica ed il Patrocinio del Magnifico Rettore dell'Univer­sità di Genova.

Rosmini, malgrado l'ostracismo della cultura ufficiale e la ridut-tività manualistica scolastica  dominante, per la  qualità e la mole del  suo  pensiero   e  per  i  problemi   affrontati,   rappresenta  certa­mente per la storia della filosofia un punto  di riferimento sovra-nazionale e quindi un elemento concreto di raccordo. Fu Gentile alla fine dello  scorso secolo  a comprendere  che il  Roveretano  poteva essere uno di quei pensatori in grado di inserire la cultura italiana a pieno titolo nel circolo di quella europea (M.A. Raschini, Discorso di apertura). In particolare, l'importanza della speculazione rosmi-niana,   oltre   ai   contributi   particolari   bene   messi   in   luce  peraltro e approfonditi durante il Congresso dai numerosi e qualificati rela­tori, è evidente soprattutto per l'organicità e la strutturazione data alla sua filosofia, per quel suo obiettivo di scienza della sintesi, una finalità  sapienziale  che,  come  rileva  ancora  la  Raschini,  animata unitariamente da una profonda energia spirituale e sorretta da una testimonianza straordinaria di vita, può essere ancor oggi in grado di esprimere l'identità stessa dell'Europa nel confronto internazio­nale e la sua forza di rinnovamento civile e spirituale che oggi le è necessario per esprimere con chiarezza e senza compromessi la continuità del suo ruolo storico. Il panorama culturale odierno infatti, è continuamente in stato di disorientamento, privo di riferimenti se non di immediato consumo e talvolta tragicamente teso ad uscire dal nichilismo che esso stesso alimenta in altre forme. Durante la sua vita Rosmini fu legato intellettualmente a molti dei protagonisti della cultura europea con i suoi studi, i rapporti epistolari e gli autori che approfondiva di volta in volta. Ma anche in tempi postumi questa sua valenza europea non si è perduta, giacché letto e stu­diato, amato o combattuto, ha tessuto costantemente e da prota­gonista, l'intero panorama culturale europeo, del quale non solo aveva profetizzato il crepuscolo, ma al quale, cosa ancor più im­portante, aveva tentato di indicare la strada da percorrere per at­tuare un rovesciamento di situazione, un vero rinnovamento che quel crepuscolo annunciava e postulava di necessità. Se queste indi­cazioni fossero state anche in parte ascoltate, comprese e realiz­zate, avremmo certamente evitato errori grossolani per i quali oggi siamo alla ricerca di una soluzione.

G. Uscatescu {La presenza di Rosmini nei paesi di lingua spa­gnola) citando Munoz Alonso, ha infatti ricordato  come  Rosmini avesse dimostrato a suo tempo l'infondatezza degli indirizzi empi­ristici, razionalisti e idealisti e la sterilità dello scolasticismo for­male una volta che fossero stati di fronte alle istanze più avanzate che i nuovi problemi sollecitavano. Ciò che accomuna quelle solo apparentemente diverse proposte è il medesimo immanentismo sog­gettivistico, arbitrario e incapace per questa ragione di fornire un credibile  riferimento   di   conoscenza.   Rosmini   scoprì   già   ai   suoi tempi questo frammentarismo, questo stato confusionale, dove proli­feravano suggestioni estemporanee e  si perdeva  soprattutto l'oriz­zonte dell'oggettività fondante. L'uomo che non riconosceva la pre­esistenza della verità, assimilava fatalmente questa al suo  sistema, cioè ai suoi sistemi, all'arbitrio  soggettivo  che  ogni volta  si pro­poneva, affermandosi con la forza (cioè dogmaticamente, poiché con­trabbandava quel misero soggettivismo per assoluto). Non potevano dunque, correnti come l'empirismo, il razionalismo o l'idealismo es­sere le soluzioni ai problemi trattati,  dei quali anzi  rappresenta­vano la denuncia esplicita. Era necessario invece rifondare un og­gettivismo dell'essere e promuovere in tal modo un vero progresso filosofico.

L'intervento di D'Addio (L'astratto e il concreto nella politica di Rosmini) ha chiarito come già dal 1839 Rosmini avesse criticato l'orientamento astratto della politica. Inserendosi nella tradizione del realismo politico italiano, il Roveretano auspicava quella concretezza politica che doveva perseguire l'appagamento dell'animo umano, ini­zio e fine di qualsiasi azione. E' qui fondamentale ricordare la di­stinzione rosminiana tra la facoltà di pensiero (che è il concreto, che indica i fini) e la facoltà di astrazione (che cerca invece i mezzi). L'appagamento è la conformità equilibrata degli uni rispetto agli altri, evitando dunque i pericoli di gravi confusioni dove i mezzi, scambiati per fini (l'astratto per il concreto) non possono che gene­rare smarrimento, alterando gli stessi rapporti tra razionalità ed istinto. Le facoltà intellettuali e quelle della sensibilità, ha puntua­lizzato infatti J.M. Trigeaud (L'unite de l'expérience des valeurs mo-rales et juridiqu.es d'après la philosophie rosminienne) si uniscono nell'esperienza, conformandosi e corrispondendo le une alle altre in rigorosa analogia. Tale integralità dell'uomo non è estrinseca alla gerarchia dei valori e alla giusta motivazione delle proprie scelte. Lo squilibrio nei rapporti tra mezzi e fini, offusca il senso e la ra­gione delle scelte, pervenendo a un rapporto anceps tra le diverse facoltà umane e tra i ruoli che ciascuna di esse investe. E' già qui, in nuce, la radice del frammentarismo, teso ad assolutizzare ogni volta il particolare e il limitato.

In questa prospettiva, l'intervento di D'Addio ha illuminato la portata del contributo rosminiano teso a far fronte a questa set-torialità del sapere, spesso e facilmente degenerato in settarismo, che riduce la cultura a mera tecnologia (ancora una volta i mezzi al posto del fine), smarrendo quella capacità di sintesi che è la radice stessa della tradizione culturale europea.

Pur avendo dato grande spazio alle distinzioni del sapere nei diversi settori di ricerca e alla specializzazione scientifica e pur rima­nendo costantemente aperto alla novità delle proposte del mondo scientifico, Rosmini non dimenticò mai di porre accanto a quei contributi, ritenuti peraltro fonte di luce e conoscenza, quel con­cetto di sapienza, di eredità cristiana che, per dirla con le stesse parole del Roveretano, è il « complesso di tutti quegli insegnamenti che sommamente importano ai supremi bisogni e fini dell'uomo ». Questa finalità che sa osservare e valorizzare l'uomo nella sua inte­gralità, rispettivamente le cadenze e l'ordine armonico, sia in relazione agli altri uomini che alla realtà politica e sociale in cui è inserito, non può restare estranea ai nostri tempi, altrettanto fram­mentari e, come ai tempi del Roveretano, alle prese con illusori idoli, nuvoi soggettivismi assolutizzati.

Rosmini, definito dalla Raschini « filosofo della futura possibile civiltà cristiana », non si chiuse in un sistema pre-costituito, in un soggettivismo contrabbandato per oggettivo, ma propose un nucleo vitale ed organicamente articolato, capace di fornire anche oggi un orizzonte unitario all'Europa e al suo futuro progetto di ri-costruzione. Rosmini fu già capace  di teorizzare,  su incarico  di  Carlo  Al­berto il « costituzionalismo ' italiano, emergente peraltro in tutta la sua opera politica. F. Mercadante (Rosmini e il '48) ha bene messo in luce questa tensione rosminiana a fornire una dottrina dello stato, organizzata sistematicamente e finalizzata all'acquisizione, per ogni po­polo, della coscienza di una giustizia sociale espressa e compiuta nella costituzione. Rosmini non fu sedotto né dal modello francese, né da quello inglese o americano.  Non propose tuttavia uno  schema alternativo che risultasse utopico e disincarnato rispetto alla realtà politica italiana. Nella concezione rosminiana, l'uomo doveva restare sempre più grande di qualsiasi sua istituzione o legge ed era que­sta giustizia politica alla base della sua concezione costituzionale. La persona, infatti, secondo la nota definizione rosminiana è « diritto sussistente ». L'intervento di S. Cotta (La persona come « Diritto sus­sistente, oggi) ha accentuato, in questa linea interpretativa, il merito rosminiano di aver dato fondamento ai diritti dell'uomo, fondamento tutt'altro che chiarito e chiaro nelle attuali concezioni immanenti­ste, che da una parte pretendono un assenso universale ed una par­tecipazione totale, senza però che siano fornite, dall'altra, alla co­scienza di ognuno le motivazioni in grado di giustificare tale ade­sione. Rosmini sostenne questi diritti, anche quando erano a suo tempo contestati, riuscendo a fondarli sulla supremazia della per­sona, a sua volta giustificata dall'elemento  divino  che la informa. Egli proclamò l'inviolabilità dei diritti umani proprio in quanto in­nati, naturali e razionali, sapendo ben distinguere questi da quelli acquisiti nel tempo. Su questa base innatista egli rifondò l'idea di uno stato liberale al  quale,   di  fatto,  diede nuove basi,  riconfer­mando, di quei diritti, la trascendenza, la loro extrastorìcità (F. Mer­cadante). L'inviolabilità della persona, la sua sacralità come creatura è nel contempo la salvaguardia della sua unità e integralità: è la sua comune fraterna radice nell'ordine divino.

Per questa ragione il principio morale non può mai essere costi­tuito soggettivisticamente (e dunque in modo arbitrario), poiché il suo soggetto, l'uomo, non è mai ente disperso che deve unirsi social­mente per mere ragioni utilitaristiche (ed altrettanto soggettivisti­che), ma una creatura che condividendo il valore infinito dell'eterno, è affratellato dalla sua comune identica discendenza divina. E' per­ciò la persona « le principe inconditionné de tout droit, de tout juste » (J.M. Trigeaud), concreto medium, con la sua volontà, tra la moralità e la legalità, tra essere e conoscenza. Tutto deve essere finalizzato alla persona, perché essa supera il diritto stesso e lo invera. Questi principi valgono nella comunità civile come in quella reli­giosa. La Chiesa, da queste premesse, la vera Chiesa deve tendere dunque alla pienezza della vita, ponendosi alla testa dei popoli che anelano alla libertà, cioè essere guida a quegli uomini che deside­rano soltanto realizzare la loro dignità di uomini. Lo ha ricordato nel suo intervento R. Belvederi {Rosmini e la Chiesa), avvertendo che, ai tempi di Rosmini e oggi nuovamente, soltanto così facendo, essa potrà riprendere la guida della cultura e il suo conseguente primato. Non si cada di nuovo in errore, facendo di elementi acci­dentali e contingenti un riferimento privilegiato creduto erronea­mente perenne e distrarsi così dall'obiettivo vero a cui la comu­nità ecclesiale è chiamata: la promozione della dignità dell'uomo attraverso uno strumento culturale che lo sappia valorizzare nella sua integralità.

La condanna infatti delle quaranta proposizioni rosminiane con il Post Obitum dell'88, come del resto tutto il fraintendimento e il silenzio che ancora si perpetra sull'opera di Rosmini (in questa ot­tica soprattutto cfr. l'indifferenza per le Cinque Piaghe) fu ed è anche oggi dovuta soltanto a fatti contingenti e temporali, non certo a incompatibilità dottrinarie. Rosmini deve restare dunque per la Chie­sa una voce profetica e una guida. Fondamentali a tal proposito, come sostegno ulteriore e qualificato a dimostrazione che la posizione del Roveretano fosse in perfetta sintonia con l'ortodossia cattolica e, pur diversa, nell'analogo spirito del tomismo e che di conseguenza la causa delle condanne subite dal suo pensiero furono soltanto di natura extrateoretica, sono state le relazioni di P.P. Ottonello   (La confutazione rosminiana del panteismo e dell'ontologismo) e di L. Malusa (Rosmini e le polemiche filosofiche dell'Ottocento).

Ottonello ha chiarito perfettamente come la polemica tra Ro­smini e Gioberti fosse stata del tutto travisata da un manipolo di neotomisti di « Civiltà Cattolica » (M. Liberatore e G.M. Cornoldi in particolare) del tutto ignoranti sul piano filosofico, incapaci perciò di comprendere quel concetto centrale della filosofia rosminiana che è l'idea delle forme dell'essere.

Questo concetto concentra in sé e realizza in sé il superamento e la confutazione sia del panteismo che dell'ontologismo. Sarà poi con la Teosofìa che Rosmini realizzerà, come ha puntualizzato an­cora Ottonello, « la confutazione più teoreticamente organica di on­tologismo e panteismo che si dia nel pensiero occidentale » ed an­che la più costruttiva, giacché con essa il Roveretano ha rovesciato in una positiva fondazione metafìsica del finito, la pars destruens usata contro le pretese identificatorie di finito ed infinito da parte dei suoi avversari.

Costoro, forti delle condanne pronunciate con il Sillabo da Pio IX, avevano rivendicato ciecamente l'attualità del metodo e dei principi della Scolastica, sia in campo filosofico che teologico, asso-lutizzando e autorizzando, implicitamente, a negligere tutto quanto fosse diverso dalla monotonia e stucchevole schematizzazione ma­nualistica (e, dunque, fatalmente, pericolosa riduzione) del profondo pensiero di s. Tommaso. Cornoldi assimilò Rosmini a Spinoza e a Hegel (!), mentre Liberatore lo unì a Kant. Il risultato di queste ibride assimilazioni fu la confusione, in particolare, tra il carattere ideale dell'essere e quello dell'essere reale di Dio, confusione così evidente da essere attaccata già allora, inutilmente, sia dal vescovo P.M. Ferré che dal Buroni e da altri. L'essere ideali infatti raffigura l'elemento di oggettività della conoscenza, configurando nel contem­po il momento originario dell'esistere. Malusa ha chiarito perché ogni difesa del pensiero di Rosmini fosse aprioristicamente perduta presso Leone XIII, « per il quale si era data troppa importanza a quel sistema filosofico » che, dopo tante polemiche, in alcun modo poteva presentarsi quale fedele interprete del Tomismo. E così, dopo aver incoraggiato di persona il Cornoldi, arrivò alla condanna, inti­morito dalla virulenza di una polemica che avrebbe potuto, nei suoi timori, provocare anche uno scisma all'interno della Chiesa.

Importante complemento alle due ricordate relazioni di Otto­nello e Malusa, è stata la lucida comunicazione di A. Giordano (Ro­smini e Tommaso: una convergenza possibile). Giordano ha pun­tualizzato perfettamente una sicura distanza tra i due grandi pensa­tori per quanto concerne il piano della psicologia della conoscenza, la concezione della genesi e della funzione dell'idea, ma, cosa più importante, ne ha evidenziato la sostanziale concorde concezione nel-l'aderire alla forza oggettiva e trascendente dell'idea stessa.

Dopo un secolo ci è dato ormai vedere con evidenza che Ro­smini fu « cristiano filosofo » e « filosofo cristiano » a pieno titolo, come lo ha definito giustamente G. Giannini (Rosmini e la teologia speculativa), in quanto seppe unire all'itinerario delì'intellectus quae-rens fidem quello della fides quarens intellectum, saldandoli tra loro organicamente: così nasce quella circolarità (il « circolo solido » ro-sminiano) per la quale fede e ragione si compenetrano reciproca­mente e complementariamente pur nella distinzione di diritto. In questa prospettiva la Teosofìa, ponendo la distinzione tra l'ordine logico, che riguarda l'essere triadico (e che si articola sulla base dell'intuizione dell'essere, seguita poi nella sua interna coerenza) e l'ordine ontologico, riguardante invece l'essere trinitario (ciò che costituisce il reale fondamento dell'intera dottrina) realizza l'unità tra filosofia cristiana e teologia speculativa. Anche se dovrà essere illuminata dalla fede, la ragione non può e non deve mai abdicare alla sua specificità e ai suoi compiti, che costituiscono anche i suoi diritti-doveri: persino del mistero è possibile dare, come fa Ro­smini proprio con la Teosofia, delle ragioni, pure se negativo-ideali. Il mistero è certamente in sé inconoscibile, ma il suo porsi è ragio­nevole e in significativo rapporto rispetto alle stesse possibilità della conoscenza e della sua sistematizzazione. E' l'essenza stessa della gno­seologia a pretendere una rivelazione che la concluda e la realizzi, cioè l'alterità della verità intesa come mistero, deve avere il suo posto nel sistema. La verità infatti deve precedere il processo cono­scitivo, se davvero esso vuole pretendere all'oggettività. Se la verità invece fosse il prodotto di quel processo, ciascuno, dal suo punto di vista si sentirebbe autorizzato ad imporre ciò che di volta in volta è per lui più opportuno, rivestendolo estrinsecamente di verità. E' proprio questo frammentarismo soggettivistico, la proliferazione delle ideologie, a creare idola, professandosi indipendente da qualsiasi as­soluto.

La tentazione all'« autosufficienza », l'illusione di « rendersi gran­de e felice indipendentemente da Dio » tuttavia, precipita la crea­tura nell'assolutizzazione di sé, nella divinizzazione del contingente, quale che sia. In tal modo l'uomo produce continuamente e adora disperatamente idoli, cioè elementi finiti resi divini e assolutizzati perché, malgrado tutto, di Dio egli continua ad aver bisogno, conti­nua a trovarselo di fronte persino nella Sua negazione (non si at­tacca infatti un Assoluto se non in base ad un altro Assoluto). Questi rilievi della Manferdini (L'Oggettività della Rivelazione come fonda­mento  della   religione)   concludono   con   un'acuta   osservazione   di toni pascaliani e di natura rosminiana:   la miseria dell'uomo non sta certo nel suo esser bisognoso e manchevole, nel suo limite in­somma, ma, viceversa, proprio nel suo rifiutare questo stato, illu­dendosi di poter essere altro e naufragando nella delusione più pro­fonda. Il naufragio è la visibile conseguenza di quel processo  di soggettivizzazione della verità che, sradicando l'uomo dall'Assoluto, lo vanifica nel  suo  modo  d'essere  proprio,  cioè  uomo, per  farlo ciò che non è, cioè Dio. E questo peso è certamente eccessivo per le spalle esili e timorose di cui disponiamo:   il nichilismo è la de­nuncia dell'illusione di ogni titanismo,  ma anch'esso è lo  sbocco titanico al negativo dell'uomo che non sa accettarsi come limite e dipendenza. Tale limite deve rovesciarsi dialetticamente come rela­zione, proprio perché, come testa di Giano, la sua valenza è biva­lente: verso l'interno, dove definisce la creatura, verso l'esterno dove si apre a ciò che è altro rispetto alla creatura. Se non si realizza questo rovesciamento, il soggetto è, di volta in volta, l'illusorio ar­tefice della verità e/o il patetico profeta del (facilmente prevedibile) fallimento di quell'impresa.

Tale soggettivismo, esasperato in Kant e Hegel e in genere in tutta la tradizione luterana ricodificata nell'idealismo tedesco e che, filo­soficamente parlando, va fatto risalire a Cartesio, fu il costante in­terlocutore e il vero avversario della filosofìa rosminiana. La verità che per Rosmini è l'intelligibilità dell'essere, ricorda G. Morra con il suo intervento Primato dell'ideologia e filosofìa europea in Rosmini, appartiene al carattere teoretico della filosofia, imprescindibile an­che quando si deve parlare di filosofia « pratica ». La filosofia è dun­que per il Roveretano scienza dell'essere, recupero dell'oggettività, proprio come era alle radici del pensiero italico (Pitagora e Par­menide) ed europeo (Scolastica). Essa ha la finalità di portare avanti quattro obiettivi: combattere l'errore (il soggettivismo che si dog­matizza come verità), ridurre la verità a sistema organizzandola in una unità articolata, fornire una solida base alle scienze e porsi a disposizione del sapere religioso, vero completamento della filo­sofia. Si può dunque dire, ha sostenuto Morra, che l'autentica filo­sofia europea si identifica con quelle definite premoderne e post­moderne, dove il platonismo agostiniano ha portato alla filosofia di Platone il contributo delle verità della Rivelazione accordandole per­fettamente e dove poi, il pensiero filosofico è stato illuminato dal­l'idea dell'essere, fondamentale chiave di lettura e intervento nella realtà. Le radici del pensiero europeo dunque Rosmini le aveva scorte nella classicità e nel suo completamento-inveramento attraverso il perfetto contributo del Cristianesimo. Questo confronto con il pas­sato poteva fornire una continuità e una concretezza storiche che il soggettivismo frammentario del suo tempo aveva smarrito, soprat­tutto nell'aver vanificato l'oggettività stessa della conoscenza e dun­que il suo costituirsi come àmbito limitato di ricerca dove deve pre­valere l'idea diacronica della tradizione più che l'estemporaneo e atemporale  titanismo   autosuffìciente.

L'unità non è frammentabile nelle sue parti, né queste sono in grado, sommandosi, di compierla. Così « l'uno non può essere di­viso in molti in maniera tale che si possa porre il problema della loro comunicazione » alla stregua delle modalità indagate nel Parme­nide da Platone e questo, in quanto le forme categoriche sono inco-comunicabili: l'unità non è simplex, ma composta (Hegel l'avrebbe definita concreta, perché effettuale) è triunitarietà ed essa costituisce nei due modi, infinito e finito, l'Essere e gli enti. In tal modo « la triunitarietà delle forme categoriche, nel modo infinito di sussistere è l'unità dell'Essere e la trinità delle Ipostasi », mentre nel modo fi­nito « è la sintesi unitaria delle categorie e la molteplicità degli enti » (G. Imbraguglia, Fonti classiche in Rosmini). Rosmini in defi­nitiva ha convertito sia la mimesi platonica (tradotta nel rapporto tra conoscenza e creazione) sia l'analogia aristotelica (trasformata in quello tra Essere assoluto ed enti finiti), pervenendo all'Essere, Es­sere che sussiste in una necessità che è insieme soggettiva, ogget­tiva e morale e che costituisce il fondamento stesso dell'opera del mondo.

Questa revisione rosminiana della filosofia classica che fornisce nuovo alimento anche alla ricerca teologica, dove ratio e fede sono solidalmente e unitariamente integrate, fonda il coinvolgimento nella ricerca della persona che concretamente  indaga.  Questi rilievi A. Quacquarelli {Fonti patristiche ed altomedievali in Rosmini) li pro­pone in polemica con l'attuale teologia, giudicata astratta e senza voce perché « priva di segni e simboli » che siano in grado di for­nirle il concreto riferimento di testimonianza di fede e di dottrina. I Padri avevano insegnato a Rosmini che « la migliore parte » della scienza teologica « nasce dall'esperimento che l'uomo ha di Dio, il quale non comunica se stesso a cui noi fa degno ». Ecco dunque il coinvolgimento concreto: il teologo non può pensare di esaurire il suo ruolo nella sola astrazione. La riflessione biblica deve riuscire a coinvolgere la fede e fornirle di conseguenza quegli elementi che la rendono conquista difficile e continua dell'animo umano e non quieta, asettica e  statica  sistemazione  di  concetti.  La  concezione rosminiana, ha aggiunto Quacquarelli, porta con sé un concetto co­munitario  teologicamente  attivo,  dove  sacerdozio  del  clero  e  dei fedeli in Cristo, sono unitariamente espressi nell'azione di una quo­tidiana vitale testimonianza:  la teologia rosminiana è dunque indi­visibile dalla ecclesiologia.

Non è semplice nostalgia quella del Roveretano, ma forza di promozione: « Rosmini attraverso la Patristica legge nel futuro ». Senza una base patristica non è d'altra parte possibile comprendere il libro delle Cinque Piaghe e le stesse critiche rosminiane alle forme stereotipate dei manuali in uso nei seminari. La verità non può essere testimoniata da uno schematismo vuoto e devitalizzato, ma deve ravvivare la vita del cristiano e, se filosofo, alimentare co­stantemente il suo rapporto con la riflessione.

Nella parte prima dell'Introduzione alla filosofia, Rosmini aveva denunciato la mollezza della generazione del suo tempo, incapace di « naturale amore della mente nella ricerca del vero » (L. Bulferetti, Concezione e utilizzazione della scienza nel pensiero di Rosmini) e, di conseguenza, incapace di smascherare la falsa e seducente luce di quel sistema accumulato in tanti secoli e foriero di « ogni forma di falsità », soprattutto di quel narcisismo autarchico, chiuso al­l'alterità. Il richiamo imprescindibile alla persona e alla sua discen­denza da Dio, sottende anche l'insegnamento e la teorizzazione peda­gogica rosminiana. In alternativa all'orizzonte nichilista, Rosmini propose una pedagogia di impianto personalista e d'ispirazione cri­stiana che ha in una rinnovata e paradigmatica paideia il suo riferimento (G. Acone, Rosmini teorico dell'educazione). La proposta pe­dagogica del Roveretano così, non solo « anticipa teorie e acquisi­zioni teorico-scientifiche contemporanee », ma delinea anche una con­cezione organica capace di attribuire il referente educativo agli stessi mutamenti della realtà umana. Per questo motivo Acone ha indivi­duato e accentuato il forte spessore teoretico della pedagogia rosmi-niana, leggibile entro un triplice piano: metateoretico, teoretico ed epistemologico. L'unità soggetto-uomo è dunque una unità psico­fisica-intellettiva, mai riducibile alle sue parti (pena lo squilibrio dell'armonico sviluppo dell'uomo), una concezione integrale dove osservazione ed esperienza costituiscono fattori importanti: esse sono infatti per il Roveretano le manifestazioni tramite le quali pervenire all'essenza stessa dell'anima (M. Sancipriano, Vita della psiche e vita umana nel pensiero di Rosmini), unità che le fonda. Anche il giu­dizio sulle esperienze storiche osservate, di conseguenza, punta al nodo unitario dal quale certi atteggiamenti e certe azioni hanno preso avvio. E tutta la preoccupazione del Roveretano di fronte a manifestazioni particolari, pure se di straordinaria rilevanza come la Rivoluzione Francese, fu quella di contestualizzare i vari aspetti, cioè di riferirli a un quadro generale che ne rappresentasse la giu­stificazione.

L'atteggiamento di Rosmini di fronte alle novità della Rivolu­zione Francese, è stato bene approfondito dalle relazioni di G. Cam­panini (Antonio Rosmini e le ideologie dell'89) e M. Puppo (Rosmini e Manzoni di fronte alla Rivoluzione Francese).

Campanini ha puntualizzato come il confronto critico con le ideologie dell'89 e con la Rivoluzione Francese sia stato una co­stante nella speculazione del Roveretano, dalle pagine giovanili del Panigirico di Pio VII sino alla matura Filosofia del Diritto. Egli affrontò prima la teoria delle rivoluzioni in generale, poi lesse criti­camente la « Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino » e infine valutò, in modo autonomo e personale, le degenerazioni e le violenze dopo gli slanci libertari dell'89. Il Rosmini maturo, capì che un germe positivo (« dentro l'abisso della malignità s'agitava per isbucciare un germe buono e salutare ») si celava dietro quei fatti che pure aveva condannato senza appello negli anni giovanili. In par­ticolare era certamente positiva la rivendicazione della libertà del­l'uomo, valore che avrebbe dovuto nuovamente vitalizzare quello della persona con i suoi diritti extrasociali e sovrastorici. E il coraggio che Rosmini mostrò nell'indicare quel positivo riferimento della rivoluzione non deve andare perduto in una mera ricostru­zione storica di quegli avvenimenti, ma può ancor oggi fornire la base stessa del progetto che la cultura europea si è dato. L'inte­resse di Rosmini fu dunque soprattutto quello di inquadrare la Rivo­luzione Francese in una filosofìa generale della politica a differenza del suo amico Manzoni il quale invece manifestò una sollecitazione dì natura più storica, psicologica e moralistica come ha bene illu­strato M. Puppo con la sua relazione. Lo scambio epistolare del 1843 illumina questa diversità di interessi, ma anche la comune convin­zione che i fatti sono conseguenza delle idee. Questo convincimento di entrambi li portò a valutare il peso e l'incidenza del passionale e dell'irrazionale nell'evento rivoluzionario, così come le responsabilità dell'influenza delle dottrine naturalistiche e utilitaristiche, che cri­stallizzarono funestamente le idee di libertà e uguaglianza in una sterile, vuota astrattezza.

L'unica relazione sulla dottrina estetica di Rosmini è stata quella di P. Prini (L'Estetica di Antonio Rosmini). E persino in questo campo, in apparenza estraneo agli interessi del Roveretano, non è anacronistico parlare di novità e intelligente sollecitazione per i nostri tempi. Nel giovanile Saggio sull'idillio e sulla nuova lettera­tura italiana, Rosmini seguì la tradizione estetica cristiana, riba­dendo il criterio de « l'argomento interno della verità delle cose »; nella Teosofìa invece (cfr. il cap. Della bellezza, libro III) egli inserì l'arte nel sintesismo delle forme dell'essere, quale forma trascendentale distinta dal vero e dal bene. Se la verità sì configura infatti come la forma ideale e la bontà come la forma morale, la bellezza si configurerebbe quale forma reale che attualizza una vir­tualità, che esegue un tema mentale. Con questa prospettiva Ro­smini ha assegnato alla bellezza una nuova forma del tutto indi­pendente, riuscendo a superare lo schema usuale che riduceva il bello a mera imitazione del vero.