> > Herman

:
Recensione: Ed. Parish Sanders, Paolo e il giudaismo palestinese. Studio comparativo su modelli di religione

 
 
 
Foto Herman Z.I. , Recensione: Ed. Parish Sanders, Paolo e il giudaismo palestinese. Studio comparativo su modelli di religione , in Antonianum, 62/2-3 (1987) p. 352-356 .

L'Editrice Paideia presenta, anche se non proprio in tempi record, la traduzione italiana del forse più dibattuto studio esegetico-storico degli ultimi decenni. Quando nel 1977 ne uscì l'originale inglese, si è avvertito subito un rialzo di temperatura negli ambienti neotestamentari, in parti­colare nel settore paolino. Nel 1981 W.D. Davies, uno dei più stimati stu­diosi di Paolo e del giudaismo rabbinico, nella Prefazione alla 4. edizione del suo Paul and Rabbinic Judaism non esitò a definire il volume di Sanders « ... a major milestone in Pauline scholarship ... of potentially immense significance for the interpretation of Paul ».

Per onorare l'edizione italiana dello studio di Sanders vale la pena evidenziare anche nell'ambito della presente recensione i principali mo­tivi di tale interesse.

Il punto basilare della discussione sandersiana non è, come forse ci si aspetterebbe, il fatto che Paolo finora sarebbe stato malcompreso e, di conseguenza, malinterpretato dai suoi esegeti, bensì che la ricostruzione del giudaismo dei tempi neotestamentari, eseguita in base agli scritti paolini, sarebbe storicamente falsa, nell'insieme, non solo nei particolari. Sbaglio enorme, di tragiche conseguenze, sarebbe stato secondo Sanders di aver voluto ricostruire il giudaismo palestinese del primo secolo sola­mente in base alla diatriba apologetico-teologica dell'epistolario paolino; una trappola nella quale sarebbe caduta la maggioranza della ricerca neotestamentaria. Neil'Introduzione (pp. 19-35) e nei §§ 1-2 del Capitolo Primo (pp. 61-120), Sanders ne palesa le correnti principali e i rispettivi esponenti con drammatica lucidità e appassionati toni polemici. L'esegesi neotestamentaria avrebbe quasi in blocco seguito in modo acritico la presentazione del giudaismo di F. Weber, E. Schùrer, W. Bousset e so­prattutto della raccolta di H.L. Strack - P. Billerbeck, alla quale Sanders nega decisamente la credibilità storico-critica. Il più discutibile risultato finale di questo approccio sarebbe stato niente meno che il Theologisches Worterbuch zum NT, seguito alla cieca e divulgato in tutto il mondo esegetico. Sembra, secondo Sanders, che le intuizioni giuste di G.F. Moore, S. Schechter, C.G. Montefiore, L. Finkelstein, ecc., siano state quasi boicottate, intenzionalmente ignorate, dall'esegesi dominante, soprattutto dell'area tedesco-luterana. Anche lo stesso W.D. Davies, nonostante ottime intenzioni ed accurata metodologia, si sarebbe limitato a comparare i temi principali di Paolo coi rispettivi motivi del giudaismo rabbinico, imponendo a quest'ultimo lo schema paolino. Una simile valutazione in fine dei conti si potrebbe fare, secondo Sanders, anche della voluminosa opera di G.F. Moore, il quale, forse inconsciamente, partiva dai temi centrali del cristianesimo per ritrovarne il corrispondente nella lettera­tura tannaitica.

Sanders per contro si prefigge di studiare l'insieme del patrimonio rabbinico in quanto modello di religione a parte. In questo senso Sanders parla spesso di comparazione olistica dei modelli religiosi (cf. pp. 35ss), ossia dell'intento di comparare il nucleo, l'essenza della religione rabbi­nica coll'essenza della dottrina paolina, trascurandone i particolari peri­ferici di ambedue, che, bisogna riconoscerlo, hanno a tal punto condizio­nato la discussione esegetico-storica da aver fatto scomparire la selva nella moltitudine di alberi.

A parte l'Introduzione e la Conclusione, il libro di Sanders è diviso in due parti fortemente sproporzionate. La Parte prima intitolata « Il giu­daismo palestinese» (pp. 61-588), occupa praticamente i tre quarti del­l'intero studio, mentre la Parte seconda, « Paolo » (pp. 591-741), viene di­scussa in un solo capitolo, quasi in appendice a quanto precede. Questa disposizione già di per sé palesa l'interesse basilare di Sanders: ridare il vero volto al giudaismo come era ai tempi del cristianesimo nascente, togliergli la patina della « religione di opere » addossatagli da tutte le parti e in tutti i tempi, particolarmente nell'area protestante dall'ultimo secolo in poi, come accennato poc'anzi. La Prima parte, suddivisa in quat­tro capitoli, studia minuziosamente abbeverandosi direttamente alle fonti, il mare magnum della letteratura tannaitica (pp. 61-339), i manoscritti dal Mar Morto (pp. 340-459) nonché gli apocrifi e pseudoepigrafi (Ben Sirac, 1 Enoc, Giubilei, I Salmi di Salomone, 4 Esdra; pp. 460-575). Il Capitolo quarto riassume in una ventina di pagine i risultati ottenuti (pp. 576-88). I dati letterari esaminati abbracciano praticamente tre secoli, dalle tracce più antiche del materiale rabbinico (ca. 200 a.C.)  agli strati più recenti di Qumràn (ca. 100 d.C; da notare tuttavia che nella discus­sione sui manoscritti del Mar Morto vengono omessi il Rotolo del Tempio e il Targum dì Giobbe forse perché pubblicati nella editlo princeps rispet­tivamente solo nel 1977 e nel 1971; cf. Antonianum 62, 1987, 125-28). Sanders non mostra dubbi a proposito del pattern di fondo del materiale studiato: « ... in tutta la letteratura esaminata l'obbedienza ha II compito di con­servare al singolo II suo posto nel patto, ma non guadagna la grazia di­vina come tale. Semplicemente mantiene l'individuo nel gruppo destina­tario della grazia divina» (p. 577). Una conclusione insomma che rovescia e capovolge la considerazione secolare dell'esegesi cristiana rispetto  al patrimonio letterario-religioso della tradizione giudaica  (cf. lucide e cri­tiche considerazioni in proposito di R.H. Gundry,  « Grace, Works,  and Staying Saved in Paul », Biblica 66, 1985, 1-38 un articolo, per tanti versi esemplare, che l'Autore definisce « A Response to E.P. Sanders' thougts on getting in and staying in according to Palestinian Judaism and Paul », p. 1). Infatti, secondo Sanders, tutta la religiosità del pio giudeo dei tempi inter-neotestamentari era imperniata sul dato essenziale di « stare nel e conservare il patto » (getting In and staying in »); il fatto che l'espressione « patto », « alleanza », appaia scarsamente nella letteratura esaminata non cambierebbe nulla: « oso affermare che è proprio la natura fondamentale della condizione del patto che rende in gran parte ragione della relativa scarsità di apparizioni del termine "alleanza" nella letteratura rabbinica » (p. 578). Sanders adopera spesso l'espressione « nomismo del patto » che gli pare anche la migliore definizione della religione giudaica. Il modello e la struttura del nomismo del patto vengono scanditi da Sanders in otto affermazioni precise:   « 1. Dio ha scelto Israele e 2. ha dato la legge. La legge implica sia 3. la promessa di Dio di mantenere l'elezione e sia 4. la richiesta di obbedire. 5. Dio compensa l'obbedienza e punisce la trasgres­sione. 6. La legge fornisce i mezzi di espiazione e l'espiazione ottiene 7. la conservazione o il recupero della relazione del patto. 8. Tutti quelli che si mantengono nel patto con l'obbedienza e l'espiazione, grazie alla mi­sericordia divina, appartengono al gruppo di quelli che si salvano. Una importante interpretazione del primo e degli ultimi punti è che l'elezione, e da ultimo la salvezza, sono considerati un frutto della misericordia di­vina piuttosto che un conseguimento umano»  (pp.  580-81). Non è che tutti i documenti esaminati da Sanders contengano tutti i punti elencati e anche ammesso che ci siano stati tanti « giudaismi » nella Palestina del periodo studiato, occorre tuttavia dare ragione a Sanders quando afferma « che c'era in comune qualcosa di più che il solo nome di "ebreo" » (p. 582), anche se si può discutere se questo « comune » consista veramente negli otto punti succitati. La Prima parte chiude in modo categorico:   « ... il nomismo del patto deve essere stato il tipo generale di religione prevalente in Palestina prima della distruzione del tempio» (p. 588).

E' con emozione che si passa alla lettura della Parte seconda, intito­lata semplicemente « Paolo », aspettandosi l'accurato procedimento me­todologico  adoperato nella Parte prima.   Invece,   solo  pochi  cenni alle jonti (sette lettere di indiscussa autenticità:  Rom, 1-2 Cor, Gal, Fil, 1 T$, Fm), nessun interesse per i dati biografici dell'Apostolo « eccetto la sua convinzione d'esser chiamato ad essere l'apostolo delle genti » (p. 592), la negazione di  « sviluppi  teologici  fondamentali  nel pensiero  paolino » (p. 593), un fatto che lascia estremamente perplessi, anche se si concede che «vi sono certi mutamenti nel modo in cui si espresse» (ibid.). Tutto il dinamismo della fatica paolina si esaurisce nell'estemporaneo misticismo schweitzeriano. Non a caso il nome di Albert  Schweitzer e  le  acquisi­zioni basilari della sua Mystik des Apostels Paulus (Tùbingen 1930; stra­namente questo libro di Schweitzer viene citato nella trad. ital. secondo l'originale tedesco  all'inizio  della  discussione,  pp.  595ss,  scrivendo  ora Mystik, ora Mistik, cf. p. 595 nn. 14-17, per passare poi alla trad. inglese pp. 652ss, mentre  nell'originale  Sanders  fa   sempre  riferimento   a  que­st'ultima) impegnano tutta la discussione sandersiana riguardante Paolo. Schweitzer è  di  fatto uno  degli  autori  più  citati  del  capitolo  quinto. La lettura schweitzeriana  di Paolo  sembra  a  Sanders  la  più  adeguata per identificare il modello, pattern, della religione paolina da contrapporre a quello giudaico « ricostruito » nella Prima parte dello studio in quanto « stare e rimane nel patto ». Non ci voleva grande intuizione per ritro­vare nell'« essere in - con Cristo » l'adeguato  transfert paolino e nello Schweitzer l'esponente principale della rispettiva esegesi. La stessa pas­sione polemica con cui Sanders nella Prima parte smontava una certa visione della religione giudaica la si ritrova nel tentativo della Seconda parte di riabilitare l'intuizione  schweitzeriana di Paolo. Ci  sembra che Sanders non poteva fare altrimenti. Dopo l'identikit (discutibile o meno per ora non importa) del pattern religioso del giudaismo, non aveva altra scelta se non quella di riesumare il misticismo paolino  di Schweitzer. La sintesi sandersiana è seducente, il minimo che si possa dire. La maestosità mosaica dei due « modelli di religione » abbaglia con la sua ricchezza di colori e la logica espositiva. Ed è proprio questa perfezione di corrispondenza che lascia perplessi. Viene voglia di esclamare:   « Fosse vero! ». Saremmo di fronte  alla  più  grande  sintesi  del  genio  religioso giudaico-cristiano! Purtroppo, almeno in questo mondo, bisogna diffidare di perfezioni perfette. Per quanto riguarda la visione paolina di Schweitzer, ogni studioso del NT  ne conosce  limiti  e  pregi.  Il  sottoscritto  non  è esperto di letteratura  rabbinica,  però è  al  corrente  di  alcune  critiche basilari rivolte  all'esegesi   sandersiana   delle   fonti   giudaiche   da   parte di studiosi di indubbia  fama.  Basti   ricordare   la  recensione   del   libro di Sanders di Jacob  Neusner in  History  of  Religions   18   (1978)   177-91, ampliata poi nell'articolo « The Use of the later Rabbinic Evidence for the Study of Paul», in W.S. Green (ed.), Approaches to Ancient Judaism (Brown Judaic Studies; Chico 1980) II, 43-64. Per non dilungarci, ciascuno vi troverà sufficienti lumi.

Bisogna dare atto a Sanders che del fegato ne ha da vendere. No­nostante le critiche, e forse rincuorato da non pochi elogi altrettanto argomentati, nel 1983 ha pubblicato Paul, the Law and the Jewish People per riequilibrare la parte esimia dedicata a Paolo nel libro che stiamo presentando. Non si è mosso di un dito dalle posizioni precedenti. E Jacob Neusner ha perso la pazienza, questa volta sul serio: « Yet Sanders builds his book everywhere upon the results of his Paul and Palestinian Judaism, as though those results had withstood the criticism of his old book in his new volume. Writing as though criticism simply does not exist serves no purpose. The result is a work even more deeply flawed than the one on which it is based » (Id., « Sanders' Paul and the Jewish People », in The Jewish Quarterly Review 74, 1984, 416-23, qui 416). Due anni dopo, il colmo della prolificità, Sanders pubblica il nuovo libro: Jesus and Judaism. Questa volta la JQR affida la recensione a David Flusser, il quale, tra critica ed entusiasmo, esclama: « Sanders is certainly right, but who will believe him » (JQR 76, 1986, 246-52, qui 246).

Bastano questi pochi dati, scelti più o meno a caso, per indicare il rialzo di temperatura di cui si è parlato all'inizio. Le acque paoline, e non solo esse, da tempo non si agitavano con tale forza e vitalità. Sarà un'impressione, ma è un piacere navigarvi, sentendo sul fondo il gigante di Tarso scuotersi con veemenza, in cerca di una boccata d'aria per emettere anche nel nostro tempo uno di quei suoi ruggiti rabbiosi e tanto salutari. Sanders lo sta stuzzicando da dieci anni. E Paolo non era di quelli che si lasciavano pregare due volte. Oppure, da vecchio in­cantatore, non avrà forse già preso la voce di Sanders? E' un sogno.