Nobile Marco ,
Recensione: Georg Fohrer, Storia della religione israelitica ,
in
Antonianum, 60/2-3 (1985) p. 520-521
.
Con questa sua « storia », apparsa in edizione originale nel 1969, il F. ottemperava ad un progetto che datava dai primi decenni del secolo e che per la scomparsa prematura degli studiosi che se ne erano assunta la responsabilità (F. Horst e J. Hempel) non era ancora potuta giungere in porto. Nella prefazione, l'A. si riprometteva di svolgere in un successivo volume la teologia dell'AT (cf. G. Fohrer, Strutture teologiche dell'Ai, della stessa Paideia), dato che l'argomento presente si distingueva per impostazione metodologica da quella. Difatti, mentre una descrizione della religione israelitica considera la fede del popolo eletto sotto l'angolazione storico-genetica, una teologia veterotestamentaria, invece, cerca di enucleare e studiare le strutture teologiche portanti di detta fede; in altre parole, quello della teologia è un lavoro sistematico.
Certo che le cose sono meno semplici di quanto la suddetta distinzione possa far immaginare. Il taglio della presente « storia » è quello tradizionale, che ha ormai da tempo superato i confini dell'area di lingua tedesca, per divenire patrimonio, per così dire, ufficiale del mondo esegetico, nel quale, però, vanno ribollendo ultimamente riesami critici, scoperte e nuovi orientamenti (cf. H. Graf Reventlow, Hauptprobkme der alttestamentlichen Theologie ini 20. Jahrhundert Darmstadt 1982, per fare un esempio nel campo della teologia veterotestamentaria), più disincantati nei riguardi di una non assente precomprensione dogmatica di certe interpretazioni correnti. Come, del resto, si può notare anche nel F, il quale, pur nella sua magistrale conduzione, animata da spunti di personale autonomia (vedi la liquidazione dell'ipotesi dell'anfizionia tribale alle pp. 97-103 e la forte critica alla grande storia unitaria deuterono-mistica, alle pp. 350-51, tesi entrambe di M. Noth, ormai classiche, cf. anche pp. 207ss.), non sa rinunciare alle proprie idiosincrasie, come la sua concezione riduttiva nei riguardi del culto. Il F., difatti, contrappone (presupponendo troppo) « la forte volontà etica (sic!) dell'antica concezione di Dio » (jahwismo puro) (p. 178) al culto dell'epoca monarchica, quasi che il culto fosse qualcosa di tipico e originario della sola religione cananea legata alla Palestina e che quindi fosse stato incamerato e soltanto sopportato dallo jahwismo (cf. pp. 178, 224 con la discutibile nota 3). In realtà, di questo jahwismo puro del F., allo stato attuale delle ricerche, si può solo più presupporre che affermare qualcosa di preciso, specialmente nelle sue fasi più antiche.
Queste nostre osservazioni, insieme ad altre, fanno comprendere come talvolta, nella presente opera, il confine metodologico che l'A. si è proposto di tracciare tra uno studio storico della religione israelitica e uno sviluppo teologico-sistematico, sia elastico e difficile da rispettare.
L'opera in questione, ad ogni modo, meriterebbe una più particolareggiata disamina, che qui non è il caso di affrontare. Rimane, comunque, uno studio che è la testimonianza storica della serietà di un modo di fare esegesi.
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