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Recensione: TRYGGVE N.D. METTINGER, The Dethronement of Sabaoth. Studies in the Shem and Kabod Theologies

 
 
 
Foto Nobile Marco , Recensione: TRYGGVE N.D. METTINGER, The Dethronement of Sabaoth. Studies in the Shem and Kabod Theologies, in Antonianum, 59/1-2 (1984) p. 312-313 .

Una interessante monografia di teologia biblica veterotestamentaria. L'A. vuole mostrare con essa quanto gli aventi storici abbiano influito sull'evoluzione della formulazione di fede israelitica.

La tesi è che gli avvenimenti drammatici del 597 a.C. (prima presa di Gerusalemme) e del 587 a.C. (distruzione della città e del tempio) abbiano comportato un radicale ripensamento teologico che si riflette nella con­cezione di Dio e nella terminologia che la illustra.

Prima dell'esilio babilonese, Dio era concepito come il re residente nel tempio, con il nome di Jahwè Sabaoth (J. degli eserciti). Un Dio sempre presente, poggiante sull'arca e legato alla stabilità intoccabile del santuario.

La crisi che ha portato alla fine del tempio, non poteva non avere vaste ripercussioni sulla fede israelitica. Bisognava trovare una risposta adeguata ad una situazione storica radicalmente nuova, che però tro­vasse un fondamento anche nel passato. Tale fondamento è stato offerto dalla tradizione della teofania, una tradizione antica che concepiva un Dio mobile che « andava e veniva » e che era stata conservata dalla teo­logia gerosolimitana. Grazie a tale mobilità di Dio, si poteva attutire, fino a vincerlo, lo scandalo della questionabilità del tempio.

Si sono sviluppati, così, due filoni teologici. Uno, che aveva avuto una premessa nella riforma religiosa di Giosia (640-609 a.C.) e che ha trovato una piena formulazione nella storta deuteronomistica (Dt-2Re), ha eccentuato la trascendenza di Dio con la teologia del Nome (= Shem) (Dio è in cielo, il suo Nome è nel tempio); l'altro filone, che si riscontra in Ezechiele e nella tradizione sacerdotale del pentateuco, ha invece con­servato l'immanenza di Dio, connettendosi di nuovo alla teologia geroso­limitana, ma, grazie al motivo della «gloria» (= Rabod) di Dio, ha re­spinto la fissità di Jahwè Sabaoth e ha assunto la mobilità del Dio della Tenda-santuario.

Nonostante la piccola mole, il libro meriterebbe un'ampia e articolata discussione. Solo alcune osservazioni.

Il processo evolutivo della teologia in questione è ben intuito e suffi­cientemente bene argomentato. Tuttavia, la visione di esso è troppo si­stematica e « occidentale ». La teologia del Nome, pur essendo caratteri­stica del Deuteronomista, è forse assente in Ezechiele (cf. e. 20; 38,7; 43,7 e 48,35b !)?

La distinzione di Shem e Kabod, espressa rispettivamente nelle ca­tegorie di trascendenza e immanenza, mi sembra inadeguata se non inesatta. Il Nome è qualcosa di divino che è sulla terra; viceversa, la teologia del Kabod, com'è espressa da Ezechiele, accentua la trascen­denza di Dio (cf. la terminologia approssimativa delle descrizioni dei ce. 1 e 10). L'ambivalenza è propria della natura del simbolo, alla quale l'A. talvolta si richiama. Queste ed altre osservazioni vi sono da fare, che però non tolgono lo stimolo e l'interesse suscitati dall'Autore.