Weijenborg Reinhold ,
Recensione: ERNST DASSMANN, Der Stachel im Fleisch. Paulus in der fruhchristlichen Literatur,
in
Antonianum, 58/1 (1983) p. 154-156
.
L'A., professore di storia ecclesiastica antica nell'università di Bonn e direttore dell'Istituto per l'antichità posteriore nella stessa città, esamina nel presente libro qual posto secondo gli studi esegeti e patristici più recenti la persona e la teologia dell'apostolo Paolo occupino nel NT e nella letteratura paleocristiana fino alla fine del II secolo. Dopo il primo capitolo, che è introduttivo (p. 1-21), l'A. studia nel secondo (p. 22-173) l'influsso paolino negli scritti cristiani del primo secolo e in alcuni del secondo. Egli è anzitutto interessato all'esegesi canonica della teologia paolina. Negli At Luca, « benché non ebbe né una relazione diretta con l'apostolo delle genti né una comprensione ostensibilmente intima della sua teologia» (p. 33), avrebbe usato la figura di Paolo per garantire la giustezza delle sue proprie idee sulla crescita della Chiesa giudeo-cristiana ad una che comprendeva anche quella pagano-cristiana e sul passaggio della Chiesa apostolica a quella postapostolica. Gv accetterebbe le idee di Paolo sulla Legge e l'AT e su Cristo ed il Vangelo, ma introdurrebbe un'escatologia già attualizzata. Col e Ef svilupperebbero pensieri di Paolo, la prima esaltando il potere cosmico di Cristo per incoraggiare i contemporanei spaventati da fenomeni attribuiti ai demoni, l'altra ribadendo il carattere universale e pneumatico della Chiesa per avvicinare i pagano-cristiani ai giudeo-cristiani. Eb svilupperebbe grazie a Paolo la trascendenza di Cristo sopra la legge mosaica e l'adempimento in Lui dell'AT. \Pt predicherebbe idee paoline per incoraggiare i fedeli nelle persecuzioni postapostoliche. Gc metterebbe in guardia contro certe interpretazioni di Rm 2,6. 2 Pt, appoggiando l'autorità canonica di Paolo con quella di Pietro, avrebbe respinto il tentativo delle lettere pastorali, cioè di 1 e 2 Tm e Tt, di fare di Paolo l'unico apostolo autorevole.
Nella letteratura non-canonica la 1 Clem avrebbe adattato la soteriologia paolina allo stato posteriore dei cristiani di Roma. La Didaché, che equipara Legge e Vangelo, dipenderebbe più da Mt che da Paolo. Nelle lettere di Ignazio di Antiochia « la visione giovanneo-incarnatoria » coprirebbe quella « paolino-staurologica » (p. 142), cosicché « in esse manca il Paolo della dottrina della giustificazione » (p. 147). Policarpo di Smirna avrebbe poca congenialità con la teologia paolina, ma avrebbe riconosciuto nondimeno l'autorità canonica dell'Apostolo.
Nel terzo capitolo (p. 174-314) l'A. studia « la lotta intorno a Paolo nel secondo secolo ». Egli esamina il Paolinismo eterodosso di Marcione e quello degli gnostici, poi il silenzio, anche se relativo, di certi autori ortodossi su Paolo. Nella Lettera di Barnaba questo silenzio si spiegherebbe dal fatto che il suo autore in contrasto con Paolo insegna che l'AT appartiene non ai giudei, ma ai soli cristiani. Erma coltiverebbe «una totale astinenza biblica» (p. 228), perché non vuole essere un lettore, ma un veggente. La 2 Clem non citerebbe Paolo, sia perché forse fu scritta nella Siria poco paolina, sia perché come omelia s'interessava ad altre cose che a quelle ribadite da San Paolo. Papia non utilizzerebbe Paolo, perché egli sarebbe stato troppo semplice per capire la teologia paolina. Egesippo invece mostrerebbe « un'astinenza della fede comunitaria da impulsi paolini » (p. 244).
Tra gli Apologeti Aristide non mostrerebbe alcuna conoscenza delle lettere paoline. Giustino ne avrebbe conosciuto parecchie, ma non avrebbe «subito in senso proprio l'influsso della teologia paolina» (p. 247). Taziano avrebbe apprezzato tanto la persona di Paolo che la sua teologia. Atenagora utilizza certi testi paolini sulla vita cristiana e sulla risurrezione. Teofilo di Antiochia sarebbe stato il primo a citare testi di Paolo come « parola divina ». L'autore della lettera a Diogneto non solo avrebbe adottato moltissime espressioni di S. Paolo, ma si sarebbe addentrato anche in certi « intenti centrali della teologia paolina » (p. 255). Passando alla letteratura apocrifa l'A. definisce come amanti di Paolo la Lettera Apostolorum, che vede Paolo come portavoce dei Dodici, gli Atti di Pietro che lo presentano come un apostolo taumaturgo comparabile a San Pietro, e gli Atti di Paolo di una simile tendenza. Egli presenta come ostili a Paolo certi giudeo-cristiani che si sono espressi nei Kerygmata Petrou del 200 ca. e nello scritto del 260 ca. che fu fonte diretta della letteratura pseudo-clementina che vedeva in Paolo un altro Simone Mago. Infine l'A. espone il paolinismo giudizioso coltivato da Melitone di Sardi e da Ireneo di Lione. L'ultimo capitolo (p. 316-320) conclude da un lato che « Paolo come teologo ha caratterizzato soltanto in modo limitato la predicazione ecclesiastica delle generazioni posteriori » (p. 320) e dallo altro che « le sue lettere sono rimaste nondimeno un incentivo, "una spina nella carne" della Chiesa e una protezione contro ogni falsa assimilazione al mondo » (ivi). Segue un registro (p. 321-335) delle citazioni bibliche e patristiche e dei nomi, luoghi e materie trattate.
Dopo gli studi di E. Aleith (1937), A. E. Barnett (1941), W. Schnee-melcher (1964), O. Kuss (1971) e U. S. Mùller (1976) tutti utilizzati, il presente libro dà un opportuno ragguaglio della recezione del paolinismo nei due primi secoli della Chiesa. L'utilità del libro è accresciuto dal fatto che il prezzo è moderato nonostante la perfetta presentazione tipografica. Dovendo esprimere qualche critica deploriamo che l'A. abbia introdotto nel titolo del libro una falsa interpretazione di 2 Cor 12,7. Di fatto, se secondo quel testo « la spina nella carne » di San Paolo è « un messo di Satana », dunque un male, non si può suggerire, come fa l'A., che una tale « spina » sia un elemento di sana critica nella Chiesa. Inoltre ci domandiamo se è metodologicamente consigliabile di ricercare un paolinismo, definito in questi ultimi decenni, anche con l'aiuto di discutibili concetti protestanti sul binomio Legge e Vangelo, nei testi paleocristiani. Poi rimpiangiamo che l'A. non ha tenuto in sufficiente conto parecchie pubblicazioni importanti di origine anzitutto francese e italiana. Così, parlando della Lettera di Barnaba, non menziona lo studio di E. Robillard (1971), né le edizioni di P. Prigent (1971) e F. Scorza Barcellona (1975). A nostro parere l'A. asserisce troppo audacemente che l'A. di questa Lettera certamente non è il discepolo di Paolo. Nello stesso modo ignora parecchi studi su Ignazio di Antiochia, anzi sembra contraddirsi, parlando prima di Ignazio come di « una personalità ben afferrabile e caratterizzata di una forte volontà propria » (p. 126), poi come di una persona che è « soltanto nota per mezzo delle sue lettere, ma che resta del resto sorprendentemente scialba » (p. 151). Tuttavia la qualità dello studio è tale che auguriamo che l'A. contribuisca ancora parecchi altri lavori simili alla ricerca scientifica.
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