Herman Z.I. ,
Recensione: A. VANHOYE, Prčtres anciens, prčtre nouveau selon le Nouveau Testament ,
in
Antonianum, 56/2-3 (1981) p. 476-478
.
Nella collana Parole de Dieu, diretta da X. Léon-Dufour e destinata al vasto pubblico, è apparso questo interessante e originale libro di P. Vanhoye, da anni professore al Pont. Istituto Biblico e uno dei maestri più qualificati dell'esegesi neotestamentaria, cui competenza e rigore di pensiero, soprattutto riguardo alla lettera agli Ebrei, hanno procurato stima \ e rispetto da parte di molti amatori della Parola di Dio. Appena uscito, nell'autunno scorso, fu subito tra i libri religiosi più venduti in Francia (cfr. ICI n. 555, 15.10.1980, p. 51). Questo semplice dato testimonia che lo studio di P. Vanhoye risponde ad attese ben precise del lettore cristiano.
Il titolo di per sé è già indicativo. Quando lo ascoltammo per la prima volta, ci venne spontaneo di pensare che si trattasse di due plurali (visto che prètre nouveau e prètres nouveaux si pronuncia allo stesso modo). Invece grande sorpresa. Ci troviamo di fronte ad una intitolazione insolita: « sacerdoti antichi, sacerdote nuovo ». Un'antitesi a prima vista strana, ma piena di significato.
L'A. si propone di esaminare con metodo esegetico (cf. p. 11) i dati del NT che parlano di sacerdozio. Non si parte « de définitions a priori ni de positions établies d'avance » (p. 11; cf. p. 8): ci si mette solo all'ascolto dei testi neotestamentari lasciandosi guidare da essi « vers une découverte progressive du sens profond du sacerdoce » (p. 11). Peer noi oggi, l'equivalenza tra il sacerdozio e il ministero ecclesiastico è piuttosto pacifica. Non così per i cristiani del primo secolo, precisa FA. (cf. p. 8). Sarebbe da esaminare quindi quale posto nel NT « occupe la realité du sacerdoce et de quelle facon on y comprend le prètre. Les écrits du Nouveau Testament parlent-ils beaucoup des prètres et du sacerdoce ou, au contraire, n'en parlent-ils que rarement? Est-ce avec sympathie, indifference, hostilite? Se content-ils de refléter les idées de l'epoque ou élaborent-ils une conception nouvelle? Comment se définit cette conception?» (pp. 8-9). Tutte domande a cui l'A. vuole rispondere con una ricerca precisa e metodologica.
Dopo aver, nei primi due capitoli (pp. 15-54), sintetizzato concisamente il modo con cui le prime tradizioni cristiane parlano del sacerdozio antico (pp. 15-33) e la complessa realtà del sacerdozio veterotestamentario (pp. 34-54: nome, attributi e dinamismo interno dell'antico culto sacerdotale), l'A. affronta nel terzo capitolo il tema del sacerdozio in quanto « question épineuse pour les premiers chrétiens » (pp. 55-76). L'interesse è incentrato sul ruolo del grande sacerdote, sulla sua autorità religiosa unita al potere politico, come risulta dai vangeli e dagli Atti, e sull'attesa di un grande sacerdote per i tempi messianici nella tradizione veterotestamentaria e negli scritti di Qumràn. Quale rilevanza poteva assumere per i primi cristiani questa attesa? « Quels rapports pouvait-on établir entre l'attente d'un sacerdoce renouvelé et l'histoire de Jesus? » (p. 64). Appartenendo alla tribù di Giuda, Gesù, secondo la Legge, non poteva essere sacerdote( cf. p. 66): per i suoi contemporanei egli fu un semplice laico, la sua attività « n'avait rien de sacerdotal au sens ancien du mot » (p. 66) e non corrispondeva « à ce qu'on attendait alors d'un prétre » (p. 68). Apparentemente nemmeno la sua morte aveva cambiato la situazione: « elle s'était présentée comme une peine legale, l'exécution d'un condamné à mort » (p. 68). Niente di strano quindi che neanche i primi responsabili delle comunità cristiane si attribuissero il titolo di kohén o di hiéreus (cf. p. 70).
Se la discussione si fermasse qui (come alcuni purtroppo fanno), il sacerdozio cristiano così come la chiesa l'ha sviluppato e vissuto lungo i secoli, risulterebbe privo del fondamento neotestamentario. Il « fiuto » esegetico del P. Vanhoye è però troppo fine per non sentire nei testi evangelici anche « un certain rapport entre le mystère du Christ et le eulte ancien » (p. 70) : la relazione stretta che lega il Messia davidico al Tempio, alla costruzione della casa di Dio di cui si fanno eco Me 14,58 par. e Gv 2,19; i racconti sinottici dell'Ultima Cena che suggeriscono « un rapport entre la mort de Jesus et un rite sacrificiel » (p. 72; anche se l'A. rifiuta un influsso diretto di Is 53; cf. però la recente opinione opposta di R. Pesch, Das Abendmahl und Jesu Todesverstdndnis, 1978, pp. 72ss. 96ss.); l'azione tipicamente sacerdotale di Gesù di «alzare le mani per benedire » in Le 24,50-51, che, secondo l'A., rimane « le texte le plus suggestif pour la christologie sacerdotale» dei sinottici (p. 75). Si tratterebbe pur sempre però di allusioni e presentazioni implicite e non di affermazioni esplicite, di modo che la conclusione anche riguardo ai vangeli dovrebbe essere: « Jamais les évangiles ne parlent explicitement de sacerdoce à propos de Jesus. Ils apportent plusieurs éléments qui ouvrent la voie à une solution positive du probleme, mais ils n'expriment pas eux-mèmes cette solution » (p. 76).
A questo punto l'A. corre, a nostro parere, il grosso rischio di essere malcompreso. Qualcuno potrebbe a ragione domandarsi: che cosa rimane allora dell'Ultima Cena, della « preghiera sacerdotale » di Gesù in Gv 17, dell'istituzione del sacerdozio la sera del Giovedì santo, ecc.? Nei testi evangelici succitati non ricorrono i termini « sacerdozio », « sacerdote » probabilmente proprio per evitare una possibile confusione con il sacerdozio antico. Però, tutte le premesse per la posteriore concezione ecclesiale del nuovo sacerdozio ci sono, anzi gli stessi testi dell'Ultima Cena, soprattutto la paradosis più antica di 1 Cor 11,23-26, hanno il loro Sitz im Leben nel culto eucaristico della prima comunità. L'ordine di Gesù: toùto Troieìxe zig rìjv è^v àva[i.vrpiv (1 Cor 11,25; Le 22,19) anche se non si riferisce esplicitamente al nuovo sacerdozio, ne rappresenta tuttavia una implicita istituzione solenne (senza precisarne le contingenti forme storiche che lungo i secoli potrà assumere). Ci sembra che la cautela dell'A. di non forzare i testi, di non confonderli con gli sviluppi posteriori, di precisare e distinguere bene, dal punto di vista metodologico, tra implicito ed esplicito, sia suscettibile di non pochi equivoci. Non sarebbe stata quindi, a nostro giudizio, superflua una discussione più lunga sui diversi problemi che emergono dai racconti dell'Ultima Cena, soprattutto sulla succitata formula toòto rcoieTTe che FA. non prende in considerazione, e che sarà di importanza fondamentale per la successiva autocomprensione sacerdotale del ministero ecclesiale.
L'A. passa in seguito, nella seconda parte, alla lunga e dettagliata discussione (sei capitoli!) di quel « sermon admirablement compose » (p. 82) che è la lettera agli Ebrei, da cui emerge in tutta la sua grandiosità e originalità la figura di Cristo come Grande Sacerdote della nuova alleanza (pp. 82-262). La cristologia sacrificale di Ebr, tutt'altro che una regressione deplorabile (come voleva recentemente R. Girard; cf. le convincenti critiche rivolteghi dall'A. a pp. 260-61 n. 55), risulta invece « extréme-ment enrichissante pour la foi et la vie » (ibid.). Nondimeno anche qui il risultato sorprendente per quanto riguarda « i sacerdoti » cristiani: « Nipour les chrétiens, ni pour les dirigeants... l'auteur n'emploie le terme "sacerdoce" ni le titre de "prètre"; il a trop conscience du caractère partiel et subordonné de ces deux formes de participation au sacerdoce du Crist» (p. 263). Da qui anche il singolare («prètre nouveau») nel titolo del libro.
La terza parte, infine, è dedicata al « popolo sacerdotale » che sono i cristiani in base alle testimonianze di 1 Pt e di Apoc (pp. 267-339). Un paragrafo si occupa del ruolo dei presbiteri « dans l'organisme sacerdo-tal que constitue la communauté chrétienne » (p. 295; cf. pp. 295-99), che è quello di « pascere il gregge di Dio » (1 Pt 5,2): « En présentant la charge des presbytres comme une réalisation da la mission mème du Christ, Pierre met sur la voie d'une compréhension sacerdotale de leur róle » (p. 299, sottol. nostra); « Les presbytres sont invités à accomplir les actions (poimainéin, épiskopéin: 5,2) chi correspondent exactement aux titres du Christ (poimèn, épiskopos: 2,25) » (ibid. n. 59). Già Paolo si considerava XsiToupY&sXpicjToO e vedeva il proprio apostolato come un « esercitare l'ufficio sacro » del vangelo di Dio (hiérourgéin) « perché i pagani divengano una oblazione gradita » (Rm 15,16). Quanta distanza dalla concezione veterotestamentaria del sacrificio e del ruolo sacerdotale! « Il ne s'agit plus de mettre le cadavre d'un animai sur le feu de l'autel et de le "faire fumer"; il s'agit de sanctifier des hommes vivants en leur communiquant le feu de l'Esprit-Saint, et cela se fait au moyen de l'evangélisation » (p. 301).
L'ultimo capitolo (pp. 307-340), dedicato all'Apocalisse, sottolinea il ruolo dei cristiani in quanto « re e sacerdoti »: « En des circonstances qui faisaient apparaìtre les chrétiens comme des victimes et comme des con-damnés, Jean les invite à reconnaitre fièrment qu'ils sont en realité prètres et rois, c'est-à-dire qu'ils ont une relation privilegiée avec Dieu et que cette relation joue un róle déterminant dans l'histoire du monde » (p. 339). Una precisa conclusione d'insieme (pp. 341-348) e due nutriti indici, di contenuto e di citazioni bibliche, chiudono il libro.
Abbiamo rilevato solo alcuni punti, forse non i più importanti, di questo affascinante e stimolante studio portato avanti con grande competenza e lucidità, proprie dell'A. Il lettore attento e disponibile completerà le nostre lacune. Il presente libro che, secondo l'auspicio di P. Vanhoye, voleva essere solo un modesto contributo all'attuale discussione a partire dai dati del N.T. (cf. p. 348), è diventato in realtà una magistrale esposizione, che i futuri studi sull'argomento (e non solo quelli di indole biblico-esegetica), dovranno prendere in seria considerazione.
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