tipo di porta scenografica, con due ali laterali sporgenti, forse derivato a sua volta dalle fortificazioni della cinta urbana, secondo una tipologia abbastanza diffusa, che trova la sua applicazione anche nella stessa porta occidentale dell'àYOQd di Efeso. Ma è rara e, sembra, del tutto peculiare della porta meridionale della stessa àyofjd, la tendenza a renderne vivibile l'area interna.
L'alzato dell'arco, le cui pareti rimangono parzialmente in sito per un'altezza di ca. m. 3,50, risulta impostato su pilastri angolari di sostegno; di essi, alcuni sono funzionali al sostentamento degli archi, altri, di dimensioni maggiori e desinenti in capitelli ionici, supportano un architrave a tre fasce (fig. 4). Queste ultime risultano costituite, la prima, da una semplice modanatura a listelli paralleli; la seconda da un fregio a girali vegetali, resi con rigida tecnica accademica; la terza da una cornice di coronamento: Al di sopra dell'architrave svetta un alto attico, di ca. m. 2,2, destinato con ogni probabilità ad ospitare imagines (àvóXiiata) di personaggi, in onore dei quali la costruzione era stata innalzata, come si deduce dall'esistenza, sopra di esso, d'incassi per grappe di fissaggio.
Tali imagines avranno certamente riguardato statue-ritratto di personaggi della famiglia imperiale Iulia; gli stessi, ed anche altri probabilmente, che vengono menzionati nell'iscrizione dedicatoria, apposta sul lato dell'attico prospiciente l'ingresso meridionale, dalla quale si apprende anche la datazione del complesso, risalente ad età augustea. Alla medesima età augustea, ed in particolare ad Augusto in persona, sono chiaramente allusivi, inoltre, due elementi figurativi, che completano l'arredo figurato.
Ci si riferisce, in un caso, ad un particolare del fregio vegetale. Qui, da una foglia a calice si osserva emergere, con il busto, la dea Venere, circondata da piccoli eroti svolazzanti liberamente alle sue spalle, sì da riempire gli spazi vuoti del fogliame. È noto che tale divinità, assunta quale nume tutelare della propria gens da Giulio Cesare, che le volle dedicare a Roma il foro da lui denominato, onorandola nella valenza di Genitrice, venne universalmente riconosciuta come capostipite degli Iulii in seguito alla strumentazione ideologica messa in atto da Augusto tramite il poema virgiliano (v. Ecloga IV, e cf Orazio, Cairn. VII, 2; et al.).
L'altro elemento concerne invece il motivo del bucranio ((Jouxod-vov), ripetuto in posa frontale negli archivolti dei corridoi interni. Mentre non sfugge il requisito trionfale legato a questo simbolo, spesso usato in funzione decorativa sugli archi di trionfo, non sembra sia da sottovalutare la presenza, nella città di Efeso, di un culto per Posidone-toro, mentre, d'altra parte, non è neppure escludibile una relazione Posidone-Augusto, consequenziale alla vittoria di Ottaviano nella battaglia navale di Azio ("Ajctiov) del 31 a.C. (dopo nominata da lui Nixójio^is nell'Epiro).
È evidente a questo punto che la costruzione si poneva come me
dium di un messaggio composito e diversamente leggibile, di cui quello epigrafico costituisce forse la parte più pregnante, ai fini di una valutazione complessiva dell'importanza assunta da tale monumento alla luce della nuova politica, inaugurata dal princeps in ogni angolo del suo impero.
2.2. L'apparato epigrafico.
Al passeggero, sia civis Romanus che peregrinus, al quale fosse capitato di transitare per la porta, magari diretto verso il centro amministrativo, dopo aver disbrigato i propri affari nella piazza commerciale, poteva a volte capitare di soffermarsi entro l'arco, al coperto. Qualora costui avesse poi avuto un po' di tempo a disposizione, avrebbe potuto allora leggere, all'interno di esso, gli elenchi degli, àyoQàvouoi, che annualmente si succedevano nell'amministrazione della città. I loro nomi, infatti, sembra comparissero in liste, dipinte o incise, sui pilastri, sull'architrave e sugli archivolti dell'edificio.
Ma il principale messaggio iscritto era stato affidato alla superficie dell'alto attico.
Qui correva, infatti, l'iscrizione di dedica, espressa in lettere di bronzo alte ca. cm. 15, la cui doratura, illuminandole ai raggi del sole, ne permetteva già da lontano la fruizione.
Si trattava di un testo bilingue, conservatosi fino a noi, di cui la parte in latino era leggibile sopra gli archi dei due avancorpi laterali; la seconda in greco sopra quello centrale, più rientrato.
La versione latina era quindi suddivisa tra il lato sinistro (a) e quello destro (b) dell'attico, unificati in basso dal nome dei due committenti:
a (sinistra)
IMPERATORI] CAESARI DIVI FfILIO] AVGVSTO PONTIFICI
MAXIMO CO[N]S[VLI] XII TR1BVNIC[IA] POTESTfATE] XX ET
LIVIAE CAESARIS AVGVSTI (seti, uxori).
b(destra)
M[ARCO] AGRIPPAE L[VCII] F[ILIO] CO[N]SIVLI] TERTIVM]
IMBERATORI] (!)TRIBVNIC[IA]
POTESTATE] VI ET
IVLIAE
CAESARIS AVGVSTI FILIAEl
di seguito, da a a b
MAZAEVS ET M1TIHRIDATES PATRONIS
La versione greca, molto più abbreviata, recitava, nel centro:
Mo£|ato]s xaì Mi0Qi8car)s [toìs] Jtà[T]gcooi xaì xa> Srj[[*cp]
I due dedicanti, Mazeo e Mitridate, due orientali che V onomastica rivela di nascita non libera, hanno inteso offrire un omaggio ai loro patroni.
Dei due, Mitridate è noto come liberto di Agrippa in un'altra iscrizione; non si esclude che anche Mazeo fosse appartenuto alla medesima famijia, ovvero a quella di Augusto.
In realtà il nome del primo compare, sull'attico, a destra, dove sono menzionati Agrippa e Giulia; quello del secondo, a sinistra, dove invece si citano Augusto e Livia.
L'iscrizione è facilmente databile agli anni 4-3 a.C, per le cariche che vi sono ricordate.
Agrippa, infatti, che, come apprendiamo da Seneca (Controv., 11.4.13), non ha mai portato il suo gentilizio Vipsanius, per non ostentare l'estrazione plebea, fu nominato console per la terza volta nel 27 a.C. rivestendo i fasci insieme ad Augusto; ottenne nel 13 a.C. la sesta trìbunicia potestas, morendo di malattia l'anno seguente in Campania, dopo essere tornato dalla provincia d'Asia, che aveva governato per dieci anni.
Augusto ottenne il pontificato massimo («Pontifex Maximus) nel 12 a.C; fu console per la dodicesima volta nell' anno 5 a.C. e solo nel 2 a.C. rivestì di nuovo la stessa carica per la tredicesima volta. Conseguì la trìbunicia potestas vigesima nel 4 a.C, proseguendo con la ventunesima l'anno seguente.
Non sembrano, quindi, sussistere dubbi circa la cronologia.
Più difficile appare, invece, individuare la motivazione della dedica, che cadrebbe a molti anni di distanza dalla morte di Agrippa, il fedele luogotenente, consigliere, amico e genero di Augusto, che il princeps predilesse ad un punto tale da considerarlo uno della sua famiglia accogliendone le spoglie mortali nel proprio mausoleo, fatto erigere nel Campo Marzio {Campus Martius) nel «centro storico» a Roma.
Nella celebrazione, tuttavia, Augusto ed Agrippa non sono soli, bensì ciascuno di essi risulta in coppia con la donna che in quel momento si trovava ad essere la loro sposa. Ad Augusto, quindi, si accompagna Livia, cui egli si unì in terze nozze e che adottò in punto di morte, nel 14 d.C, determinandone la trasformazione del nome in Iulia Augusta. Ad Agrippa, anche lui in terze nozze, si unisce lulia, la figlia di Augusto, che costui poi rinnegò e fece morire in esilio nell'isola di Pantateria (ITavòa-TEQia nella costa campana, odierna Ventotene).
La presenza delle due donne, esplicitata in veste ufficiale ed associata a quella dei rispettivi coniugi, potrebbe allora rendere chiara l'intenzione dei due dedicanti di rendere omaggio non solo al potere del regnante, ma anche alla sua dinastia, la lulia, iniziatrice di una nuova epoca.
Tale ipotesi sembrerebbe avvalorata dal ritrovamento di una base di statua, certamente appartenuta al complesso figurativo del jroójruXov meridionale, su cui era incisa la dedica L[ucio] Caesari Augusti ffilioj. Quasi certamente doveva esisterne anche un'altra, gemella (non trovata finora), per il fratello, Caius: figli di Agrippa e di Giulia, i due fanciulli, sfortunatamente morti entrambi in giovanissima età, avrebbero dovuto costituire, nei disegni di Augusto, l'eredità al suo principato, toccata poi, per forza di cose, a Tiberio.
Mazeo e Mitridate si rivolgono agli onorati come ai propri patroni.
In realtà, si può essere sicuri di un rapporto patrono/liberto solo nel caso di Agrippa e Mitridate. Nulla si sa di Mazeo. Ma si può essere tranquilli di non allontanarsi troppo dal vero, affermando che, probabilmente, esisteva, da parte di entrambi i personaggi, la volontà di far rilevare i diversi aspetti che il rapporto di patronato comportava. Innanzitutto quello della protezione. Ma non solo. 11 liberto, che avesse conseguito la libertà, rimaneva in obbligo verso il proprio ex padrone, di cui continuava a curare gli interessi, incrementandone i guadagni. Tale può essere stato il rapporto di Mitridate con Agrippa, nei lunghi anni che quest'ultimo dedicò al governo della provincia d'Asia, di cui Efeso era metropoli. Forse Mitridate, e con lui Mazeo, si saranno distinti in operazioni commerciali e finanziarie, che avranno aumentato il prestigio e le ricchezze del proprio patrono. Ma poiché costui rappresentava nella città gli interessi pubblici del princeps, era come se il liberto, operando a favore del suo ex padrone, realizzasse vantaggi, in termini se non altro di credibilità politica, del padrone che stava sopra a quello, pure esso suo patrono, quindi, cioè Augusto.
Patroni sono quindi, per Mazeo e Mitridate, Augusto, Agrippa e tutta la famiglia, non solo perché l'ingresso di Agrippa nella gens lulia integrava anch'essi tra i suoi dipendenti, ma altresì perché la nuova strategia economica augustea li avrà avvantaggiati in operazioni dai risultati più che soddisfacenti per lo stato e per i loro patroni, oltre che per se stessi, come dimostra la costosa sontuosità del monumento, che essi vollero, in ringraziamento, in uno dei luoghi più in vista della città.
Questo è almeno il messaggio che il visitatore, o il residente stesso, poteva ricavare dall'iscrizione latina.
La versione greca si riferisce, invece, in forma estremamente compendiaria, sia ai patroni, per chiarire la motivazione dell'offerta, sia al popolo.
Tanto il bilinguismo, quanto le differenti caratteristiche dei resti (quello latino molto più esteso, anche se non completamente padroneggiato nella lingua, come dimostra la grafia imb[erator] per imp[erator], carica che molto di rado, peraltro è riportata nelle iscrizioni di Agrippa), riflettono il diverso referente, cui i dedicanti tendono, in relazione al messaggio monumentale che intendono comunicare.
Per la popolazione greca era sufficiente sapere che veniva innalzata nella città una porta, elemento architettonico, di utilità urbanistica, e che questa era dedicata ai patroni, perché il demo (8fj[xo<;) ne potesse beneficiare.
Per quella latina, cioè per la classe dirigente romana e per l'elite locale, era invece importante valutare che il monumento si configurava come supporto onorario-trionfale alle persone della casa imperiale.
Si tratta perciò di un atto di ossequio in linea con l'ideologia dominante e quindi di completa adesione al modello politico proposto, promotore di nuove forme sociali, liberate anche negli strati più umili, ma non per questo meno dinamici, della popolazione.
In conclusione, l'arco di Mazeo e Mitridate, configurandosi come l'espressione di particolare evergetismo, si presenta come un monumento complesso, nel quale si fondono diversi e contrastanti motivi.
Allo stesso modo in cui condizioni sociali indigene si uniscono ad aspirazioni di promozione sociale, che trovano ragioni di essere nel nuovo ordinamento augusteo, per il quale personaggi come Mazeo e Mitridate, intraprendenti e forse spregiudicati, diventano elementi preziosi nel processo di romanizzazione; così motivi tradizionalmente orientali, come il propylon (jiqójtuàov), si sposano ad altri dedotti dalla più stretta tradizione trionfale romana.
E se il testo latino cerca consensi tra i maggiorenti della città, quello greco rassicura la popolazione circa l'utilità pratica dell'edificio nel contesto cittadino, allo stesso modo in cui la porta rivela esternamente il suo carattere ufficiale di facciata, mentre internamente si anima in mossi contrasti chiaroscurali, riflesso di quelle spinte più profonde, che ambiziosamente tendono ad una scalata sociale, impensabile prima dell'età augustea, ma ora addirittura incoraggiata, perché funzionale alle nuove forme di potere.
3. Il culto della gens Iulia ad Efeso.
Rimarrebbe da chiedersi se, ed in quale misura, tale messaggio costituisse una novità per la metropoli microasiatica.
Ma il culto della gens Iulia negli anni in cui fu costruita la porta, sembra fosse stato qui già ampiamente diffuso.
Si è sopra osservato che il tiqótwXov meridionale dell'àyogà commerciale si inserisce nel programma di un nuovo piano regolatore, destinato allo sviluppo delle infrastrutture civili, sviluppatosi nei primi anni dell'età augustea.
E in quegli anni che si compie l'edificazione di un complesso di edifici pubblici quali il pritaneo (itooirraveiov) (flg. 1, n. 61), il bouleuterion (fiovkevxr\Qiov) (n. 63), l'àyogct civile (n. 56), la basilica (pacrdiKii) (n. 64) ed il santuario (àyiaorfJQiov), adiacente al pritaneo (n. 62 cfr. fig. 5).
Quest'ultimo suscita interesse particolare ed è stato fatto oggetto di studi più recenti, a seguito degli scavi che in tutta l'area della città sono condotti da diversi anni e a più riprese dall'Istituto Archeologico austriaco.
Si tratta di un recinto sacro (réuevo?) porticato, all'interno del quale, sopra un podio in comune, sopraelevato di alcuni gradini, si ergono due vcuaxoi (diminutivo di vaós) prostili gemelli, databili agli ultimi anni dell'età repubblicana, per via dello stile dei capitelli ionici, a volute ricoperte da foglie di acanto.
Risultata evidente la destinazione sacra, si ipotizzò in un primo momento un altare di stato. Se non che la costruzione spiccatamente italica del podio, riconnessa ad una notizia di Cassio Dione (LI. 20.6), secondo cui nel 29 a.C. Ottaviano, giunto per mare ad Efeso, vi costruì un santuario alla Dea Roma ed al Divus Iulius, ha orientato diversamente le opinioni in proposito, che ora tendono ad identificare i resti del recinto sacro con i templi indicati dallo storico greco.
Sembra in realtà plausibile collegare all'evento del 29 a.C. un santuario tipicamente romano-occidentale, eretto in posizione preminente accanto al pritaneo e destinato al culto comune dei cittadini romani, che risiedevano o commerciavano nella provincia di Asia.
Altrettanto sollecitante si rivela la basilica adiacente al lato nord dell'agorà civile.
Questa si compone di tre navate, rialzate di alcuni gradini rispetto al livello della piazza. Contrariamente alla maggior parte delle basiliche italiche essa era aperta su uno dei lati lunghi, quello verso la piazza, dove affacciava mediante un colonnato ionico, il cui intercolumnio si presentava più stretto di quello delle navate interne (che erano su due piani, sopravanzando perciò il laterale) contrassegnato da caratteristici capitelli ionici con doppia testa di toro. Il lato posteriore era chiuso da un muro.
Sui due lati corti aderivano due «chalcidica», cioè due ingressi monumentali porticati e coperti, esattamente come richiesto dal trattato di Vi-truvio (V.1.4).
Tra i due suddetti «chalcidica», rilevante per ciò che a noi interessa si è mostrato quello orientale. Qui infatti, sigillati dal pavimento di una costruzione del VI secolo che s'impiantò successivamente alla rovina di tutto l'edificio, sono ritornati alla luce diversi frammenti di statue. Si è potuto così ricomporre tanto una testa-ritratto di Augusto con corona di quercia, quanto due statue colossali sedute di Augusto e di Livia.
È probabile che la testa-ritratto sia da riferire ad una dedica ad Augusto in lingua greca rinvenuta negli impianti termali adiacenti alla suddetta basilica nel suo lato orientale (fig. 1, n. 65).
Esistono buone probabilità per pensare che tali statue fossero state originariamente sistemate nel chalcidicum orientale. Qui inoltre si rinvennero altre due basi iscritte, che il testo in lingua greca attribuisce ai due benefattori, presumibili finanziatori della basilica: C. Sestilio Collio ed Ofilia Bassa. Da un'altra iscrizione bilingue, che correva all'esterno del lato meridionale della basilica, si apprende che gli stessi, cittadini romani (cives romani), si assunsero l'onere della edificazione in onore di Diana Efesia, di Augusto e Tiberio, della città di Efeso. Gli anni sono quelli compresi tra ITI e il 14 d.C. quando, prima della morte dello stesso Augusto, avvenuta nel 14, si era già ufficializzata l'eredità tiberiana all'impero.
Anche in questo caso quindi, come in quello della porta di Mazeo e Mitridate, un atto di evergetismo privato, questa volta di cives, onora la scelta dinastica dell'Augustus!