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Miscellanea: Il ruolo dell'etica nella struttura dell'esistenza secondo S. Kierkegaard

 
 
 
Foto Di Stefano Tito , Miscellanea: Il ruolo dell'etica nella struttura dell'esistenza secondo S. Kierkegaard , in Antonianum, 71/1 (1996) p. 105-113 .

La chiave dell'opposizione di Kierkegaard a Hegel ha il nome di inte­riorità eticoreligiosa, ch'è il sinonimo di « esistenza » e di realtà nella vita dello spirito: l'interiorità, di cui si parla, passa attraverso l'etica e si compie nella coscienza religiosa la quale trova la sua ultima concretezza nell'impe­gno e nella scelta del cristianesimo.

Se la scelta, l'impegno, la libertà strutturano l'esistenza, è per la liber­tà, fonte della responsabilità, che si apre il prologo costitutivo della fonda­zione dell'etica.

La mia riflessione pertanto parte dalla enucleazione della centralità della libertà per poi cogliere i momenti emergenti dell'appartenenza dell'e­tica alla struttura dell'esistenza.

1. Fondazione Metafisica della Libertà

La libertà per Kierkegaard si annunzia prevalentemente come potere dell'io, suo costitutivo, sua apertura fondante.

L'io si costituisce come un doppio rapporto dentro un rapporto, per­tanto l'io è principio come un rapporto derivato, quindi l'io non è una « unità », come per l'idealismo, ma una sintesi, ch'è un rapporto fra due principi: finito e infinito, tempo ed eternità, possibilità e necessità1.

Ma perché da questo rapporto sorga l'io come libertà ossia come spi­rito occorre che l'io nel duplice rapportarsi (al finito e all'infinito, al tempo e all'eternità, alla possibilità e alla necessità) non sfumi nell'uno o nell'altro dei termini, ma ritorni in se stesso, che sia il terzo.

Ma questo terzo, che è l'io del singolo (come rapportarsi del rappor­to), che ora si presenta libero come possibilità, è effettivamente libero se nel rapportarsi a se stesso si attua non come rapporto a se stesso (io = io) cioè circolare, ma che si mette in rapporto con ciò che ha posto il rapporto

intero ossia riflettendosi infinitamente nel rapporto con la potenza che l'ha posto cioè scegliendo Dio.

Per Kierkegaard Fio è libertà ma opera in quanto egli si riflette nel­l'Assoluto e questo riflettersi è riferire a se stessi l'oggetto delle scelte e la scelta stessa a Dio.

L'io è libero non perché si trasferisce e si annienta nell'infinito, nep­pure perché si lascia essere (cioè trascinare dall'infinito) nel finito, ma per­ché si erge come affermazione di capacità di scegliere l'Assoluto.

L'io allora è libero in quanto precisamente «... mettendosi in rapporto con se stesso, volendo essere se stesso, egli si fonda in trasparenza nella poten­za che l'ha posto »2.

La libertà si costituisce perciò mediante il rapportarsi dell'io a Dio; l'io non si potrebbe porre come rapporto, non potrebbe porre nessun rappor­to, se non in quanto è stato già posto da un'Altro.

Si deve dire che lo spirito, ossia l'io, attua la libertà come sintesi di op­posti cioè di finito e infinito da parte della determinazione dell'oggetto, di possibilità e necessità da parte della determinazione del soggetto3.

La costituzione in atto della libertà è nella sintesi la sua perdita nella separazione di ciascuno dei termini della sintesi: si perde la concretezza dell'io e la libertà non solo legandosi (scegliendo) al finito che è principio di limitazione, ma disperdendosi nell'infinito fantastico4: un tale infinito è per es. l'umanità in abstracto che porta ad una sentimentalità astratta e dif­fusa, fantastica appunto o ad una conoscenza astratta cioè fantastica an­ch'essa perché mai si fissa nel compito.

In questa scissione dell'io si può dire che la possibilità non è più pos­sibilità, ma il vuoto e la realtà è resa anch'essa impossibile poiché non solo non è accaduto nulla, ma neppure nulla può accadere; perché acca­da qualcosa ovvero che si attui la libertà occorre che l'io si ricostituisca come sintesi e diventi concreto e questo costituisce il passaggio dalla pos­sibilità alla realtà.

L'io si può smarrire, secondo Kierkegaard, o nella forma del desiderio vago e della aspirazione vuota o nella forma malinconica fantastica di timo­re, dell'angoscia, della speranza a vuoto...; di qui la disperazione.

Essa è doppia: o di mancare del finito scegliendo il finito fantastico (fatalismo ...) o di mancare dell'infinito scegliendo il finito (determinismo di tutte le forme).

Ora in ambedue le forme all'io viene a mancare la possibilità o perché tutto è diventato necessario perché tutto è diventato trivialità ... e tutto si esaurisce nel probabile.

La possibilità di cui si parla non è ovviamente quella della logica astratta (la mancanza di contraddizione fra i concetti), ma quella metafi­sica della divina onnipotenza perché a Dio tutto è possibile: così occorre entrare in rapporto con Dio e allora chi entra in rapporto con Dio sa che a Dio tutto è possibile.

È questo il « divenire » della realtà dell'io (libertà): così chi non ha Dio non ha neppure un io, non ha libertà per costituire il proprio io e non ha libertà perché gli manca la possibilità,mancandogli Dio: « come infatti tutto è possibile per l'onnipotenza di Dio, allora l'esistenza di Dio, ammet­tere Dio, è ammettere che tutto è possibile » nel campo dello spirito, è per­ciò costituire l'io come spirito perché l'io è spirito quando è libero e l'io si costituisce in libertà quando si rapporta nel rapporto ossia quando nella scelta l'io si rapporta a Dio che è il principio che l'ha posto (creato).

Non è perciò un io meramente umano, ma Kierkegaard lo chiama « l'io teologico » (det theologìske salv) in quanto ha preso per sua misura Dio: « è l'io di fronte a Dio. E che realtà infinita non acquista l'io, acqui­stando coscienza di esistere davanti a Dio, diventando un io umano, la cui misura è Dio! »5.

L'io si afferma pertanto mediante l'io, la libertà si attua mediante la li­bertà: io e libertà sono come il concavo e il convesso e crescono l'uno per l'altro poiché l'io è essenzialmente libertà.

Questa scelta che l'io deve fare e fa di se stesso davanti a Dio è l'at­tuarsi originario formale della libertà.

C'è un prima che non è il vuoto del dubbio, il puro nulla, ma la ten­sione dell'angoscia in cui l'io si avverte come possibilità per la possibilità di fronte alla scelta nell'alternativa fra finito e Infinito.

Si tratta in sostanza della scelta dell'ultimo fine, di ciò che nel pensiero classico era la felicità in generale, e nel pensiero cristiano il consenso esi­stenziale alla rivelazione storica di Dio in Cristo.

La dialettica quindi è tutta interna all'io - ecco la novità della prospet­tiva esistenziale, ma non ha per fondamento l'io, bensì l'Assoluto - ecco la continuità con il pensiero metafisico.

È questo l'io nella sua concretezza: questo io si è costituito grazie alla scelta ed è la coscienza di questa sua essenza libera che è se stessa e nien-t'altro, è la personalità dell'io che è passata dalla possibilità alla realtà.

2. I momenti emergenti dell'appartenenza dell'etica alla struttura del­l'esistenza

Dopo aver sinteticamente enucleato il « potere dell'io », la libertà co­me costitutivo esistenziale dell'io e prologo metafisico della fondazione dell'etica, indico alcuni momenti della visione Kierkegaardiana dell'etica.

a)   « Il sistema manca di etica »6.

Si deve osservare subito che tutti gli pseudonimi Kierkegaardiani sono impegnati nel rivendicare l'istanza etica - o meglio la sua consistenza -contro la dissoluzione che essa subisce ad opera del pensiero immanentisti­co che ha tolto Yaut-aut fra il bene e il male che è presupposto dall'etica come sfera propria della libertà.

Il procedimento di Kierkegaard avviene per tappe o gradi.

In Enten - Eller l'alternativa gioca in prevalenza fra lo stadio estetico e lo stadio etico; ma lo stesso Kierkegaard nel Punto di vista della mia attività di scrittore avverte - contro il formalismo Kantiano - che l'etica non è au­tonoma, ma rimanda all'Assoluto inteso in senso personale ossia l'Assoluto della religione7.

Kant, è vero, aveva affermato l'originalità della ragion pratica e la sua superiorità di fronte alla ragion pura, ma aveva svincolato il dovere dal rap­porto a Dio, facendo del dovere un a priori formale.

L'idealismo e in particolare la dialettica hegeliana, assumendo l'unità della sostanza spinoziana dentro l'identità di essere è pensiero, aveva abo­lito ogni dualismo e la stessa opposizione formale di essere e dovere per as­sorbirla nell'unità dialettica di particolare e universale.

Scompariva così di colpo ogni distinzione reale fra il bene e il male co­me fra il vero e il falso.

Il risultato della risoluzione idealista è che non c'è più posto per la morale; poiché dove il dovere si risolve nell'assolutezza fondante o a priori dell'Io (Kant) e nella reduplicazione dell'Io (idealismo), il dovere coincide con l'essere e la storia con la morale: « la storia del mondo co­me giudizio del mondo »8.

Ma questo per Kierkegaard è inammissibile, perché elimina il peccato e l'uomo come soggetto spirituale e responsabile.

b)   La prima metamorfosi decisiva in Kierkegaard per la chiarificazio­ne dell'etica avviene nel concetto dell'angoscia nel quale si distinguono nettamente due etiche: la prima che Kierkegaard non chiama naturale, ma « ideale », perché si esaurisce nei precetti ideali ed ignora il peccato, nau­fragando perciò contro lo scoglio della peccaminosità dell'individuo.

Invece di togliere il peccato, con la teoria del male radicale, Kierke­gaard l'approfondisce nella sua realtà umana ossia come costitutivo della realtà o accadimento storico della specie il quale condiziona, all'origine del genere umano, il comportamento di ogni uomo.

Si tratta cioè del « peccato originale »9 con il quale la rivelazione ren­de perciò vana l'etica naturale del paganesimo.

La dogmatica cristiana dà origine perciò ad un'etica nuova la quale ora presuppone il peccato e si muove in senso inverso della prima: così mentre la prima etica presuppone la metafisica e concepisce il peccato come pos­sibilità, la seconda etica presuppone la dogmatica che glielo consegna, per così dire, come una realtà di fatto. Profondamente Kierkegaard osserva che il passaggio del peccato dalla possibilità alla realtà nessuna etica la può spiegare, poiché essa é la stessa libertà: « la libertà infatti non è mai pos­sibile, ma appena è, essa è reale ».

A fondamento allora della nuova etica non sta la trasparenza della ra­gione, ma il paradosso ossia « il nuovo inizio » della fede che l'uomo è in­trinsecamente peccatore, che è stata la sua libertà (l'abuso) a perderlo ed ha perciò bisogno della grazia per salvarsi.

Il risultato di queste riflessioni è esposto nella dottrina dei tre stadi: estetico, etico, religioso che è l'oggetto dell'opera omonima del 1845. In es­sa i tre stadi non stanno astrattamente come l'immediato, il mediato e la sintesi dello schema hegeliano, ma concretamente nella determinazione dell'esistenza come perdita-godimento, vittoria-azione e sofferenza.

Il progresso dell'esplorazione rispetto ad Enten - Eller consiste in que­sto: mentre Victor Eremita svolge l'alternativa fra la vita estetica e l'etica e si stabilisce (finisce) in modo etico-religioso, negli stadi l'alternativa è in fondo fra la vita estetica e la vita religiosa.

Cioè, malgrado la divisione tripartita, anche gli stadi presentano un aut-aut poiché lo stadio etico non presenta più un'autonomia propria: esso infatti o si connette allo stadio religioso o cade nella vita estetica.

Lo stadio etico è perciò l'esistenziale decisivo poiché in esso, dalla sua presenza od assenza, viene definita la qualità dell'esistenza: infatti di­chiara Kierkegaard, « ...lo stadio etico e religioso stanno ora in un rap­porto esistenziale »10.

Per questo lo stadio estetico si esaurisce e mostra il suo risultato nel­l'esteriore ed è « tentazione »: mentre l'etica si afferma come interiorità11.

c)  È soprattutto nella Postilla conclusiva del 1846 che la metamorfo­
si ormai si afferma: l'etica, più che esprimere uno stadio intermedio,
costituisce il « momento decisivo » cioè critico originario che dà alla vita
un valore infinito: l'aspirazione etica, e non la comprensione della storia
universale (Hegel) è e resta il compito supremo ch'è posto ugualmente
per ogni uomo12.

Il momento cruciale che assume l'impegno etico è che esso non costi­tuisce tanto o semplicemente uno stadio intermedio nella via della vita quanto la sua autenticazione effettiva ossia esso costituisce la soggettività dell'uomo in quanto opera sotto lo sguardo onnipresente di Dio e perciò viene incorporato nello stadio propriamente religioso come prova proban­te o momento critico della sua autenticità.

Nella sfera religiosa infatti il compito etico non ammette eccezioni, perché ogni uomo deve essere « davanti a Dio » al quale appartiene unica­mente il giudizio: non ci può essere rovesciamento più radicale.

La sfera etica allora resta sempre l'espressione dell'umano-generale ma non nel senso hegeliano della realizzazione impersonale dell'umanità nella storia, bensì nel senso socratico-cristiano; anzitutto, che l'esigenza della legge etica è nota a tutti; poi che ognuno può ed insieme deve realiz­zarla nell'esistenza.

Ma il fondamento di questo potere e dovere è l'Assoluto teologico ov­vero il rapporto di dipendenza doppia dell'uomo a Dio: di dipendenza me­tafisica per la creazione e come essere libero di dipendenza morale come obbedienza incondizionata.

È questo il nucleo teoretico della doppia tesi della Postilla che « la soggettività è la verità e la verità è la soggettività » (P. II, sez. 2, cap. 2).

d)  L'ultima svolta dell'opera di Kierkegaard può dirsi senz'altro la rivendicazione radicale dell'etica come costitutivo esistenziale dell'esse­re cristiano.

Infatti l'etica non costituisce più uno stadio, accanto all'estetica e alla religione, ma esprime il carattere distintivo dell'impegno assoluto che esige la religione assoluta qual'è il cristianesimo: la Malattia Mortale e l'Esercizio del Cristianesimo di Anti-climacus mostrano la prima la dialettica della per­dita della libertà quando l'uomo si scandalizza di fronte all'uomo-Dio ed il secondo denunzia che il « cristianesimo non esiste più » perché la Cristia­nità stabilita è diventata trionfante, riposando sulla grazia di Cristo e go­dendosi della vita, invece di essere chiesa militante, impegnando la volontà nella imitazione del modello e rinuncia al mondo.

La rivendicazione dell'etica può essere presentata in due momenti: a) come esigenza del « volontario » come contemporaneità, e b) come attua­zione della « imitazione di Cristo » che è la contemporaneità in atto con Cristo modello.

a) L'esigenza del volontario come contemporaneità. Il Nuovo Testa­mento insegna che la salvezza è dono gratuito della divina misericordia, che la salvezza dell'uomo dal peccato è tutta grazia; ma proprio questo, os­serva Kierkegaard, significa che l'uomo deve morire al peccato, rinunzian­do alle opere del peccato.

In altre parole: nella Cristianità (specialmente nel protestantesimo, specialmente in Danimarca!) si prende Cristo come salvatore e lo si dimen­tica come modello. Ecco la denunzia: « Dappertutto nella cristianità si è abolito il momento dialettico. Si è (anticipata) la dottrina della « grazia » di tutto uno stadio.

Il cristianesimo vuole l'abbandono effettivo delle cose terrene, esige il volontario... E poi, malgrado questo, pretende che si riconosca che si è un nulla, che tutto è grazia. Ma la Cristianità ha soppresso tutto il primo pun­to, ed ha fatto avanzare la grazia; ha, per così dire, innestato la grazia di­rettamente sulla mentalità mondana »13.

Di lì a poco il momento del « volontario » è presentato come l'inve­stitura esistenziale per predicare il cristianesimo, come la forma più alta di generosità, come la forma esatta per essere qualitativamente spirito; esso è il « dinamometro » - come Kierkegaard dice altrove - della vita spirituale. È l'ultima tappa della sua comprensione del cristianesimo: « ... ora comprendo benissimo perché il cristianesimo ci tiene tanto al volon­tario. L'autorità esistenziale per insegnare corrisponde al volontario. Chi deve insegnare la povertà? Colui che lotta per avere mezzi o li ha può bensì parlarne, ma senza autorità; soltanto il volontario cioè chi volonta­riamente rinunziò alle ricchezze ed è povero, solo costui ha autorità. Chi deve insegnare a disprezzare onori e considerazioni? Chi è tappezzato di onorificenze, di stelle al merito, di nastri e vesti di velluto con guarnizioni d'oro, può bensì "docere", "declamare" ed anche insegnare, ma senza au­torità, e può diventare facilmente una raffinatezza il possedere e nello stesso tempo esaltarsi con tali declamazioni. Ma neppure lo può chi è realmente disprezzato. Dunque qui tocca ricorrere al volontario, a colui che abbandonò e rinunziò volontariamente a onori e considerazioni »14.

Il succo della perorazione sul « volontario » è questo: se sparisce la se­verità, la esistenzialità della soggettività radicale come conformità della vita con la dottrina, scompare il « volontario »15, ma se sparisce il volontario scompare anche il cristianesimo. È il « tentativo di sorpasso » o almeno di appaiamento dell'etica con la religione sul quale Kierkegaard insisterà nel­l'ultima parte della vita.

b) Il vertice dell'etica cristiana: la « Imitazione di Cristo » come con­temporaneità essenziale. Di qui si illumina il pilastro della teologia esisten­ziale di Kierkegaard che è il principio della « contemporaneità » (Samtidi-ghed) con Cristo, attorno al quale si muovono soprattutto l'Esercizio del Cristianesimo, gli ultimi Discorsi edificanti ed il concerto di invocazioni e proteste che salgono agli acuti supremi degli ultimi Diari. La contempora­neità come imitazione di Cristo può essere perciò detta l'elevazione dell'e­tica alla seconda potenza, il passo decisivo al di là di Socrate che deve fare ogni Cristiano. L'imitazione, com'è concepita da Kierkegaard, è opera di abnegazione e di amore ovvero di testimonianza integrale di fedeltà al mo­dello. Essa significa una « trasformazione qualitativa » del carattere che è la denunzia ovvero protesta contro il mondo, anzitutto contro la riduzione del Cristianesimo a cultura, ad una « dottrina oggettiva » e ad una istitu­zione od ordine stabilito e poi di conseguenza contro l'abolizione dell'asce­si, del celibato, del chiostro, del martirio... (Diario n. ri 4037, 4206). Perciò meglio il Cattolicesimo «... che ha sempre qualche cristiano in carattere » (Diario n. 4182). Il Diario della maturità approfondisce la tensione del mar­tirio in un crescendo di riflessioni che attingono alle fonti dell'antica spiri­tualità cristiana. Il martirio è presentato fin dal 1849 come l'unica conce­zione logica del Cristianesimo: non c'è « testimonianza » più alta per la ve­rità del lasciarsi uccidere per la verità stessa (Diario, n. 1435). La « passio­ne del martirio » è « l'intolleranza sofferente » del cristianesimo (Diario, n. 2502): essa è un'altra espressione della sfera del « paradosso » (n. 4021)16.

La « contemporaneità » con Cristo esprime perciò il carattere asso­luto che spetta nel cristianesimo al momento etico come rinunzia al mon­do mediante il quale il Cristianesimo è entrato nel mondo per spezzare tutte le rivalità, svelare gli inganni e trucchi, denunziare la viltà e l'astuzia dei compromessi.

L'esigenza anzitutto è metafisica, quella della presenzialità: « In rap­porto all'Assoluto non c'è infatti che un solo tempo: il presente; per colui che non è il contemporaneo con l'Assoluto, l'Assoluto non esiste affatto.

Poiché Cristo è l'Assoluto, è facile vedere che rispetto a lui è possibile solo una situazione: quella della contemporaneità ». Ma c'è soprattutto l'esigenza teologica, quella della somiglianza del credente con il modello: « C'è infatti una differenza abissale infinita fra Dio e l'uomo; perciò si è visto che, nella situazione della contemporaneità, diventare cristiani (cioè essere formati a somiglianza di Dio) è per la ragione umana un tormen­to, una miseria e un dolore ancor più grande della più grande delle no­stre sofferenze e inoltre diventa un delitto agli occhi dei contemporanei. E sarà sempre così, se il diventare cristiani significa in verità diventare contemporanei di Cristo »17.

Conclusione

Tali sembrano le tappe di sviluppo della situazione etica nella dialet­tica Kierkegaardiana, il suo itinerario di salvezza nell'incontro di ragione e fede, di libertà e grazia. Per lui il Cristianesimo non è tanto una fede nel senso di dottrina (Laere), ma è un « credere » (at troe) vivo e operoso, perciò soprattutto una « imitazione » (Efterfòlgelse). L'imitazione è l'im­pegno etico della rinunzia della mortificazione delle passioni dello spirito e del corpo, non è esibizione di orgoglio di libertà, ma atto di umiltà e strug­gimento di amore per assomigliare alla persona amata più amabile che è il Salvatore del mondo.

In definitiva, l'etica entra essenzialmente non solo nella struttura stes­sa dell'esistenza, ma nel « salto qualitativo » della fede del singolo che at­tinge il Paradosso essenziale mediante l'imitazione nella contemporaneità per essere totalmente libero nella « Verità » che salva.