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Rivista Antonianum
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Foto Buffon Giuseppe , Recensione: RONALD A. WELLS, History and the Christian Historian , in Antonianum, 75/2 (2000) p. 404-405 .

Un gruppo di tredici professori convocati da Ronald A. Wells - alcuni dei quali già professionalmente affermati altri  ancora agli inizi della carriera universitaria - si propongono di rispondere - pur senza alcuna definitività - ad alcune questioni di fondo, riguardanti l’ermeneutica storica in relazione al cristianesimo: qual è il nesso fra storia e fede? Cosa significa fare storia per un cristiano? C’è un qualche legame tra lavoro storico e convinzioni religiose? Quale può essere lo specifico di una storia in prospettiva cristiana?

Lo studio di una tale tematica sarebbe giustificato nella prospettiva della partecipazione, richiesta ad ogni categoria di storici, alla soluzione di una cristi dell’ermeneuta storica affiorata, a quanto pare, negli ultimi decenni. Se fino a qualche generazione fa si poteva pretendere di “fare storia” in modo innocente, da qualche tempo, a parere degli autori, ciò non sarebbe più possibile. L’oggettività storica non coinciderebbe con la realtà, come voleva un miope positivismo, ma solo con l’interpretazione plausibile di essa. Si tratta in sostanza del noto tema gadameriano del “non si può non essere interpreti” (Verità e metodo). Parte lui stesso di un contesto, lo storico, chiamato ad avvicinare presente e passato, sarebbe costretto a “sospettare” della verità propostagli dal testimone documentario; il suo lavoro coesisterebbe allora nel dichiarare il suo metodo di decostruzione, fornendo non la verità ma la sua visione del reale. 

Qual è dunque l’ottica con la quale lo studioso che si professa credente guarda alla realtà del passato? Questo l’interrogativo di fondo, che sembra legare in qualche modo gli interventi dei vari autori. Si tratta di studiosi che hanno lavorato all’analisi della tematica in protettiva prettamente teoretica, come lo stesso curatore (History and Historical understanding, 1984, in collaborazione con C. T. McIntire) ed altri, che hanno il merito di aver dato rilievo alla tematica religiosa come oggetto di primaria importanza per l’analisi storica (George M. Marsdem, Fundamentalism and American Culture, New York 1980; Mark A. Noll, Princeton and the Republic, 1768-1822, Princeton 1989; Margaret Bendroth, Fundamentalism and Gender, New Haven 1993). La riflessione non si ferma però solo al piano teoretico, affrontato nella prima parte. Soppesata per così dire l’epistemologia si passa a delle tematiche più a sfondo storiografico, come quella del rapporto tra cristianesimo e storia della donna (Margaret Bendroth), tra missione e crisi delle storia (Bill J. Leonard), o quelle sull’identità di gruppi confessionali (Richard Pointer), sull’applicazione dell’interdisciplinarietà a fenomeni di ordine religioso (Robert P. Swierenga) e sui conflitti storiografici con riferimento alla possibilità di una loro decodificazione (Ronald A. Wells). Una terza parte poi si occupa di alcuni problemi pratici nell’insegnamento della storia: storia, vangelo e post modernità (Jerri L. Summers); fare giustizia con la storia usando schemi narrativi (G. Marcille Fredrick); cristianesimo, storia e multiculturalismo (Edwin J. Van Kley).

Alcuni autori, in periodi diversi, soprattutto in area anglofona, si erano avventurati prima d’ora nella disamina della tematica in questione, da  Butterfild (Christianity and History, London 1949) a Dawson (The Dynamics of World History, London 1957), da Van Harvey (The historian and Believer, New York 1967), a McIntire (God, History and Historians, New York 1977). Ci si può chiedere di nuovo, come fa il curatore nella introduzione, se esiste un vero statuto epistemologico per lo storico cristiano. E’ lo stesso a rispondere: “If there is a common understanding among the thirteen scholars writing here it is that we are indeed, in a way, double-minded. On the one hand we are historians with research degrees from credible institutions. We know what history is, how to study it, and write about it.. On the other hand we insist that our standpoint – that God exists in reality and that we know  God through Jesus – has an impact on how we think about our historical tasks”(6).

Il problema così posto sembra fin troppo semplice; enucleato più nel dettaglio potrebbe però ingenerare discussioni interminabili, forse anche sterili. In ogni caso, così come viene affrontato in questa sede (specie nella prima parte) sembra il vecchio dilemma tra storia tout court o teologia delle storia presentato un tempo da Hubert Jedin, nell’introduzione al suo Handbuch der Kirchengeschichte. Gli interventi della seconda e terza parte, stimolanti se considerati singolarmente, sembrano rompere l’unitarietà del discorso; giustapposta pare specialmente l’ultima sezione, che sposta l’interesse su questioni assai distanti da quelle esposte inizialmente.  Se il lavoro, come precisato dagli autori, aveva il solo scopo di stimolarne la discussione allora si può tranquillamente ammettere che l’obbiettivo sia stato in qualche modo raggiunto.

 


 
 
 
 
 
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