Cecchin Stefano ,
Recensione: B. GHERARDINI, La Corredentrice nel mistero di Cristo e della Chiesa ,
in
Antonianum, 73/4 (1998) p. 754-760
.
Di recente, presso alcune librerie cattoliche è apparso il nuovo libro La Corredentrice nel mistero di Cristo e della Chiesa, scritto da mons. Brunero Gherardini sulla questione del ruolo di Maria nella storia della salvezza. L’opera vorrebbe dare un decisivo contributo al recente dibattito sorto anche in corrispondenza alle petizioni che giungono presso la Santa Sede per la proclamazione del dogma di Maria “Corredentrice, Mediatrice e Avvocata”. A tale riguardo era stata pubblicata nell’Osservatore Romano del 4 giugno 1997 una dichiarazione fatta da una Commissione di teologi durante il XII Congresso Mariologico-Mariano Internazionale celebrato a Czestochowa nell’agosto del 1996. Tale dichiarazione viene riportata dall’autore del libro in modo a nostro parere inadeguato (cf. pp. 53-54). Pertanto, più che una recensione, è necessario fare una chiarificazione per evitare che nella Chiesa si diffondano opinioni che sono solo il frutto di una sterile polemica data da un inutile partigianismo oramai non più in sintonia con i tempi.
Anzitutto è da chiarire che la Commissione non fu istituita dalla Santa Sede, come il Gherardini afferma (p. 54), ma dalla presidenza della Pontificia Accademia Mariana Internazionale, che scelse, come in tutti i precedenti Congressi, alcuni rappresentanti delle varie Società mariologiche e delle varie Confessioni cristiane presenti al Congresso.
La Santa Sede aveva chiesto che il Congresso studiasse il problema relativo ad una possibile pronunciamento dogmatica sui titoli di “Maria Corredentrice, Mediatrice, Avvocata”. Pertanto, non essendo il tema inerente a quello del Congresso, si pensò di istituire una Commissione che doveva dare un parere sulla possibilità di una imminente definizione. Il parere dei mariologi fu unanimemente negativo.
La dichiarazione fu breve e chiara, ma, come potremo vedere, di certo non corrisponde all’interpretazione che mons. Gherardini ne ha fatto nel suo libro. Egli, infatti, afferma che la dichiarazione nota:
un'accertata ambiguità dei titoli in oggetto, dei quali il Vaticano 2 non fece uso (“corredentrice”), o ne fece un uso molto sobrio (“mediatrice” ed “avvocata”), e dai quali gli stessi Pontefici, da Pio XII in poi, s'astennero (si vedrà a suo tempo che le cose non stanno propriamente così).
Il testo della dichiarazione invece suona:
I titoli, come vengono proposti, risultano ambigui, giacché possono comprendersi in modi molto diversi. E’ parso inoltre non doversi abbandonare la linea teologica seguita dal Concilio Vaticano II, il quale non ha voluto definire nessuno di essi: non adoperò nel suo magistero il titolo di “Corredentrice”; e dei titoli di “Mediatrice” ed “Avvocata” ha fatto un uso molto sobrio (cf. Lumen gentium 62). In realtà il termine “Corredentrice” non viene adoperato dal magistero dei Sommi Pontefici, in documenti di rilievo, dai tempi di Pio XII.
Come si può notare il testo della Dichiarazione non viene riportato in modo corretto, e ciò potrebbe indurre nell’errore chi non lo conosce. Da quanto si legge nel Gherardini sembra che la Dichiarazione dica che gli ultimi Papi s’astennero dall’uso dei termini di “mediatrice” ed “avvocata”, quando invece essa afferma che è solo il titolo di “Corredentrice” che non viene utilizzato dai Sommi Pontefici “soprattutto in documenti di un certo valore”. Al riguardo, poi, mons. Gherardini tra parentesi sostiene che tale affermazione non corrisponde a verità, ma nel capitolo III del suo libro, dove si tratta della Corredenzione e magistero, anche lui sostiene che Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI non usarono mai il titolo di “Corredentrice” (cf. pp. 125-132. Parlando di Paolo VI egli dice “è vero, non disse mai esplicitamente “corredemptrix”” p. 133). Notiamo poi che i testi di Giovanni Paolo II (pp. 135-139), dove si utilizzò tale titolo, sono documenti considerati minori (nella valutazione dei testi valgono per tutti le classiche regole del “de ratione ponderandi documenta Magisterii ecclesiastici”).
Mentre la Dichiarazione si sofferma sui titoli, Gherardini, partendo già dal principio che essi sono conformi e appropriati alla dottrina che ad essi si attribuisce, nei documenti della Chiesa legge ogni affermazione della cooperazione di Maria all’opera della salvezza come una prova della legittimità del titolo di “Corredentrice”. Il testo di Czestochowa, invece, distingue le due cose e sottolinea le difficoltà inerenti a tale titolo: esso non è accettato da molti teologi cattolici. E, nonostante fosse diffuso nei trattati prima del Concilio Vaticano II, e durante il Concilio ne fosse anche stato chiesto un pronunciamento, il risultato della grande Assise Ecumenica e i successivi documenti ufficiali della Chiesa preferirono l’uso di altri titolo come “Socia (associata) del Redentore” (Marialis cultus, 15.22), o anche il più bel titolo di “Madre del Redentore” (Lumen gentium, 61). La scelta di un lessico teologico non implicò la dottrina che esso rappresentava, anzi, i titoli scelti bene e meglio sostituiscono quello di “Corredentrice”, come ce lo dimostra l’enciclica Redemptoris Mater.
Ad ogni modo il capitolo VIII della Lumen gentium rimane la base fondamentale per ogni discorso mariologico postconciliare. In esso vi è indicata la metodologia che si deve seguire in mariologia, e certo nessuno può accusare il Vaticano II di “minimalismo” nei confronti della teologia mariana, come fu accusato impropriamente Paolo VI (Cfr. MORREALE G.M., Il culto mariano nel nuovo calendario liturgico. Esame critico e proposte, Edizioni Compagnia Maria SS. Assunta, Caltanissetta 1971), ma non possono essere considerati “minimalisti” neppure coloro che vogliono seguire con fedeltà le orme tracciate dal Concilio e dal successivo magistero pontificio a riguardo della ricerca mariologica, seguendo gli orientamenti “biblico, liturgico, ecumenico, antropologico” (cf. Marialis cultus, n. 29). Fedeltà che implica anche l’essere o non essere teologo “cattolico”.
E ancora il Concilio ricorda ai teologi che “sia nelle parole che nei fatti evitino diligentemente tutto ciò che potesse indurre in errore i fratelli separati o qualunque altra persona circa la vera dottrina della chiesa” (LG 67). Certamente questo fu uno dei motivi per cui furono evitati certi termini, come lo notiamo nei documenti magisteriali di un certo rilievo, che denotano una precisione di linguaggio e un’attenzione del tutto particolare nell’utilizzo dei vocaboli.
Diventa allora inconcepibile l’ostilità di alcuni nel volere a tutti i costi fare una crociata a favore di un titolo quando esso può benissimo essere sostituito da altri più accettabili da tutti.
Sembra poi che mons. Gherardini non nutra molte simpatie verso l’ecumenismo, ma dovrebbe ricordarsi che esso è una delle scelte metodologiche volute dal Concilio (LG 67) e riaffermate da Giovanni Paolo II varie volte; ad esempio: nella sua visita alla Pontificia Facoltà Teologica Marianum disse che occorre approfondire “la questione ecumenica che, come ho rilevato nell’enciclica Redemptoris mater, segna profondamente il cammino della Chiesa nel nostro secolo” (cf. Marianum 50 [1988] p. 26), e nell’enciclica Ut unum sint raccomanda che tra i temi che si devono approfondire nel dialogo per raggiungere l’unità tra i cristiani di tutte le Chiese vi sia anche Maria, Vergine, Madre di Dio, Icona della Chiesa, Madre Spirituale, che intercede per i discepoli di Cristo e per l’umanità intera (n. 79).
Ci soffermiamo poi su un’altra interpretazione ambigua della dichiarazione teologica, dove essa dice:
Anche se si attribuisse ai titoli un contenuto, del quale si potrebbe accettare l’appartenenza al deposito della Fede, la loro definizione, nella situazione attuale, non risulterebbe tuttavia teologicamente perspicua, in quanto tali titoli, e le dottrine ad essi inerenti, necessitano ancora di un ulteriore approfondimento in una rinnovata prospettiva trinitaria, ecclesiologica ed antropologica. Infine i teologi, specialmente i non cattolici, si sono mostrati sensibili alle difficoltà ecumeniche che implicherebbe una definizione dei suddetti titoli.
Mons. Gherardini la ripropone così sintetizzata: il risultato si concretizzò …
in un giudizio d'inopportunità della definizione dogmatica dei titoli prima indicati e delle “dottrine ad (sic!) essi inerenti”, anche nel caso d'una loro appartenenza al deposito della Fede, mancando ancora un loro approfondimento “in una rinnovata prospettiva trinitaria, ecclesiologica ed antropologica”, oltre che il consenso ecumenico.
E continua più avanti:
Che infatti una dottrina, pur appartenendo al deposito della Fede, abbia bisogno d'un approfondimento trinitario-ecclesiologico-antropologico perché l'appartenenza possa giudicarsi ufficialmente pubblica, e che a tale riguardo l'ultima parola spetti ad interlocutori acattolici, ha davvero del preoccupante. Vien da pensare se l'esser teologo abbia ancor un senso nel contesto cattolico attuale e se da questo emerga una non discutibile consapevolezza dell'identità cattolico-teologica.
Il testo della dichiarazione nella sua semplicità, come è evidente, non giunge alle conclusione edotte da mons. Gherardini. Prima di tutto la dichiarazione non afferma né che i titoli appartengano o non appartengano al deposito della fede, e neppure fa un giudizio positivo o negativo sulla dottrina che questi titoli “potrebbe” contenere. Era già stato detto prima che i titoli proposti risultano ambigui e che possono essere compresi in modi molto diversi. Vi è all’inizio del secondo enunciato un “se” che indica una ipotesi, non una verità. E questo solo per affermare nuovamente le difficoltà che i titoli comportano, difficoltà che possono implicare un corretto intendimento del contenuto che essi potrebbero, come non potrebbero significare. Solo un atteggiamento partigiano potrebbe negare che vi siano delle difficoltà nella teologia cattolica odierna nei riguardi del titolo “Corredentrice”.
Inoltre è assurdo affermare che una dottrina che appartiene al deposito della fede non abbia bisogno d'un approfondimento trinitario-ecclesiologico-antropologico per essere dichiarata ufficiale nella Chiesa. Forse che l’Immacolata Concezione e l’Assunzione di Maria non appartenevano al deposito della fede sino alla proclamazione del dogma? Eppure anche per queste verità, che sono sempre appartenute al deposito della fede, vi è stata una progressiva scoperta che ha condotto la Chiesa alla solenne definizione dogmatica, e tale definizione non ha esaurito la successiva ricerca e l’approfondimento continuo di queste realtà di fede. Se non dobbiamo approfondire i contenuti del deposito della fede a che servirebbero i teologi?
A tal riguardo la preoccupazione di mons. Gherardini sembra priva di fondamento, anzi, la sua preoccupazione ecumenica sembra quella di chi non ha accettato o compreso l’ecumenismo nell’ambito della Chiesa Cattolica. Il testo di Czestochowa, infatti, non vuole in nessuna maniera dire che bisogna chiede ai fratelli delle altre Confessioni cristiane il loro “placet” per una definizione dogmatica, e neppure che l’ultima parola spetti a loro. Il testo mette in evidenza solo le difficoltà che si possono avere nel piano ecumenico, e questi teologi “non cattolici” in quel momento erano solo una voce, invitata, che esprimeva un parere totalmente libero e non decisivo per la ricerca cattolica.
Rileviamo pertanto che la lettura fatta da mons. Gheradini del testo della Dichiarazione sia del tutto incorretta se non politicamente azzardata. Questo potrebbe mettere discredito su tutta la sua opera, perché se ha travisato un testo così semplice, o lo ha interpretato in una maniera così inesatta, che cosa si potrà credere dell’interpretazione degli altri testi citati?
Essere teologi significa anzitutto essere umili di fronte al mistero e onesti di fronte alle fonti, favorevoli o contrarie. Credo che oggi sia anacronistico fare teologia alla maniera o con lo stesso animo che faceva guerreggiare i francescani con i domenicani per il dogma dell’Immacolata Concezione. Il principio della carità deve animare ogni ricerca teologica, nella collaborazione e nella diversità di opinioni, non cercando di distruggere l’altro o meglio di interpretarlo alla propria maniera.
Ci fa pertanto riflettere molto quanto lo stesso Gherardini afferma come introduzione al capitolo IV del suo libro. Egli spiega che ha posto il magistero prima della Sacra Scrittura per seguire il procedimento della classica dimostrazione teologica che “prevede in primo piano la proposta magisteriale d’una data verità o d’una tesi teologica e soltanto dopo introduce la prova dedotta dalla Sacra Scrittura, dalla tradizione patristica e dalla ragione teologica” (p. 147).
Al riguardo ricordiamo solo quanto dice Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica Pastores dabo vobis al n. 54 “Nella sua riflessione matura sulla fede, la teologia si muove in due direzioni. La prima è quella dello studio della parola di Dio : la parola scritta nel Libro sacro, celebrata e vissuta nella tradizione viva della chiesa, autorevolmente interpretata dal magistero della chiesa. Di qui lo studio della sacra Scrittura, “che deve essere come l'anima di tutta la teologia”, dei padri della chiesa e della liturgia, come pure della storia della chiesa e dei pronunciamenti del magistero”. E la Congregazione per l’Educazione Cattolica nella lettera circolare La Vergine Maria nella formazione intellettuale e spirituale al n. 24, continua: “Anche per la mariologia vale la parola del concilio: “La sacra teologia si basa come su un fondamento perenne, sulla parola di Dio scritta, insieme con la sacra tradizione, e in quella vigorosamente si consolida e ringiovanisce sempre, scrutando alla luce della fede ogni verità racchiusa nel mistero di Cristo”. Lo studio della sacra Scrittura deve essere dunque come l'anima della mariologia”.
Ma tralasciando la critica alle scelte metodologiche fatte in sintonia o no con il Concilio Vaticano II, ritorniamo a ribadire che la Pontificia Accademia Mariana con la dichiarazione di Czestochowa non aveva nessuna intenzione di creare polemiche o di schierarsi a favore o contro di nessuna posizione teologica. Essa ha voluto solo rispondere ad una richiesta fatta dalla Santa Sede, consultando alcuni teologi e riportandone l’opinione. Se la commissione di Czestochowa fosse giunta a diversi risultati sarebbe stato nostro dovere diffonderli, spiegandone la genesi e le conclusioni. E questo è stato fatto a seguito della dichiarazione con la pubblicazione, fatta da nostri collaboratori, di un articolo in cui si cercava di spiegare in breve i motivi di tale risposta. Tale articolo, sinteticamente aveva raccolto i motivi che avevano indotto la Commissione a dare un parere negativo su una imminente proclamazione dogmatica. In poche parole il fine della dichiarazione era quello di dire che l’argomento in questione necessita ancora di essere approfondito, e per questo è inopportuna ora una definizione dogmatica, che potrà essere fatta quando ci sarà una maggiore unità teologica dell’argomento. Inoltre molti teologi oggi si chiedono se è necessario una nuova definizione dogmatica, e se i tempi sono maturi per essa. Questo problema forse è già stato superato da mons. Gherardini, ma trova molti che lo ritengono ancora una “questione bisognosa di chiarimento”.
La Pontificia Accademia Mariana Internazionale, centro di incontro dei vari mariologi del mondo, ha constatato che il mondo della mariologia attuale non è concorde sulla univoca e corretta lettura dei tre titoli in questione, soprattutto nell’abbinamento di essi in una sola definizione dogmatica. Czestochowa ci esorta ad approfondire lo studio, a riflettere sul perché questi tre titoli sono evitati o poco usati nel Magistero della Chiesa negli ultimi cinquant'anni: forse perché non sono i più adatti per esprimere il contenuto a cui si riferiscono?
Allora il commento della PAMI alla Dichiarazione teologica conclude dicendo:
Sorprende, in un certo senso, la estrema sobrietà con cui la Dichiarazione di Czestochowa allude alle gravi conseguenze negative che, sul piano ecumenico, avrebbe la definizione dogmatica dei titoli in questione: “Infine i teologi, specialmente i non cattolici, si sono mostrati sensibili alle difficoltà ecumeniche che implicherebbe una definizione dei suddetti titoli”. Encomiabile moderazione. Perché, in definitiva, il nocciolo della questione è altrove: nella necessità di un “ulteriore approfondimento” dell'intera problematica, compiuto “in una rinnovata prospettiva trinitaria, ecclesiologica ed antropologica”.
Ma al riguardo ribatte ancora il Gherardini:
L'ambiguità c'è, ma non là dov'è stata segnalata. Non l'ambiguità di quei titoli che sintetizzano, anche lessicalmente, le corrispettive dottrine, ma l'ambiguità di chi si proclama d'accordo con le dottrine e non accetta i titoli. È il caso del servizio che la Pontificia Accademia Mariana Internazionale pubblicò su “L'Osservatore Romano” del 4 giugno 1997, p. 10, seguito a p. 10-11 da un articolo di S.M. Perrella sull'attualità della questione. Due scritti egregi, animati da un'ottima intenzione, quella di ricercare le ragioni che consiglian il rifiuto, o l'accantonamento di certi titoli per una migliore comprensione della soggiacente dottrina. Peccato che non si colga l'ambiguità nella separazione della dottrina dai titoli che l'esprimono.
Il gioco di parole accusa l’ambiguità di chi non è d’accordo con l’autore del libro nel ritenere che i titoli non esprimono correttamente la dottrina che ad essi si vuole attribuire. Sono posizioni teologiche diverse, tutte rispettabili e con diritto di parola, soprattutto se enunciate da teologi fra i più “affidabili”, come afferma il Gherardini a p. 54, non si sa se per convinzione o per ironia, ma non vogliamo entrare nella questione. Scopo della dichiarazione della PAMI era quello di mettere in luce il divario di posizioni. E tale scopo è stato raggiunto.
L’amarezza ci viene solo dall’aver constatato l’ambiguità con cui mons. Gherardini ha riportato e interpretato il testo di questa dichiarazione. Ci auguriamo solo che questa ambiguità non comprometta la credibilità di tutto il suo libro, altrimenti la sua opera potrebbe diventare un altro ostacolo alla causa della Corredenzione di Maria. Di certo crediamo che un certo modo di fare teologia, che non tiene conto di un linguaggio e delle indicazioni metodologiche date dal magistero conciliare, non sia molto producente soprattutto nei confronti di chi guarda ancora con sospetto l’argomento mariano.
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